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Uno va, l’altra resta. C’era una volta di Noemi Francesca

C’era una volta di Noemi Francesca è tra i testi vincitori dell’edizione 2024 del Premio Nuove Sensibilità 2.0 indetto dal Teatro Pubblico Campano. E, in accordo di programma, è stato scelto dal Nazionale di Napoli affinché diventasse una sua produzione. Andata in scena per sei giorni, tra debutto e repliche, al Ridotto del Teatro Mercadante. Buio in sala, sale la luce, s’intravede qualcuno. 

Foto Ivan Nocera

Un letto, nel letto c’è un uomo, l’uomo sta per morire. Potrebbe trattarsi di un giorno o di pochi minuti non importa. Per noi sarà ancora vivo per un’ora. Pigiama a due bottoni, sul torace il taschino, il volto larvale: gli occhi ingigantiti dal prosciugamento della carne, al posto delle guance due scavi, i capelli attaccati alle tempie dal sudore. Non ha mai il corpo stirato, come se la fine gli stesse già torcendo le membra. Le ginocchia nette come noci di cocco, i piedi buoni per un crocifisso cristiano, le dita delle mani che non tengono più le cose o si congiungono malamente: un pollice e un indice attaccati, per esempio, che a un punto gli sporcano la figura. Il rossore alle palpebre, i peli sotto al mento, il sorriso che gli espone le gengive superiori. Il bordo d’ombra delle rughe, il labbro inferiore che trema. Ecco, oggettivamente abbiamo questa carcassa che vive ancora e che è ancora dunque il professore a cui non piacciono le cravatte, il marito che ama i dolci, il padre che inventa le storie, il fratello magro come uno stuzzicadenti, l’amico che prendeva i voti bassi. Quello del dopobarba, delle sigarette, dei cd dei Deep Purple, degli zoccoli di legno, dei cruciverba, dei manfredi con sugo e ricotta – per citare Luna-57, con cui Noemi Francesca racconta di una figlia che dice addio a suo padre trasformando la morte in un viaggio interstellare (una data al Campania Teatro Festival 2024) – ma che adesso non mangia né beve da giorni, ha le piaghe da decubito, la gola secca, la pelle calda, le piastrine scarse. La tintura che gli lascia sbiaditi i capelli, la schiena come quella di un cane in punizione, in scena sta cinto da chi lo assiste o viene a trovarlo per l’ultima volta. Ascoltiamo perciò, come voci provenienti dall’esterno, l’infermiera che lo deterge («ci siamo quasi», «ecco fatto», «abbiamo finito»), gli amici che entrano («disturbo?», «posso vederlo?», «passiamo più tardi») e che gli si rivolgono come fosse già un pugno di terra sul fondo della fossa, la moglie e le figlie che gli asciugano la fronte, gli spalmano la crema, gli stringono la mano, gli danno una carezza. I colloqui in disparte in cui dirsi che non c’è alcuna speranza, le bugie per sollevare un attimo la mannaia («ti trovo benissimo»), il caffè preso per togliersi dalla pesantezza della stanza, gli addii che diventano «ci vediamo», le domande retoriche sulla torta («è panna o crema?», «ci sono le fragole?») che servono a rompere silenzio e imbarazzo in questo che è anche il giorno del suo compleanno. Poi arrivano i medici, «edema sanguinolento» commentano come si trattasse del risultato di una partita, il bisturi, la pinza, il tampone usati con la franchezza con cui a tavola si maneggia la forchetta, qualcuno nota che il cielo non era così nero poco fa, una finestra viene aperta e richiusa, «vi prego fate piano» si sente, perché quel che afferrate come un tappeto è mio padre e – con addosso la sensazione falsa che la terra venga meno (è lo squarcio che s’apre per chi soffre mentre fuori prosegue tutto identico a un minuto fa) – la madre conferma che «è finita» mentre la figlia insiste: «non aver paura», «sono con te», e ripete due volte «papà».

