Giovedì 12 giugno, nella Casa Circondariale di Capanne a Perugia, andrà in scena Con il tuo sguardo, il nuovo spettacolo della compagnia Oltremura, composta da attrici detenute. Abbiamo intervistato la regista, Claudia Calcagnile.

La teoria della ghianda, elaborata dallo psicanalista statunitense James Hillman, si fonda sull’idea che ciascuno faccia il proprio ingresso nel mondo portando un’immagine, una vocazione, un’essenza che, del sé, costituisce il nucleo irriducibile.
Viene spontaneo domandarsi cosa ne sia, di questa stilla di unicità, quando le circostanze dell’esistenza si impongono mostrandosi in tratti brutali, oppure costrittivi, disciplinari. È un pensiero che mi accompagna mentre, in un venerdì di maggio, percorro la strada regionale – immersa nel verde, insolitamente affollata di autocarri – che conduce alla Casa Circondariale di Capanne, nella periferia di Perugia.
Sono le giornate conclusive di un percorso che è iniziato a maggio del 2024, un laboratorio teatrale dedicato alle detenute del carcere femminile che ha portato alla composizione di una vera e propria compagnia teatrale, Oltremura. Il primo studio del loro spettacolo andrà in scena a giugno – il 10 in anteprima per la popolazione femminile detenuta, il 12 in replica aperta al pubblico – con la regia e la direzione artistica di Claudia Calcagnile. Si intitola Con il tuo sguardo, a indicare l’imprescindibilità dell’Altro nel processo di determinazione e riconoscimento di sé. Nessuno si è mai individuato sulla cima di un monte, direbbe Jung. Si tratta di un Altro che possa guardare e che possa accompagnare, ma il primo movimento – mi sembra già di intuire – è sempre auto-determinato: quella di disporsi allo sguardo altrui, di lasciarsi guardare, è sempre una scelta.
Claudia Calcagnile ha una formazione in psicologia e un diploma presso la Scuola di Teatro Sociale e Performing Arts Isole Comprese, da molti anni – con l’Associazione Mosaico che ha fondato nel 2012 – lavora con attori non professionisti e in contesti di marginalità (con minori a rischio di dispersione scolastica, minori stranieri non accompagnati, utenti psichiatrici), per molti anni a Palermo, dove – presso la sezione femminile della Casa Circondariale Antonio Lorusso Pagliarelli – è nato ed è stato portato avanti, dal 2015 al 2021, il progetto di Oltremura.
La compagnia ha realizzato due spettacoli, per la regia di Calcagnile, andati in scena al Teatro Stabile Biondo di Palermo – Di quel poco e del niente (2016), ispirato a Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estès e In stato di grazia (2018), ispirato a La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini – e ha prodotto due documentari: La bellezza sospesa di Gianluca Loffredo (Colibrì Film, Napoli) e Libereincamera di Camilla Iannetti (Mosaico APS). Inoltre, ha contributo alla pubblicazione del volume bilingue Wildwuchs und Methode / Macchia e metodo dell’artista Stefanie Brottager, edito dall’Università di Arti Applicate di Vienna.
Da un anno attiva a Perugia, l’associazione Mosaico ha scelto di lavorare questa volta sul concetto di architetture difensive e sull’idea di legame. Il laboratorio teatrale, che ha visto la partecipazione di Mauro Cardinali (nel ruolo di aiutoregia) e Federica Bracarda (nel ruolo di assistente alla regia), è sostenuto dal Fondo di Beneficenza ed opere di carattere sociale e culturale di Intesa Sanpaolo, lo spettacolo, che si inserisce nel progetto più ampio Tra carcere e comunità: l’Umbria per l’inclusione sociale, è patrocinato dalla Regione.

