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«‘A capu tosta» o della restanza. Sui venticinque anni di Primavera Dei Teatri e non solo

Il festival Primavera Dei Teatri parte il 26 maggio e arriva alla sua venticinquesima edizione, che terminerà il prossimo 1 giugno. Abbiamo ricostruito in una conversazione a quattro con i direttori artistici Saverio la Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano i percorsi individuali e quelli comuni, gli obiettivi, le difficoltà e le conquiste di una compagnia (Scena Verticale) e di un festival per cui i termini permanenza ed evoluzione, ritorno e sconfinamento sembrano le matrici di un progetto culturale ampio eppure personalissimo.

Dario De Luca e Settimio Pisano alla conferenza stampa di presentazione di Primavera dei Teatri 2025. Foto Desme Digital

Comincerei, come faccio spesso, da una cosa che mi sta particolarmente a cuore, cioè la vostra fascinazione teatrale. Come nasce e come poi è diventata vocazione e si è incanalata in un processo di formazione? Credo sia un presupposto fondamentale per la definizione delle vostre identità.

S.l.R.: Essendo di Castrovillari, quindi cresciuto con un’offerta culturale quasi inesistente (anche se allora c’erano le attività del Consorzio Teatrale Calabrese, una sorta di teatro stabile e un circuito di cui Castrovillari faceva parte) posso dirti che da ragazzi, noi giovani non venivamo cooptati. Vedevo invece moltissimo cinema, per cui la mia prima fascinazione è stata quella. Se vuoi anche un cinema di serie b, nei paesi passavano soprattutto le pellicole western all’italiana (già molto meglio), di kung fu, i film di Celentano, … Ricordo che addirittura in quel periodo vidi uno spettacolo molto convenzionale e mi dissi che decisamente non mi interessava. Avendo interesse per l’attore, decisi di fare il DAMS a Bologna, pensavo fosse una sorta di campus pratico. Lì ho misurato la mia ignoranza, sia sul cinema che sul teatro, il primo anno è stata una corsa a vedere tutto di un settore e dell’altro. Una prima grande fascinazione è stata per uno spettacolo di Carmelo Bene sui poeti russi, anche se poi quel tipo di teatro non è stato quello con cui ho proseguito in prima persona. Facevo la Scuola di Teatro di Bologna, a Via d’Azeglio, all’ultimo piano c’era il teatro dell’università, dei saggi di fine anno e di diploma. Lì cominciarono a passare degli spettacoli come Nemico di classe dell’Elfo e mi ritrovai a vedere giovani tipo Paolo Rossi, Claudio Bisio, Gigio Alberti, … Ho cominciato a scoprire un teatro diverso, la sperimentazione, così ho cominciato ad avvicinarmi. Ero poi molto affascinato dagli studi teatrali, dai libri di Brook – infatti appena ho potuto sono scappato a Prato a vederlo mentre faceva il Mahabharata – o da quelli di Grotowski e Barba. Per quanto riguarda la pratica ho avuto la fortuna di debuttare in teatro con Leo De Berardinis. Un Amleto che durava quattro ore e mezza e ricordo che stavo dietro le quinte e me lo guardavo tutto. Me lo sono portato dietro, questo suo modo di sposare l’alto e il basso, in un modo personale, mio, soprattutto in una prima parte di spettacoli, vedi la trilogia di Shakespeare in Calabria che abbiamo fatto con Hamlet, Ardori di Otello e Cara mammina che era un altro Amleto. La stessa cosa mi è successa con Nekrošius col quale pure poi ho avuto la fortuna di fare due laboratori di regia alla Biennale di Venezia e con cui si era creata una bella sintonia, soprattutto il secondo anno. Ancora Eduardo in televisione, l’unica volta che l’ho visto dal vivo è stato sempre a Bologna, al Palazzetto dello Sport, in una sorta di spettacolo-conferenza con Carmelo Bene, lesse anche delle poesie, non però gli spettacoli classici che invece ho visto in televisione: la sua semplicità, la sua capacità di catalizzare con le pause, i piccoli gesti era davvero sconvolgente.