Foto Ivan Nocera

Se C’era una volta si limitasse a questo potremmo associarlo all’interminabile racconto che chi vive compie di chi è morto, che impegna anche il teatro. Chicco che in Vita mia di Emma Dante continua a girare sulla Graziella ammaccata nonostante la veglia sia stata organizzata per lui, Maria che ne Le sorelle Macaluso danza verso il fondo la propria sparizione, il vecchio che in Beckett Box di Teatropersona appassisce in soffitta ricongiungendosi all’infanzia, la moglie de Il nullafacente di Santeramo, che ha solo il tempo che ci separa dal buio di fine spettacolo, il padre che De Summa raggiunge ne L’ultima eredità dopo un viaggio Bologna-Mesagne compiuto per dirgli «grazie» prima che sia tardi, Carol che in Anatomia di un suicidio ha l’ombra sul collo già all’inizio dell’opera – per dire di chi mi ricordo mentre scrivo. Ma Noemi Francesca tenta qualcosa di diverso perché, datoci il morire come fatto accaduto che sta per accadere di nuovo, offre al morente la possibilità di dire il suo stesso morire soggettivamente. È l’estremo, che per chi rimane diventa un tarlo senza risposta – che pensavi mentre te ne andavi? Hai sentito dolore? Vedevi che ti stavamo accanto? E cosa volevi dire guardando nel modo in cui ci hai guardato? – giacché è la morte vissuta non dalla vita ma dalle soglie della morte. Al centro del palco c’è dunque il corpo scarnito di Michelangelo Dalisi, sta nel letto con la spalliera turchese, le lenzuola bianche e i pomelli che rimandano ai teschi del Purgatorio ad Arco di Napoli, che è luogo di trapasso mezzano (i buchi fanno da incavo oculare, un anello è la mascella sbracata), mentre tutto quel che lo circonda e ci viene dato è ciò che lui vede, sente e ricorda nel modo in cui lo vede, sente e ricorda. È un rovesciamento di prospettiva, per cui chi sopravvive è reso da chi va via. «Sapete che mi hanno detto? Che più ti avvicini da quelle parti più le cose si fanno lontane. Le voci, i colori, i contorni dei visi, gli oggetti, questa torta, il cielo, il pavimento, tutto», anche «noi che stiamo qui adesso» afferma la moglie di Marco, l’uomo cioè dal quale siamo visti mentre è lui che finisce. «Ecco, prendete noi qui mentre mangiamo, mentre chiacchieriamo. Immaginate che poco alla volta ci allontaniamo, che diventiamo più piccoli, più distanti. Restiamo sempre noi, come in una foto. Noi che eravamo lì, proprio in quella foto, adesso siamo altrove, dall’altra parte, staccati a guardare quella foto». Parla così perché continua a respirare, direbbe Canetti, è cioè tra le persone che stanno attorno al cadavere tanto quanto accade ne La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj per esempio. Insomma, seguirà il feretro ma non sarà la persona nella cassa. C’era una volta ci porta invece negli occhi e tra il petto e la testa di chi finisce nella bara.

Foto Ivan Nocera

Oltre al letto ci sono un appendiabiti coi costumi di scena e il polistirolo d’una torta a otto piani sulla destra, a sinistra due casse teatrali fanno da base a una madonna e a un campetto da calcio con porte, spalti, erba finta e una bandiera biancazzurra. Un grosso libro di cui vediamo i disegni autobiografici, inquadrati da una telecamera maneggiata dalla figlia (sopravvissuta a quel dolore e che qui agisce da serva di scena e testimone perché la storia permanga) che, durante lo spettacolo, punta l’obiettivo ora sui dettagli del padre – l’accenno di un’occhiaia, l’arrossamento della cute, tre dita che spostano una pagina – ora su delle statuine di cartongesso da fiaba che rimandano alle figure richiamate nella trama: la moglie di Marco è Biancaneve, le figlie Cappuccetto Rosso e la piccola fiammiferaia, la Fata Turchina è l’infermiera, i medici sono i tre porcellini (portano con sé il lupo ovvero la fine) e i nipoti Hansel e Gretel, l’amico d’infanzia Pinocchio mentre la sorella è una strega. È la soggettiva con cui l’uomo che amava le favole deforma in ultimo tutto quello che ha attorno ovvero è il mondo visto da chi sta morendo nell’istante in cui sta morendo. In questa dimensione, altrimenti per noi inaccessibile, Marco divora una fetta di torta, beve un bicchiere d’acqua senza limitarsi (come avviene dal nostro punto di vista) a bagnarsi le labbra con due gocce e quando spegne le candeline emette una lacrima non perché è felice, come racconta, ma perché sa che è il suo ultimo compleanno da vivo. Pensa alle scarpe messe già vicino alla porta, a un punto si sente sul fondo di un pozzo e quando la figlia si piega sfiorandogli una guancia col naso si chiede «è questa l’immagine del lieto fine?». Rincontrare a distanza di anni un amico significa stringergli la mano, compiendo un gesto che in realtà non accade, e tornare con lui ai banchi dai quali rubava le caramelle per poi ritrovarsi al solito posto, conosciuto dai due. Il sapore della liquirizia, l’abbonamento della metro, la frittata di mamma, la volta in cui cadde nel fiume e le frasi sempre identiche perché come al solito c’è chi è puntualmente in ritardo. Intorno dicono che «è molto stanco»? Nel frattempo Marco torna a correre girando attorno al letto sei volte, schiena diritta, braccia alzate e mani nel vento. È il principio d’una rivolta del corpo pensato ancora libero contro il corpo ingabbiato dalla malattia che lo porta, al cospetto di parenti ed amici, a palleggiare sessantadue volte (il numero dei suoi anni) come faceva quando giocava: nell’aria l’eco della scarpetta che ribatte sul pallone di cuoio, sul fondo La mano de Dios di Rodrigo Bueno: forse perché lo chiamavano «Maradona», forse perché tifa Napoli, forse perché i morti infine chiamano i morti. Le frasi «sarebbe bello se potesse tornare tutto d’accapo, se tutto si ripresentasse di nuovo»; il desiderio di «stare un altro po’ qui»; il momento in cui fuori cercano di tenerlo in vita mentre dentro lui saluta («vi voglio bene») e dice «lasciatemi andare», «voglio che finisca quest’avventura». Dopo essersi vestito da solo per le esequie (abito nero, camicia bianca, senza cravatta) ed essersi intrattenuto sul guado con un amico defunto. Lo sguardo sereno, il corpo seduto, i piedi staccati da terra: «che sto morendo me lo potevi dire», «non ho paura», «io ce l’ho messa tutta».

