Un attraversamento del festival spezzino organizzato da Gli Scarti, con la curatela artistica di Alice Sinigaglia.

Bidoni di latta vengono percossi da manganelli, senza pietà, il rumore sordo del metallo colpito dal legno che si propaga nell’aria. Cartelli stradali e gomme di ricambio vengono spostati da una parte all’altra del cortile della Scuola Media Due Giugno di La Spezia. È uno spazio un po’ punk, forse, che ricorda un vecchio garage, uno dei tanti dove si affastellano in una miriade di oggetti inutili a prendere polvere, dimenticati, come il senno di Orlando sulla Luna. Tante figure diverse, circa una ventina, abitano la scena, eccentriche nei loro vestiti sui toni del nero, del fango, del grigio e del verde militare. Sono i personaggi dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, ripercorso, smontato e ricostruito all’interno del Progetto Orlando al suo debutto. Due anni e mezzo di lavoro che si condensano in 90 minuti circa di messinscena, tra gli intermezzi musicali che ricordano le movenze di un rave e il susseguirsi febbrile di diversi interpreti al microfono.

Così si conclude la terza edizione del festival spezzino under 35 Tutta La Vita Davanti, nell’evocazione di una dimensione di sospensione, un’ansa dove rifugiarsi dal caos della vita di tutti i giorni che non per questo è meno stimolante. L’importanza del ritagliarsi uno spazio per ritrovarsi viene ricalcata dallo spettacolo di Mezzopalco/Usine Baug intitolato, appunto, Anse. La ricerca sonora di Mezzopalco, che mescola il canto, il beatbox, il parlato e la ripetizione dei suoni modulati attraverso una loop station si mescola a quella visiva e caleidoscopica di Usine Baug. Anse è un monologo a più voci che si svolge nella peculiare fascia oraria che si estende dalle 19 di sera alle 7 del mattino, dove il tempo pare sospeso ed emergono necessità che durante il giorno, per l’ingerenza delle mansioni lavorative o per l’urgenza di altri pensieri, vengono accantonate. Il protagonista torna a casa e le luci si accendono all’interno delle stanze, solo per scoprire che non sente più appartenergli nulla di ciò che vi è all’interno. Esce così fuori, tra le persone, uno tra molti, perdendosi sotto le luci stroboscopiche di una discoteca e ritrovando, forse, sé stesso al far del mattino.
Un’ansa è proprio ciò che offre un festival, un attimo in cui prendiamo una pausa e inauguriamo un momento eccezionale, di ritrovo e socialità, dove sembrano non valere le regole della quotidianità. Questo, però, non vuol dire che manchino istanze di riflessione e critica sociale, le quali sono ben presenti, tanto nella programmazione quanto nei momenti di dibattito, come quello che qui si è svolto nella seconda giornata, a cura di Stratagemmi e Scarti.

Sotto il sole di inizio maggio i presenti prendono posto su sedie disposte al di sopra di un tappeto di erba finta, mentre la redazione estemporanea formata da giovani critici compresi nella fascia dai 15 ai 19 anni e provenienti da Milano, Firenze e La Spezia, si interfaccia con gli artisti. Fioccano domande relative alla scarsa affluenza di spettatori adolescenti a teatro, al mestiere dell’attore e al suo riconoscimento, alla relazione con il pubblico, al rapporto con i social e gli influencer culturali, fino alla politicità del teatro. Ciò che ne emerge è un quadro variopinto, una discussione animata dove le diverse voci si intersecano tra di loro, tra suggerimenti e considerazioni. Ma è il tema dello sguardo che sembra prevalere, un po’ in sordina, filo conduttore che muove la conversazione: si parla della necessità di un dialogo diretto per coinvolgere i giovani e che vada oltre la fruizione frontale in senso scolastico, oltre l’ascolto. Tra gli elementi che differenziano il teatro da una lezione in aula spicca la componente visiva, fortemente sottovalutata, perché richiede uno sforzo per sospendere il ritmo frenetico in cui si è immersi e comprendere quanto si sta guardando. È uno sguardo, dunque, che passa dallo spettatore all’attore e viceversa. “L’attore che guarda negli occhi coinvolge”, viene detto: guardare è sicuramente uno dei molteplici modi in cui si può “agganciare” il pubblico, pur rischiando, nel coinvolgimento, di ricadere nella possibilità di chiudersi in un guscio. Il teatro è uno spazio condiviso, che sia esso confinato ad una stanza o si trovi all’aperto, dove vengono disseminati dall’attore elementi che possono essere attivati dal solo contatto con lo spettatore, una persona che si pone con il corpo in un ambiente, che ascolta e guarda. E attraverso lo sguardo passa la volontà di comprendere, di decostruire, di andare oltre le quattro pareti in cui avviene la performance e cercare significati altri, archetipi e simboli, sfuggendo da una chiusura totale, verso una interconnessione tra esterno e interno dove vige un rapporto vivo di scambio e messa in discussione.