D.D.L.: Il mio avvicinamento al teatro è avvenuto da piccolo. Sicuramente a noi, figli degli anni Sessanta, Eduardo in tv ha segnato. Ha segnato tutta una generazione, era il teatro che entrava in casa, tramite un altro media. Uno di quegli appuntamenti che tutta la famiglia viveva insieme, si creava quello che avviene in teatro: c’era un pubblico che si ritrovava per vedere il teatro. Sicuramente è stato il primo incontro con gli attori del teatro. Considera che allora gli attori non erano molto diversi da quelli degli sceneggiati, anzi, recitavano nello stesso modo. Nonostante Eduardo avesse una leggerezza e una semplicità con tutta la sua compagnia… L’impianto teatrale di quelle riprese fatte ad hoc per la televisione e per gli sceneggiati televisivi di allora… Eh, insomma… Del resto anche gli attori erano gli stessi, gli attori teatrali si spostavano negli sceneggiati televisivi. Poi ho continuato. Già dalle scuole medie ho avuto la fortuna di andare a teatro perché mio zio lavorava nel Consorzio Teatrale Calabrese, ne era amministratore. A casa mia arrivavano sempre gli abbonamenti e ci andavamo oppure lui passava da casa e diceva a mia madre che ci portava a teatro. Non è un caso che, di quattro fratelli, io e Max abbiamo fatto il teatro uno e la danza l’altro, mentre gli altri due che sono venuti molto meno sono informatici. Sia al Rendano, dove c’era la grande prosa, sia al Morelli ho visto cose che mi hanno colpito. Ero piccolo ricordo uno spettacolo con Adolfo Celi, ricordo lui e la sua presenza, con questa voce profondissima; ancora Gianrico Tedeschi ne Il Cardinale Lambertini, Glauco Mauri in un Don Giovanni di Molière con una parrucca barocca straordinaria. Insomma la grande prosa, il teatro classico. Mi viene in mente Pino Micol che faceva Cyrano De Bergerac con la regia di Scaparro, mi stupì che non ci fosse una gran scenografia, al contrario dell’esplosione che sempre accompagnava l’apertura del sipario del Rendano, solo una pedana di legno chiaro e una mezza luna sospesa, il resto era tutto lavoro d’attore e mi dissi che si poteva fare teatro anche con niente. Ancora mi colpì Dario Fo con Mistero Buffo a Cosenza, al Rendano, anche se ce l’ho impresso maggiormente in tv perché c’era troppa gente, ricordo il momento condiviso, il microfono attaccato con un cordino, non esistevano nemmeno le pulci. E poi l’arrivo al Morelli di Raimondi e Caporossi. A quest’ultimo chiedemmo una regia appena nacque Scena Verticale. Fu molto poetica, partiva dalla suggestione di due omini, noi due, e di Robinson Crusoe, stavamo tutto il tempo a spostare questi sacchi di sabbia da un muro di trincea, la nostra memoria, la sabbia della nostra isola con cui costruivamo un igloo in cui alla fine sparivamo. Per tornare al loro spettacolo nella mia memoria era Teatro, rimasi folgorato da questi due uomini che smontavano lentamente un enorme sipario di corda, costruendo delle piccole azioni e delle piccole gag, tramutandolo poi in un gigantesco gomitolo al centro del palco su cui mettevano una panchina e seduti iniziavano a fare la maglia con un gomitolo più piccolo, sferruzzavano. É un punto fisso del mio immaginario, se penso al teatro penso a questa immagine. Poi sono arrivati gli studi del DAMS e con essi il Terzo Teatro e tutto quel mondo, ad esempio il Living Theatre. Loro erano stati in zona più volte, negli anni Settanta, tornarono nei Novanta e feci un laboratorio e un happening in piazza con Judith Malina. Invece eravamo già compagnia con Saverio nel 1992 quando cominciammo a guardare con più attenzione al contemporaneo, a chi nasceva intorno a noi, i nostri coevi. Conoscemmo così la Romagna Felix dove nascevano il Teatrino Clandestino, i Motus di Fanny e Alexander, la Nuovo Complesso Camerata e tanti amici napoletani, penso a Libera Mente, Davide Iodice, Marina Rippa, … Guardandoli capivamo quali fossero le loro istanze e come potessero dialogare con le nostre, eravamo due ragazzi che avevano deciso di provare a fare teatro partendo dal nostro luogo, in cui avevo deciso io di restare e Saverio di tornare. Volevamo capire se la provincia potesse essere portatrice sana di cultura e bellezza.