Foto Ivan Nocera

Le ultime immagini di C’era una volta sono quelle d’un video del 1994 proiettato sulla parete di fondo. Un armadio chiaro, sull’anta uno specchio dal quale s’intuisce un letto simile a quello montato in assito. Una bambina che è l’attrice da piccola – felpa rosa, caschetto nero, in una mano un foglio di carta, in testa un berretto verde al contrario – viene interrogata dal padre sulla fiaba di Cappuccetto: nel bosco, chi incontra, il cacciatore a chi spara. Il video finisce spezzando la frase «vissero tutti felici e contenti» nel mezzo. Prima altri filmati hanno infilzato il lavoro: un compleanno festeggiato davanti a una torta identica a quella di scena, con sopra due candeline, intorno cugini e parenti e una voce che dice «forza soffia»; la stessa bambina al parco che cala dallo scivolo, cavalca una giostra e scende da uno scalino; il capodanno del 2000, la tv con Rutelli che dice «amici romani» e «spumante italiano» dando il via al conto alla rovescia mentre qualcuno in casa s’avvede ed avverte: «oh, è mezzanotte!»; il Natale del 1998 (i mobili scuri, le mense coi ninnoli, le tende spesse, lo scambio dei pacchi e un uomo vestito da Babbo Natale tra lo stupore dei piccoli e un coccodrillo in peluche); una mattina al mare nel 1999, con la bimba intenta a scavare la sabbia e la madre inquadrata per un attimo. Un uomo in pantaloncini, il sole che indora le immagini, il sonoro di chi va sott’acqua. Che a Marco, ammesso si chiamasse così, piaceva tuffarsi di petto nelle onde increspate. Nei video dunque primi piani di lei dall’infanzia, occhi neri e come una malinconia costante nell’espressione. Pare l’ombra di un dolore in anticipo, sembra il presagio d’un colpo destinato ad arrivare prima di quanto sia tollerabile. I video danno senso ulteriore al racconto, confessano una speranza indicibile – quella di far parte degli ultimi pensieri di chi stiamo perdendo per sempre – e sono tra le cose che restano. Come le cravatte che Paul Auster afferra ne L’invenzione della solitudine quando svuota la casa paterna o i peli della barba trovati da Valerio Magrelli nel rasoio in Geologia di un padre. Sono la restanza materiale di quel che la morte s’affretta a sgombrare e che l’oblio corrode e disintegra. Tant’è, non si salvano che certi residui: l’odore dolce di una maglietta, l’ultima camicia indossata, il modo in cui si teneva in piedi poggiando la mano sul bordo del letto; i silenzi dei viaggi in macchina, la canottiera bianca, l’odore di cioccolato a dicembre; l’alfabeto detto dalla prima all’ultima lettera, il nome del suo  meccanico di fiducia, l’elenco di ciò che mangiava la sera di domenica guardando la partita, la sua voce alla fine diventata bassissima o la frase «ti voglio bene per sempre», se si è avuto il tempo o la fortuna di dirsela. Poi «un bel giorno mio padre salpò. Mi saluta da lontano. Io rimasto a riva. Lo vedrò, mi vedrà, ancora per poco. Saluta e sorride, s’imbarca» scrive Magrelli, e dunque «è stato. Non sarà più. Rimemora» chiosa Paul Auster. D’accordo, ma che in che modo

