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Serena Sinigaglia. La forza della coralità femminile in teatro

Serena Sinigaglia è andata in scena con L’Empireo di Lucy Kirkwood al Teatro Nazionale di Genova. L’abbiamo intervistata partendo proprio da questo spettacolo per allargare poi la conversazione al mestiere della regia e al teatro di oggi. A Siracusa (dal 13 al 27 giugno) dirigerà la Lisistrata.

Sono le nove del mattino, sento i raggi del sole che cominciano a scaldarmi il viso e che mi segnalano che la primavera è ormai alle porte. E forse lo stesso calore ha sfiorato le braccia tese di quelle donne che, nell’Inghilterra del 1759, anno in cui è ambientato L’Empireo di Lucy Kirkwood, strofinavano con abbondante acqua saponata i loro panni prima di stenderli ad asciugare. Sono di fronte al mio portatile, telefono alla mano, il numero di Serena Sinigaglia che si illumina sullo schermo. Dopo pochi squilli, sento la sua voce dall’altro lato del telefono.

L’empireo. Foto Serena Serrani

Partirei subito con una domanda sullo spettacolo in scena al Gustavo Modena. Quale esigenza l’ha spinta a portare sulle scene italiane L’Empireo di Lucy Kirkwood?

Questo testo mi è stato proposto dalla infaticabile Monica Capuani, scrittrice e traduttrice dall’inglese e dal francese che negli ultimi anni ha sviluppato un rapporto molto intenso con Londra. È grazie a lei che abbiamo accesso a una larga parte della drammaturgia contemporanea inglese. Monica mi ha sottoposto questo testo immaginando che potesse interessarmi e così è stato. Anzi, è stato quasi una folgorazione, perché questo testo di Lucy Kirkwood ha in sé tutta una serie di caratteristiche che per me sono irresistibili.

Prima di tutto, è un testo corale, e oggi come oggi, anche per via delle difficoltà di mercato, si trovano sempre meno testi corali. Si arriva al massimo a cinque, sei personaggi, in modo da tagliare i costi. Però noi sappiamo qual è l’origine del teatro, ovvero la polis che parula alla polis, e di conseguenza il teatro corale è il teatro più teatro che ci sia. Io amo la classicità e la coralità in scena, il suo impatto politico e quindi già questo aspetto mi ha attirato. Poi, seconda considerazione, ognuno dei personaggi di questa coralità ha una tridimensionalità, una verità straordinaria, nel senso che non c’è  un protagonista assoluto. Sì, certo, l’allevatrice e l’imputata hanno un ruolo determinante, ma tutti i personaggi, anche quelli che hanno meno interventi, sono talmente vividi da essere persone a 360 gradi. E questo soltanto pochissimi grandi autori nella storia del teatro ci sono usciti, come Cechov e Shakespeare. La Kirkwood qui, proprio secondo la tradizione shakespeariana, c’è riuscita. La terza ragione è un’altra originalità rispetto al panorama della drammaturgia contemporanea, cioè il fatto che è un dramma storico. È ambientato nel Settecento, proprio nello stesso giorno in cui passa la cometa di Halley, in una provincia rurale del nord-est dell’Inghilterra. Siamo lontani dal contemporaneo, siamo lontani anche dal passato prossimo e da qualsivoglia forma di borghesismo.

L’empireo. Foto Serena Serrani

E questo l’autrice lo fa per delle ragioni molto precise, per i temi che ha scelto di trattare, che sono il quarto motivo, ovvero la questione femminile. È infatti sul corpo della donna come primo segnale dell’incapacità di creare una società egualitaria e giusta che si vedono i segni delle ingiustizie che avvengono rispetto a qualsiasi minoranza. La donna ha fatto parte di una categoria fragile che è storicamente una delle più antiche parti sociali vessate e massacrate. Quindi, lei affronta la questione femminile, che sappiamo essere più che mai calda, attraverso la prospettiva storica, e la mette di fronte a noi, lontano e in un momento particolare: la metà del settecento è il momento di passaggio dalla vecchia sapienza tutta femminile delle levatrici, del parto in casa, delle conoscenze anche un po’ segrete da cui gli uomini erano esclusi (avevamo una donna che aveva ancora possesso del suo corpo), all’irrompere dell’atteggiamento scientifico con la rivoluzione industriale. E questo anche sul corpo delle donne che vengono espropriate del sapere che avevano loro su sé stesse.  E l’ultima ragione è che tutto questo è raccontato, secondo la tradizione di Shakespeare, in chiave tragicomica, di unione di sacro e profano, nel senso che è un testo in cui si ride, si piange, lieve e leggero, di quella leggerezza che è propria di Italo Calvino. È coinvolgente e appassionante come vedere una crime story, un legal crime, contemporaneamente però toccando vette di enorme profondità e di emozione.