Saverio La Ruina. Foto Desme Digital

S.P.: Io sono un po’ la pecora nera del gruppo. Il fatto che lavori e abbia lavorato in teatro, da ormai quasi trent’anni, è frutto quasi totalmente del caso. Da ragazzo la mia fascinazione era legata alla musica, il teatro non lo consideravo e non c’erano stati motivi per avvicinarmi in alcun modo, non andavo nemmeno alle scolastiche. Quando invece mi sono iscritto all’università uno dei ragazzi con cui condividevo la casa lavorava per una cooperativa, dovevo fare la scelta tra il servizio militare e quello civile e scelsi quest’ultimo. Prestai servizio presso una realtà che faceva facchinaggio anche per il Carcere di San Gimignano dove svolgevano con i detenuti lavori afferenti al teatro. Così ho iniziato. La prima volta che sono entrato a teatro, al Teatro dei Rozzi di Siena, era per fare un service a un concerto di Paolo Conte. Da lì una fascinazione parziale. Per un altro puro caso, una domenica mattina stavo prendendo un caffè, ero già laureato, e sul tavolino c’era La Repubblica, con un tamburino con scritto “Ente Teatrale Italiano- Corso di formazione gestionale per attività teatrali e di spettacolo”. Lo guardai e mi chiesi cosa fosse, cominciai a leggere, presi il numero di telefono, andai alla cabina telefonica di fronte e telefonai. Una segretaria dell’ETI mi rispose, nonostante fosse domenica, spiegandomi che era un corso di formazione a selezioni e che la scadenza dell’invio delle candidature era lo stesso giorno a mezzanotte. In fretta e furia riuscii a fare le cose necessarie e mandare il fax. Mi hanno convocato, ho passato le selezioni e da lì sostanzialmente è iniziato tutto. Sono stato prima a Lecce, poi a fare uno stage al CSS a Udine e mentre ero lì l’allora direttore generale dell’ETI, Ninni Cutaia, mi parlò di questi due ragazzi a Castrovillari visto che avevo manifestato la voglia di capire cosa si muovesse in Calabria. Andai per un progetto e non finì lì. C’è un evento, uno spettacolo che mi ha colpito molto ed è anche molto indicativo: ero in Germania, vidi dei manifesti appesi ai muri. C’erano quelli del concerto dei Massive Attack e affianco quelli di uno spettacolo che non sapevo cosa fosse. Dissi subito ai miei amici di andare al concerto nonostante avessi visto i Massive Attack tante volte, ma finimmo a vedere questa cosa: era Costanza Macras, che poi ho rivisto in un’altra cosa, pochi anni dopo, a Castrovillari, mi colpì molto. Non avendo studi teatrali, non avendo visto molto teatro, mi porto dietro questa sindrome dell’impostore dall’inizio. La fascinazione mi è venuta con la pratica, grazie a Saverio, grazie a Dario, grazie alle moltissime cose che ho cominciato a vedere, per il Festival, ma anche spostandomi, andando in giro, per la curiosità che mi è nata lavorando e che continua.

Come il processo identitario che corrisponde a quanto mi avete raccontato finora è diventato poi un processo alchemico comune, che vi ha unito? Come quell’identità si è conservata e si conserva nel lavoro in sinergia e come invece si è trasformata e continua trasformarsi?

S.P.: La prima cosa che mi viene da dirti è che il lavoro che ho fatto in questi venticinque anni per la compagnia non avrei potuto farlo per nessun altro. Per me è scattato qualcosa sin dall’inizio, non solo una fascinazione poetica, artistica, ma chiaramente un percorso comune, umano, di obiettivi, di cose che si sono costruite man mano, quotidianamente, nel tempo. Anche il mio è stato un ruolo particolare, mi capita spesso nei workshop con i ragazzi che si avvicinano al teatro nel settore della produzione e distribuzione di ribadire che se non c’è una identificazione fortissima con un progetto artistico diventa davvero complicato farlo, diventa un ripiego, frustrante. Per me questa è stata l’alchimia e il fatto che quando sono entrato in compagnia c’era da costruire un mondo. Nonostante Scena Verticale avesse iniziato prima, dal punto di vista organizzativo stava cominciando a strutturarsi in quel momento, a costruire un modello di lavoro ritagliato, seppure in maniera molto artigianale, su quello che stavamo facendo. Per me è stato importante non solo per costruire il lavoro, ma per vedere poi i risultati che cominciavano ad arrivare, nonostante il mio sia il ruolo più complicato nello stabilirlo. Seguire poi la crescita della compagnia e vedere che cominciavano ad arrivare risultati anche in termini di strutturazione finanziaria restituiva il valore della fatica.