Foto Ivan Nocera

In apparenza Noemi Francesca sceglie la fiaba grazie alla quale, direbbe Cristina Campo, «la vita si cerca in due direzioni, verso le più buie regioni e verso il cielo», e sceglie il cinema perché le consente la soggettiva e, per citare Attilio Scarpellini, perché attraverso le foto (e le foto in sequenza alla base del cinema) «i morti tornano nell’eterno presente dell’immagine» rendendo l’effimero riproponibile. D’altronde, come scrive Emanuele Trevi in Sogni e favole, «cos’altro vediamo al cinema, cos’altro ci mostra un film, se non l’aldilà? Tutto ciò che è stato e non sarà mai più è una specie di film, tutto ciò che vediamo in un film assomiglia in maniera sconcertante al disperato desiderio di persistenza che fa dell’anima, come è lecito supporre, la parte più sottile e tenace del nostro corpo». Da un lato dunque gli amici trasformati in Mangiafuoco o Raperonzolo, dall’altro la telecamera, le inquadrature live e la riproposta dei filmini di famiglia. Eppure è il teatro che permette davvero ed in carne la memoria di ciò che è passato. È quest’arte misera talvolta tecnicamente, che ha le scene o gli oggetti di legno e di carta, che riflette nelle proprie mancanze i vuoti di cui facciamo esperienza nella vita. Per questo ogni spettacolo è anche una visione d’assenza, di cui non ci resta che trattenere i dettagli. Nel mio caso: le dita della figlia che misurano i battiti al polso del padre, il braccio teso di Michelangelo Dalisi, il suo sguardo verso quella che per quest’ora è stata sua figlia e il modo in cui le sorride muovendo a stento le labbra; gli occhi di entrambi rapiti da una lettera che divampa in un attimo, le vene in rilievo, la secchezza dei tendini, il collo incavato nel colletto della camicia quando l’uomo s’abbiglia per il funerale. Le candeline della torta spezzate, i bordi consunti della testata del letto, le statuine come morse o bruciate dagli anni. Il pigiama arrotolato malamente accanto al cuscino, il posto in cui per l’ultima volta padre e figlia sono stati accanto – vedo l’impronta del peso per alcuni istanti impressa al lenzuolo – e la sagoma di lei, seduta, sola, di lato e in penombra. Perché alla fine questo comunque succede. Che uno va, l’altra resta. E gli tocca impegnarsi nel ricordo. Coi mezzi che tiene, per quanto possibile, con la forza che ha.

Alessandro Toppi

Ridotto del Teatro Mercadante – Napoli, maggio 2025

C’ERA UNA VOLTA. MANUALE DI SOPRAVVIVENZA PER IMMAGINI

testo e regia Noemi Francesca

con Michelangelo Dalisi, Noemi Francesca

scene Cristiano Carotti

luci Carmine Pierri

aiuto regia e dramaturg Riccardo Festa

voci registrate Micaela De Rossi, Riccardo Festa, Dario Guidi, Alessandra Masi, Marco Palange, Noemi Pallino, Paola Pessot, Mario Russo, Pierpaolo Sepe

un ringraziamento a Davide Francesca per i filmati d’archivio

produzione Teatro di Napoli-Teatro Nazionale

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Alessandro Toppi
Alessandro Toppi
Alessandro Toppi è critico e giornalista napoletano. Scrive prima per il Pickwick, di cui è fondatore e direttore fino al 2022. Dal 2014 è redattore per Hystrio, dal 2019 scrive per le pagine napoletane de la Repubblica e dal 2020 è direttore de La Falena, rivista semestrale di cultura e teatro promossa dal MET di Prato. Negli anni suoi interventi, prefazioni, postfazioni e approfondimenti sono comparsi in varie pubblicazioni. Del 2024 la curatela condivisa con Maria Procino del volume Tavola tavola chiodo chiodo… Il teatro di Eduardo nello spettacolo di Lino Musella edito dalla redazione napoletana de la Repubblica.

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