Foto Serena Serrani

Il collettivo de L’Empireo, però, non è un gruppo unito e concorde. Nella messinscena, Sally, nella sua presunta colpevolezza, viene trattata al pari di un animale, anche da parte di quel gruppo di matrone che dovrebbero comprenderla. Secondo lei come può il mondo femminile trovare una forza nell’insieme?

È difficile creare un sistema di solidarietà quando si è vittime, quando si è ai margini. Difficile dire a una persona che non ha da mangiare e finalmente ha un tozzo di pane, darlo alle altre. Quindi bisogna stare attenti nel valutare la presunta incapacità delle donne di solidarizzare. La prova dei fatti, ed è così anche nel testo della Kirkwood, in realtà è una altissima prova di democrazia e di dialettica. Perché realmente queste persone, alcune di queste anche molto ignoranti, non hanno la convinzione che la ragazza sia incinta. È prova di dialettica e direi anche quindi di vera democrazia, quella di non essere tutti d’accordo, tutti per uno, uno per tutti. Questo resta nell’ambito della dialettica ed è così, perché poi alla fine in qualche modo il gesto più profondo, che è un gesto non teorico ma pratico, lo fa il personaggio da cui meno ti aspetti un gesto di solidarietà e questo invece proprio mostra che cosa sia la sorellanza a seguito del colpo di scena finale, coprendo il gesto di pietà di Elizabeth.

Io credo che nella storia la donna ha sicuramente dimostrato di saper essere sodale soprattutto su questioni di vita e di morte, su questioni epidermiche. Dal punto di vista invece più politico o quotidiano, a volte le donne si fanno la guerra tra loro perché hanno ricevuto storicamente le briciole del tavolo e la fame imbestialisce qualsiasi natura. Allora vediamo cosa succede quando finalmente si ha una parità, non sono le briciole, non ci sono sperequazioni di posizioni, di ruoli. Quando parliamo di donna e uomo dobbiamo anche proiettarci fuori dall’ottica di genere, più immanente, quindi con i suoi problemi, le sue ingiustizie, le sue iniquità, guardando anche al principio femminile e al principio maschile. Il principio femminile è un principio arcaico, carnale, intimo, se vogliamo caotico, emozionale, creativo. Il principio maschile è il principio normativo, è il principio intellettuale, è il principio prettamente razionale, è il principio di derivazione giuridica, patriarcale. Queste due forze, queste due caratteristiche, ce le abbiamo dentro di noi, sia che siamo uomini, sia che siamo donne, ed è un peccato che il principio femminile sia stato relegato alla sola sfera privata nel corso della storia.

Io credo che tutte le grandi autrici come Kirkwood ci stiano anche parlando di questo, cioè se l’umanità schiaccia un principio o lo relega ad una sola sfera ci sarà uno squilibrio che peserà sull’infelicità degli uomini e sulla loro miseria. Il discorso è che non dovrebbe prevalere un principio sull’altro ma dovrebbero collaborare e compenetrarsi per generare una reale conoscenza, e allora in questo senso, quando si parla di solidarietà tra donne o invece di competizione, penso che le donne siano competitive quanto gli uomini, sodali quanto gli uomini, però nei momenti estremi le donne storicamente hanno dimostrato di potersi unire con forza e fare la differenza.

Supplici. Foto Serena Serrani

Come si è avvicinata al mondo della regia? Cosa vuol dire essere una regista nel panorama teatrale italiano attuale?

Alla regia ci sono arrivata un po’ per caso, Pasolini direbbe “per disperata vitalità”. Ero molto giovane, avevo 18 anni e l’università mi stava molto stretta. Sentivo il bisogno di altro, ma non sapevo cosa fosse, questo altro. Sapevo ciò che volevo, perché avevo senso, pienezza dell’esperienza. Ho provato a caso a fare un corso di teatro, ho visto che mi stimolava e ho sostenuto l’esame all’accademia d’arte drammatica Paolo Grassi, ma come regista, non come attrice, perché mi vergognavo di recitare e iscrivermi al corso di regia mi permetteva di nascondermi in qualche modo. E poi, mi hanno presa: avevo 19 anni, e di lì è successo tutto come quando non sai se sei scelto tu o ti ha scelto il fatto in sé. Sta di fatto che ho cominciato a fare teatro e ho lavorato fin da subito. Ho fondato la mia compagnia, l’ A.T.I.R, al quarto anno di accademia, e abbiamo cominciato a girare i teatri con il mio saggio, un Romeo e Giulietta di Shakespeare. Allora si riusciva a girare di più nei teatri italiani, c’era ancora l’ETI che era veramente di grandissimo aiuto per le tournée di giovani compagnie o per andare all’estero. Sono stata anche fortunata: nel ’96, quando io mi sono buttata nel mercato e ho cominciato a lavorare, c’era senz’altro qualche possibilità in più di oggi per i giovani. Poi di lì mi hanno chiamato a dirigere opere liriche, ho cominciato a lavorare sul teatro sociale, ho diretto anche per altre compagnie e per altre produzioni, finché non mi hanno chiesto di diventare direttrice artistica del Carcano insieme a Lella Costa. Ho cominciato a insegnare laboratori e nelle principali accademie di teatro italiane, insegno alla NABA regia per il corso di scenografia.