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D.D.L.: Come diceva Settimio, ci tengo a ribadire che il nostro è stato davvero un metodo inventato in maniera artigianale. Io e Saverio abbiamo fatto gli studi del DAMS, ma quello non ti dà la professionalità per creare e strutturare una compagnia e poi, come è capitato a noi, far crescere parallelamente un festival ed esserne i direttori per venticinque anni; un festival indipendente, dove non c’è mai stato un ricambio nel senso di un consiglio di amministrazione che decide di dare la direzione artistica ad altri. Questo livello artigianale sembra strano nel mondo della iper professionalizzazione di oggi. Ora ci sono persone bravissime a fare una cosa, la fanno in modo spaziale, ma magari sanno fare solo quella, mentre ricordo che all’inizio andavamo alla SIAE a imparare a fare i borderò con la carta copiativa in cinque fogli. Fu la prima cosa che imparammo fuori dalla pratica scenica. Allo stesso modo il metodo che poi si è formalizzato è diventato il nostro modus operandi. L’identità è unica e condivisa da tutti e tre, ma è anche autonomia di pensiero: la cosa bella tra noi credo sia che siamo sempre rimasti affascinati dal pensiero dell’altro, che ciascuno in qualche modo sente un po’ anche suo. Così i progetti paralleli di ognuno sono sempre stati condivisi. Tutto cammina su auna strada battuta assieme, per cui seppure stai ai bordi la conosci, è tua, la riconosci.

S.l.R.: I primi anni, ho pensato soprattutto all’attore, il DAMS voleva essere un veicolo in questa direzione. Poi è stato tutto altro, non era il campus pratico che mi aspettavo. Non a caso dopo e durante ho lavorato con Leo, con il Consorzio Teatrale Calabrese – poi definitivamente defunto nel 1990 o 1991 – , quindi con compagnie di giro e strutture stabili e poi con Raimondi e Caporossi. Con loro ho fatto un triennio e lì c’è stata forse una visione di teatro contemporaneo che mi colpiva di più. Le macchine sceniche che costruivano e che Riccardo continua a costruire, l’attenzione millimetrica al gesto, alle rare parole dette: penso che inconsciamente sia stata una forte sedimentazione. Quando ci siamo conosciuti con Dario e siamo partiti con questa avventura, siamo andati avanti artigianalmente come diceva. Guardo con invidia ai gruppi di giovani che già a venti o ventuno anni sanno esattamente dove andare. Questo inizio in Calabria, la forte coesione per un progetto comune è proceduta un po’ a tentoni: avevo voglia di parlare di cose che non ritrovavo nella drammaturgia, sia classica che contemporanea. Uno dei primi spettacoli che facemmo fu La stanza della memoria. Fu selezionato per Scenario, anche se piacque tantissimo, forse non avevamo maturato ancora bene la cosa, lo sviluppammo dopo pian piano e lo presentammo al secondo incontro nazionale dei Teatri invisibili a San Benedetto del Tronto. Si partecipava non per selezione, ma in base ai primi cinquanta iscritti. Ci iscrivemmo sul filo di lana, lo scrivemmo e lo presentammo insieme, sviluppammo un tema legato alla mia famiglia, un fatto autobiografico. Una serie di strutture lo vollero in cartellone, a Venezia, a Caserta, a Roma, a Parma, … Da lì è cominciato il collegamento al nostro territorio e alla vita che mi e ci era stata intorno e ci era stata raccontata e così in qualche modo continuava. Arrivarono le prime recensioni nazionali, capimmo che la periferia era non necessariamente un luogo di espiazione, bensì un luogo dove si poteva costruire concentrandosi sul lavoro. A volte mi dico che se non fossi tornato in Calabria forse il percorso artistico che ho e abbiamo fatto non sarebbe stato possibile, non lo sarebbero state cose che poi sono diventate la mia cifra artistica. La fortuna è stata trovare persone che hanno inciso su noi stessi. Confrontarmi con Dario prima e poi con Settimio mi faceva comprendere cosa stessi facendo. È stato un lavoro in cui davvero il gruppo ha vinto, anche nei risultati singoli, o che sembrano singoli. Mi sono messo in contatto col territorio e il territorio subito si è messo in contatto con me, è diventata una relazione fortissima, con la lingua, con quanto vi accadeva o vi era accaduto, penso di aver trovato il mio linguaggio per esprimere storie profonde, quasi archetipiche, quasi un’epifania da una parte e dall’altra, un contatto quasi coi miei avi. Ho sempre nutrito un incanto per la storia e la narrazione orale, per questi grandi affabulatori, a partire da mio padre, senza costrutto, senza sovrastruttura, con dentro una verità anche quando parlavano di cose magiche o leggendarie. Stare in Calabria è stato un percorso identitario dal punto di vista artistico.

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Arriviamo così alla questione del restare o del tornare. Rispetto a questo tema mi piacerebbe indagare il concetto in riferimento a due termini: “ruolo”, inteso come connesso alla creazione di una realtà che abbia una funzione culturale e territoriale sia per la comunità locale sia nazionale, e “responsabilità”.