Quello stesso sguardo si fa centrale nel monologo di Francesca Astrei, Mi manca Van Gogh, dove la fruizione di contenuti intimi pubblicati senza il consenso della diretta interessata si fa giudizio impietoso e condanna a morte. E, infatti, il corpo dell’amica Michela, incapace di sostenere il peso delle critiche altrui dopo la condivisione di materiale privato da parte dell’ex fidanzato, viene trovato appeso a un foulard arancione. È il colore della sciarpa che Francesca, persa all’interno del suo sogno, dove si immagina immersa nel campo di grano dipinto da Van Gogh, vede stringersi intorno al collo, mentre dei corvi la beccano ferocemente.
Quello stesso sguardo sembra fare a brandelli il corpo nudo di Nicoletta Nobile nella performance installativa Call of Beauty, mentre le dita scorrono tra le pagine dei suoi diari e tra le foto nella galleria del suo cellulare, gli occhi frugano nelle parole impresse a penna e le narici si riempiono dell’odore della cera calda usata per depilarsi. Nicoletta rifugge dall’occhio impietoso della macchina fotografica, usando i corpi dei presenti come scudo, mentre si sente il click del pulsante dello scatto che viene premuto e il conseguente flash rischiara per pochi secondi il buio pesto della stanza.

Andare a teatro vuol dire, appunto, guardare, impegnarsi a fermare o rallentare il proprio ritmo per farlo, creando una frattura tanto netta quanto necessaria nello scorrere degli eventi. Eppure, quando si parla di sguardo, non va tenuto in considerazione solo quello indagatore dello spettatore che, nello scambio visivo, attiva i processi mentali di elaborazione del contenuto. Altrettanto importante, come si è accennato prima, è lo sguardo dell’attore, da cui trasuda una forza che va oltre la sostanza della parola e che affonda le sue radici nella concretezza del corpo: tanto la voce si disperde in riverberi sonori, allontanandosi sempre di più dalla fonte, quanto gli occhi rimangono ancorati nel cranio, allungandosi verso l’oggetto a cui mirano, ma senza potersene distaccare.
È proprio la potenza dello sguardo che viene sfruttata da Pietro Giannini ne La traiettoria calante, monologo-inchiesta sul crollo del Ponte Morandi. Sono occhi, quelli dei famigliari delle vittime, che inchiodano lo spettatore alla sedia dalla proiezione sullo schermo bianco, e che sembrano accusare ogni presente nella sala di avere le mani sporche di quel sangue.
Anche Mario Russo, in Affogo di Dino Lopardo, sfrutta quest’arma a suo favore, un pugnale che penetra nelle carni vive dello spettatore e il cui filo è tenuto teso dalla sottile ironia di cui si serve per affrontare la difficoltà dei temi trattati. Nicolas ha paura di affogare, e le radici della sua fobia affondano nei pomeriggi in cui è stato costretto a frequentare la fatiscente piscina comunale insieme al fratello Samuele, entrambi vittime di bullismo da parte dei compagni di corso. L’affogare è dunque, per certi versi, il dimenarsi violentemente di una testa tenuta a forza viva sott’acqua, ma è anche la sensazione soffocante di affondare nella rete di rapporti disfunzionali che vige all’interno della loro famiglia.

Non necessariamente, però, bisogna inserirsi all’interno di una scatola nera per preparare lo sguardo al contatto con la dimensione performativa. La stessa atmosfera che si crea nel momento in cui ci sediamo su poltroncine rosse in una sala in penombra può reiterarsi anche all’aperto, in un campetto sportivo, mentre il sole che tramonta allunga le sue dita rosee sulla testa degli spettatori. È ciò che avviene durante Hit Out di Parini Secondo, performance che prevede il salto coreografico della corda e dove la componente sonora ha una pervasività tale da integrarsi, nell’ascolto, a quello sguardo che non riesce a distogliersi dall’ipnotica danza delle performer. La corda va su e giù, si intravede a malapena il modo in cui i piedi, a ogni giro, si scostano per evitarla. Imbragature di corda avvolgono il loro corpo come reti di costrizione che le ingabbiano. Sembrerebbero quasi macchine perfette, se non fosse per l’errore, per il piede che inciampa e blocca la corda. E allora si ricomincia da capo, lentamente, per scivolare di nuovo nel proprio posto all’interno di un ritmo che chiede di non essere spezzato.
Ma a ciò che si vede si può ancora credere? Gruppo Uror con Rosso Reloaded, una rivisitazione della fiaba di Cappuccetto Rosso, sembra metterlo in dubbio. Dal sangue che in realtà è ketchup, al bianco nei capelli della nonna che è il risultato dello spruzzo di una bomboletta di lacca, i mutamenti avvengono a vista, infrangendo le regole del patto di finzione che viene siglato in tacito accordo da attori e spettatori. L’immedesimazione viene meno, c’è solo l’immagine, pura e semplice, ad abitare la scena con il suo ipnotico stimolo visivo.
Guardare vuol dire nutrirsi dell’immagine, farla propria. Può essere scambiato per un atto passivo, ma è un’azione ribelle, di presa di possesso e posizione rispetto a ciò che sta avvenendo. Lo sguardo di un giovane è, a sua volta, trasgressivo, carico del desiderio di ottenere, sviscerare e capire. C’è la volontà di prendere spazio, di far sentire l’eco della propria voce al di fuori di una camera di risonanza, pur sfruttando nel farlo, paradossalmente, la dimensione teatrale della scatola nera. Tutta La Vita Davanti si fa risacca di pulsioni, di energie che si scontrano e si intrecciano, che sembrano voler dire che “ci siamo, sì, ci siamo anche noi”, nella speranza di avere abbastanza coraggio per afferrare a piene mani il futuro. Per guardare in avanti.
Letizia Chiarlone