Quindi, ci sono arrivata totalmente per caso, però non per caso mi sono fermata: ho scelto giorno dopo giorno di ribadire questa pratica che è il teatro, perché ho capito che lì avrei potuto percepire quel senso che tanto disperatamente cercavo a 18 anni.

Elettra. Regia Serenza Sinigaglia

Secondo lei, dall’alto della sua lunga carriera, in che direzione sta andando il teatro contemporaneo, in particolare quello italiano emergente? Cosa vorrebbe vedere e come vorrebbe che si evolvesse?

Io vorrei vederne molto di più, vorrei più aiuti per le giovani compagnie, vorrei più sostegno, vorrei che venisse rivista e soprattutto fatta una legge seria per regolamentare il settore che non ti obblighi all’ipertrofia produttiva, che finanzi invece la ricerca e la continuità di lavoro. Penso che sia molto difficile per dei ragazzi giovani oggi dare vita a creazioni autonome, dal momento che impera la logica del nome, che è di una miopia straziante direi. Mi auguro quindi che possa arrivare una politica che si avveda di questo problema e crei possibilità.

Quale consiglio darebbe se dovesse parlare con un giovane intenzionato a intraprendere la carriera registica?

Gli direi di leggersi Rilke, Lettera a un giovane poeta; gli direi che, se ha passione, se è quello che sente di dover fare, se ha bisogno di farlo, non lo fermerà nessuno, né i soldi, né il dover fare una gavetta infinita, non sarà niente, perché è un bisogno profondo, urgente, intimo, e quella sarà la sua forza. Poi, gli direi di cercare di essere molto duttile, quindi di lavorare magari in produzioni più solide seguendo il lavoro di qualche regista, facendo l’assistente, creandosi dei contatti, mettendosi a disposizione, e poi contemporaneamente coltivare dei progetti personali, facendo uno sforzo per stabilire le fondamenta per le possibilità che sicuramente si apriranno nel futuro. Se ti fai fermare dalla pochezza delle economie o dalle difficoltà burocratiche lo capisco, però purtroppo questa è la realtà con la quale ci si deve confrontare, la tua urgenza deve essere più forte di queste difficoltà, questo è quello che direi a un giovane. E che poi i risultati arrivano, che quella speranza lì deve essere viva, solida e forte. Invece agli adulti e ai responsabili della vita pubblica di questo paese direi che come non mai questa gioventù va aiutata, anche semplicemente a sognare un futuro.

Infine, un’ultima domanda, che è più rivolta alla Serena spettatrice che regista. Qual è stato o quali sono stati gli spettacoli che più hanno lasciato un’impronta sulla sua persona?

Guardi, allora, in epoche passate, Strehler, Ronconi e Castri sono tre registi, tutti e tre, che in una maniera completamente diversa, a volte anche di negazione, sono stati dei punti di riferimento. A questo va aggiunto Thierry Salmon, e soprattutto Peter Brook e Ariane Mnouchkine. Poi, amo il lavoro di Emma Dante, amo il lavoro di Latella, ma io direi che da tutti i miei colleghi, quando vado a teatro, ne ricavo sempre qualcosa di prezioso per me, anche quando non mi piace. È sempre un’esperienza di intensità extra quotidiana, non ha niente a che fare con l’esperienza di quando guardo un film o una serie, mi tocca più nel profondo e quindi ad ogni modo mi interessa e mi riguarda sempre.

Ringrazio Serena Sinigaglia per il suo tempo e la saluto, chiudendo la conversazione. Guardo fuori dalla finestra, il viso rivolto in alto, verso l’azzurro terso del cielo. Penso alla cometa di Halley, ai cambiamenti di cui è stata testimone ad ogni suo passaggio. Sospiro. Sotto la stessa volta celeste apparentemente immutabile, forse, quando la cometa ripasserà nel 2061, qualcosa sarà mutato. Ci si augura solo che sia un cambiamento in positivo.

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Letizia Chiarlone
Letizia Chiarlone
Classe 2001, è studentessa di Lettere, indirizzo Musica e Spettacolo, presso l'Università di Genova. Comincia ad avvicinarsi alla critica teatrale nel 2023, accolta nell'aia dell'Oca Critica. Nel giugno 2024 partecipa al laboratorio di critica teatrale diretto da Andrea Porcheddu con Roberta Ferraresi presso la Biennale Teatro. Nell'agosto dello stesso anno prende parte al workshop di critica teatrale di Teatro e Critica condotto da Andrea Pocosgnich nel contesto del Festival Orizzonti di Chiusi. Collabora con Teatro e Critica da ottobre 2024.

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