S.l.R.: Sai anche Primavera Dei Teatri è stata una decisione, partita dalla considerazione che in Calabria non accadeva nulla, in questo senso è stata seminale, oggi qua e là ci sono delle realtà che fanno cose interessanti sul contemporaneo. Allora l’unica possibilità di vedere maestri e giovani compagnie che ci interessavano era partire, quindi impiegare per vedere uno spettacolo tre giorni o due se andava bene. La necessità era portare loro a noi. Ci siamo inventati Primavera dei Teatri grazie a un bando dell’ETI, che hanno vinto tre progetti in tutta Italia (gli altri erano uno di Leo De Berardinis con una rivista e Sette a Tebe di Gabriele Vacis, era circa il 1998). A quel punto abbiamo cominciato a vedere cose sul posto, questo ha ingenerato altri processi, è stata un’azione teatrale e culturale politicamente rilevantissima. Anche se non avevamo i numeri di pubblico di adesso non abbiamo mollato di un centimetro e in pochissimo si è creata un’attenzione molto forte e un movimento di pubblico verso il festival. Man mano è diventato un punto di riferimento per la Calabria e in qualche modo chi voleva vedere teatro contemporaneo, e ce n’era di pubblico di questo genere, veniva a Castrovillari senza sentirsi un cittadino di serie b, come spesso succede dove ogni cosa è legata all’emigrazione. Una scelta che si è rivelata politicamente forte verso il territorio, dandogli possibilità che prima non esistevano, un segno che delle cose si potevano fare anche in una regione difficile, in cui la cultura era un elemento secondario. Questo è un problema italiano ancora oggi.

A questo riguardo c’è poi la questione della riconoscibilità di un progetto culturale, e del riconoscimento del lavoro svolto, che equivale anche a un posizionamento all’interno del calendario teatrale. Non penso sia una cosa scontata, sicuramente non lo era quando è nato Primavera dei Teatri e parimenti non lo è la permanenza nel tempo di un appuntamento di questo tipo.

D.D.L.: Abbiamo fatto compagnia da giovani e giovanissimi, quindi con una grande passione e una gran fame, potevano sembrare irresponsabili, ma non lo eravamo in verità. La responsabilità è stata sempre un punto di partenza perché in Calabria non ritorni o non rimani se non ti pigli la responsabilità di farlo. Non è un luogo che ti può dare aprioristicamente, devi tentare di renderlo migliore, se vuoi, e fartelo un po’ assomigliare. Il Consorzio Teatrale Calabrese fallì miseramente con nove miliardi di debito, gli anni Novanta iniziarono con un momento oscuro e oscurantista. Nasciamo quindi in un momento strano, con pochissimi punti di riferimento. Il senso di responsabilità prima di tutto ha fatto crescere il progetto politico della compagnia, che ha costruito una comunità anche facendo decine e decine di laboratori sul territorio. Sembrava una cosa utopistica all’inizio, ma ci dicevamo che se insegnavamo ai ragazzi a fare e vedere il teatro, innamorandosene, sarebbero stati il nostro pubblico di domani. A distanza di trentacinque anni dalla formazione della compagnia e venticinque dalla nascita del festival è una cosa che possiamo dire essere accaduta, abbiamo spettatori che sono stati ai nostri laboratori che poi sono diventati professionisti, che vivono in città o sono andati in giro per l’Italia, ma quando tornano chiedono di noi. Il festival è diventato volente o nolente un progetto politico, il desiderio di vedere teatro, quindi non fare viaggi della speranza per vedere il contemporaneo, è significato fare della Calabria uno dei punti dove arriva, anzi, come dicevi, uno dei festival che fa parte del calendario nazionale intorno alla nuova scena e al contemporaneo. Lo abbiamo fortemente voluto, l’idea di una visione e una riconoscibilità nazionale era di partenza, sapevamo di essere talmente lontani dai crocevia culturali nazionali che bisognava gridare forte per farsi sentire. Devo dire che Franco Quadri ha nasato subito qualcosa di interessante e credo che la sua parola abbia fatto da megafono per quanto succedeva a Sud sul finire degli anni Novanta e negli anni Zero del Duemila. Da lì iniziarono ad avere attenzione anche tutta una serie di critici nazionali, da Renato Palazzi a Maria Grazia Gregori, il gruppo romano capitanato da Capitta, … Insomma figure che hanno fatto eco a un festival che aveva bisogno di microfoni aperti. Dall’altra parte non abbiamo mai rinunciato a essere stimolo per noi stessi e per gli altri, non ci siamo mai seduti sugli allori, sono arrivati artisti che erano conosciuti da pochissimo o misconosciuti. Ascanio Celestini o Emma Dante sono solo alcuni dei nomi di grandi artisti che sono passati per Primavera Dei Teatri. Non ci siamo fermati, non rimanere una voce nel deserto è stato anche un obiettivo artistico. Per farlo bisognava essere sempre molto critici col nostro stesso lavoro, con le antenne tese, capire se ci fossero nuovi autori o nuova linfa, nuove poetiche, nuove voci. Considera che Primavera dei teatri è stato luogo per ragionare sulla legge regionale sullo spettacolo dal vivo, che la Regione Calabria non aveva, tutto è nato da stimoli che abbiamo fatto partire invitando una serie di operatori e il Ministero per spiegarne l’importanza. Insomma si mischia il progetto culturale a un progetto politico, sicuramente legato alla responsabilità di stare in questo territorio.

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Resterei un attimo sull’accezione politica che Dario ha dato alla mia domanda. Parlando del festival e considerando che è sostenuto da fondi, vi chiedo quali sono state le vostre difficoltà più grandi nel dialogo con le istituzioni, se ce ne sono state? Qual è quindi il compito di una realtà culturale sostenuta a livello pubblico dalla vostra prospettiva?

S.l.R.: Sicuramente una delle forze del festival è stata la Regione Calabria perché è sempre stata il nostro massimo sostenitore e anche l’unico prima che prendesse piede il finanziamento ministeriale che abbiamo da qualche anno. Il Comune ha avuto un grande ruolo dal punto di vista del sostegno finanziario nei primi anni, poi è andato sempre più a scemare e adesso siamo arrivati quasi al nulla, a parte l’aiuto logistico. Se non ci fosse stato in questi anni un finanziamento regionale, Primavera dei Teatri non sarebbe esistito. Gli enti locali sono sicuramente in difficoltà, ma è una storia lunga quella di un sostegno forte all’inizio e poi davvero non all’altezza, direi senza falsa modestia, dell’indotto che il festival ha generato per lo stesso Comune e per la sua immagine a livello nazionale. Non succedono milioni di cose in Calabria, questa si è impressa, assestata nel tempo in alcune componenti della politica. C’è lo spoil system, cambiano i dirigenti regionali, per cui a un certo punto trovi persone che conoscono la situazione culturale regionale, molto capaci e che poi spariscono e ricomincia ogni volta la fatica per far capire chi sei e che valore hai nella vita culturale della regione. Da un lato è stato un aiuto e dell’altro qualcosa che ogni volta abbiamo dovuto conquistarci, spiegando chi fossimo e cosa avessimo fatto o facessimo. Non è stato né piano, né in discesa. A parte due anni in cui il festival è saltato – e questo significa qualcosa –, un rapporto molto forte è stato con l’Ente Teatrale Italiano, non solo quando abbiamo vinto il bando. Bisogna dare atto al direttore generale dell’epoca Ninni Cutaia, che possiamo ritenere fondante, di come sia venuto personalmente agli incontri politici con in rappresentanti regionali in Calabria. Aveva capito che il sostegno dell’ETI non poteva essere ad libitum e che si sarebbe concluso nell’arco di qualche anno; voleva quindi lasciarci in dote la relazione con le amministrazioni. Ha parlato direttamente con il nostro sindaco, con l’assessore, con il governatore, i dirigenti. Sappiamo com’è andato a finire l’ETI, ma le figure che ne facevano parte hanno avuto per noi uno sguardo davvero amichevole e attento, non a caso ancora adesso qua e là fanno un salto a Primavera o comunque ci seguono da lontano e lo percepiamo concretamente. La crescita del festival non è stata mai commisurabile su un flusso esponenziale continuo, non siamo partiti da dieci per arrivare a mille, siamo partiti da dieci e siamo arrivati a dodici. In Calabria manca un Centro di Produzione, non c’è un teatro stabile, è stata una difficoltà: parti, fai uno sforzo, ma se poi noi hai le istituzioni pronte a fiancheggiarti magari caschi più clamorosamente.

D.D.L.: Il rapporto con le istituzioni è comunque molto complesso, purtroppo. È quello che da noi si dice “a capu tosta” che ha reso possibili venticinque edizioni di questo festival. Da un inizio che sembrava tutto in discesa, avendo vinto un bando nazionale con un importante apporto economico, credo fossero ottanta milioni di lire…

S.l.R.: Sì, settanta o ottanta e poi hanno preteso, geniali, che altrettanti ne arrivassero da Comune e Regione Calabria.

D.D.L.: Esatto, dagli enti territoriali. Siamo partiti con un festival da centoquaranta milioni di lire, come diceva Saverio, abbiamo iniziato con dieci, poi siamo scesi a otto, poi siamo risaliti a dieci e ora siamo a dodici, ma le istituzioni rimangono la pecora nera, seppure ci danno la possibilità di fare il festival. Abbiamo problemi una volta rendicontato, riusciamo a farlo nel giro di massimo sei mesi e riceviamo i soldi spesso dopo un anno o due. Ora stiamo per fare la nuova edizione senza che la Regione ci abbia chiuso il consuntivo dell’anno scorso. Puoi ben capire che questo mette in ginocchio, non solo le persone, fiacca le istanze pindariche più artistiche, ma anche di tipo culturale, politico perché ti fiacca economicamente. È uno dei problemi del fare culturale nei nostri territori, ma ormai dappertutto, l’Italia vive un momento di grande crisi rispetto alla cultura, prima dicevamo allo spettacolo dal vivo, adesso sappiamo che la stessa condizione è del cinema per cui poco cambia. Siamo riusciti ad avere un bando che fosse triennale per dare respiro alla nostra programmazione, infatti abbiamo potuto lavorare con istituti e compagnie estere, cose che vanno programmate anni prima. Adesso, finito il triennio, sappiamo che dobbiamo affrontare una battaglia per ripartire, per averne un altro e già negli uffici regionali parlano di un biennio forse. Pare sempre un gioco dell’oca, fai tre passi avanti perché ti danno cinquanta o centomila euro in più e poi fai tre passi indietro perché te li danno dopo tre anni, finisce il bando triennale e non se ne fa un altro d’ufficio, intanto cambiano i funzionari, il direttore generale che magari vuole partire da zero, capire chi sei, … Per il futuro dobbiamo porci un problema che abbiamo sempre accantonato vivendo in una regione abbastanza povera, cioè trovare dei finanziamenti privati, impostare meglio il lavoro in questa direzione, uno o vari finanziamenti che siano la base su cui costruire quello che abbiamo sempre fatto con le istituzioni: la Regione, il Ministero, e forse ribattere i pugni cercando di essere più efficaci con il nostro Comune. È vero che non può intervenire con chissà quali economie, ma è anche impossibile che non intervenga affatto, forte del fatto che abbiamo un riconoscimento da enti con economie più importanti. Credo sia impensabile che dopo venticinque anni di festival in una cittadina – tranne un espatrio di un anno a Cosenza – il Comune sia ancora a patrocinare l’evento, mi sembra fuori da ogni logica e ogni senso.

Voglio provare a spostare il focus su qualcosa che non sembra collegato a questo, ma che invece credo lo sia profondamente sul piano socio-culturale. Un festival, indipendentemente dai giorni di programma vero e proprio, richiede un lavoro di un anno, se non più. In queste condizioni e nel vostro contesto, con e da quale prospettiva si fa tale lavoro? Come si alimenta, come cambia o come rimane la stessa? E come questa costruzione intercetta la comunità teatrale nazionale creando una sorta di attesa e, al contempo, generando un indotto socio-culturale per la comunità del posto? Come si fa da ponte insomma?

D.D.L.: C’è un rapporto di fiducia con la comunità locale, negli anni si è costruito. Non abbiamo mai proposto i grandi nomi, per cui chi seguiva lo faceva perché incuriosito. Col tempo abbiamo evidentemente fidelizzato un pubblico che si è ritrovato nelle nostre scelte artistiche e di programmazione e ora abbiamo una comunità che mi permetto di definire abbastanza colta sul teatro contemporaneo, italiano soprattutto. Si è affinato il loro gusto, hanno visto tante cose: ogni anno abbiamo dai venticinque ai trentacinque progetti e spettacoli, per cui una grande scorpacciata, un ventaglio dignitosissimo di quello che si muove nel teatro contemporaneo nella stagione o che avverrà, se consideri che molte sono prime nazionali.

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In questo quanto rientrano altre realtà teatrali o artistiche territoriali?

D.D.L.: Ci rientrano. Soprattutto negli ultimi quindici anni abbiamo costruito in maniera più forte un rapporto con le altre associazioni culturali o attività di spettacolo, ma anche con chi lo fa in maniera amatoriale, cominciando a guardare non con snobismo e trovando dall’altra parte non snobismo. Vado spessissimo a vedere il teatro amatoriale sul territorio, un po’ per curiosità e un po’ perché mi piace tenere i legami con persone che sono appassionate della stessa cosa, anche se si fa a livello diverso. Non bisogna creare frazioni e fazioni. Allo stesso modo tutta la comunità musicale è molto vicina al festival. Sono rapporti che si costruiscono e si portano avanti negli anni e durante tutto l’anno. Del resto nel territorio ci abitiamo, dico sempre che i progetti funzionano se gli agenti sono del luogo, lo vivono, lo conoscono e sono riconosciuti. L’osmosi che si crea rende la comunità locale spettatore del tuo progetto culturale come compagnia e come festival. Primavera già da un po’ ha cominciato a cambiare pelle, è diventato multidisciplinare per quanto riguarda il Ministero. La costola più forte, l’ossatura rimane il teatro, poi c’è uno sguardo alla musica, alla performance e alla danza. Nell’ultimo triennio, lo dicevo, siamo riusciti ad avere collaborazioni con compagnie e realtà extra-nazionali, lo sguardo si è perciò aperto all’Europa, naturalmente facendo una politica di piccoli passi. Gli spostamenti avvengono, anche proporzionalmente a come cambiamo noi: abbiamo la barba e i capelli più bianchi, ma continuiamo a guardare al nuovo con curiosità. L’idea di provare a smarcarci dai finanziamenti pubblici in via esclusiva serve ad avere quel minimo di robustezza tecnica ed economica con cui essere sicuri di sostenere i progetti, a prescindere dalle risorse pubbliche e dai loro tempi dilatati.

S.l.R.: Mi ritrovo perfettamente. Posso aggiungere una cosa. Riusciamo ad abitare il territorio con una certa continuità perché siamo compagnia e viviamo anche di quello. Fossimo legati solo al festival, dovremmo cercare altri metodi per vivere, per sopravvivere. Si potrebbe far lavorare delle persone tutto l’anno, sarebbe importante rispetto al territorio e al pubblico, ci sono ancora fasce da raggiungere, non un lavoro che miri a un pubblico di massa ovviamente, però c’è da intercettare, potremmo fare meglio con qualcuno che lavora tutto l’anno, ogni giorno. Al momento del festival, impiegando le persone per tre o quattro mesi, si lavora in velocità. Ci siamo trovati anche davanti a persone capacissime, che si sono formate con noi e che abbiamo perso non potendo garantire una paga tutto l’anno.

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Arrivo dunque alla scelta coraggiosa del ritorno o della restanza, che credo sia particolarmente incisiva e permeante tutto il vostro lavoro. Al netto di vantaggi e svantaggi, cosa è più importante di questa restanza che non è una rimanenza? Riuscite a immaginare cosa sarebbe stato e cosa sarebbe stato possibile qualora aveste fatto diversamente?

D.D.L.: Le spinte ci sono tutte. Io faccio parte dei restanti, sono stato una Penelope da sempre, ho deciso di costruire la tela giù, solo adesso, alla soglia dei sessant’anni, mi sono permesso di trasferirmi a Milano, per una questione puramente privata, di esperienza personale. Ho fatto giù anche l’università, non avevo mai vissuto in una grande città per convinzioni che hanno assolutamente dettato le scelte della mia vita. Avevo voglia adesso di stare da un’altra parte, forse anche per guardare con un altro occhio casa mia, che rimane sempre quella. Mi è capitato, come mai mi era successo, di essere colpito e, mi permetto di dire, commosso vedendo le montagne del Pollino quando sono tornato a Natale. Tra l’altro sono del cosentino, quindi le mie montagne sono per me la Sila, ma siccome vivo lì da decine di anni, mi sono reso di quanto mi mancassero o di quanto mi colpisse rivedere quelle. In questo c’è tutto ciò di cui parli. Guardandomi affianco, a mio fratello Saverio, mi viene da dire che già solo con i suoi scritti abbia lasciato una grossissima eredità, per la comunità teatrale nazionale e internazionale (visto che sono tradotti in svariati idiomi). Ma credo lo abbiamo fatto anche con il nostro lavoro, esiste negli ultimi anni, grazie a noi e qualche altro nome, una letteratura teatrale calabrese, non solo perché fatta da autori calabresi, ma perché scritta in lingua calabrese e che parla spesso di tematiche che partono dal nostro territorio per arrivare a temi globali. È qualcosa che lasci a chi verrà dopo di te, pure fosse per distruggerti o per tradirti. Rispetto al festival, invece, mi viene in mente La vita è una cosa meravigliosa di Frank Capra: lui si vuole ammazzare perché la vede buia e un angelo lo salva facendogli vedere cosa sarebbe successo se non ci fosse stato. È divertente provare a immaginare come sarebbe stata Castrovillari senza Primavera dei Teatri, la vita di tante persone che ci hanno incrociati senza di noi, ma chi può dirlo.

S.l.R.: Siamo perfettamente in sintonia. È un luogo, una scelta per cui fai delle rinunce, in termini culturali, in termini di incontri, … Ma è difficile dire cosa avrebbe potuto essere la vita altrove.

Marianna Masselli

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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