Per entrare in carcere, si attraversano ambienti angusti e grandi slarghi, una mappa di pieni e di vuoti. Come altrove, molto più che altrove, tutto è procedura, soprattutto per chi lo vive nell’ordinarietà del quotidiano. Nella ampia sala luminosa, il pavimento rivestito di linoleum, attendiamo l’arrivo delle attrici: scendono a piccoli gruppi, qualcuna sola, qualcuna nervosa, qualcuna di buon umore, preceduta dal suono della sua voce. Si inizia a lavorare quasi subito, i primi esercizi servono a sciogliere il corpo e a prendere possesso dello spazio. Alcune delle donne sono arrivate in corsa, hanno iniziato il laboratorio da poco e sono più esitanti. Eppure, si avverte sempre, in qualche modo, una familiarità profonda, nel segno della concretezza. «Fino a che non siamo proprio a ridosso del debutto, non rimando indietro nessuna, anche se si tratta di rielaborare, di rivoluzionare tutto. La mia è un’idea confrontativa di lavoro, e mi sento molto sostenuta» mi dice Claudia.
C’è anche chi se ne va. Una scarcerazione anticipata, un trasferimento, oppure un umore. C’è da essere aperti all’imprevisto, al compromesso.
Siedo con le spalle alla parete, attenta a non violare un equilibrio composito, delicato, e osservo. Mi incuriosiscono le relazioni, provo a immaginarle a partire dagli slanci e dai silenzi.
A Claudia Calcagnile la parola marginalità non piace molto, me lo dirà proprio all’inizio della nostra conversazione, «ma serve a farsi capire». In effetti, il concetto di margine, in questa accezione, sembra implicare quello di un centro, dal quale si è come esiliati. Meglio immaginarlo, forse, come un confine (da proteggere, da offrire) o come un ciglio, dal quale sporgersi.
Lo spettacolo si intitola Con il tuo sguardo. Si tratta anche di una riappropriazione, per questi corpi, della possibilità di essere guardati? E, più in generale, come procedi, nella costruzione dei tuoi lavori sul piano visivo?

In carcere la possibilità di essere guardata si afferma secondo modalità differenti, ma si afferma. È una realtà molto diversa da quella nella quale siamo immersi ogni giorno, ma si attivano delle dinamiche simili, per certi versi esasperate dalla costrizione e dalla infantilizzazione totale della persona che si vive in questi contesti. Non posso sapere quale sia la motivazione che spinge queste donne a prendere parte all’esperienza del laboratorio, di certo è importante che ci sia (almeno fino alla fase di lavoro finalizzata alla messa in scena vera e propria) la libertà di entrare e di uscire, di cambiare idea. Io sono lì, in ascolto, in una posizione di accoglienza e di grande osservazione, che poi è il mio modo di lavorare da sempre, anche fuori dal carcere. Mi sento quasi un’antropologa: guardo come si muovono, come camminano, come gesticolano, che tipo di energia mettono in campo nei lavori di improvvisazione. Così emergono delle immagini e su quelle immagini continuiamo a lavorare: le amplifichiamo, le facciamo crescere, le portiamo alle estreme conseguenze e poi iniziamo a sfrondare, a togliere il superfluo, per trovare l’essenziale. Di fatto, il lavoro nasce sempre dalla biografia delle persone e dall’ascolto del loro punto vista, da una ricerca – artistica, concettuale, di scrittura – che si inoltra nei vissuti, per rielaborarli insieme. Non ci sono mai personaggi nei miei spettacoli, ma persone, oppure archetipi. Anzi, forse parte della fatica sta proprio nello scrollarsi di dosso i personaggi che, nostro malgrado, tutti interpretiamo. In carcere questa dinamica è persino più intensa: non si è più nudi ma, al contrario, a volte si ha la necessità di tenere le maschere ancora più alte, di schermarsi di più.
In passato, a Palermo, hai lavorato a partire da alcuni testi: Di quel poco e del niente (2016) è ispirato a Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estès e In stato di grazia (2018) a La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini. Stavolta al centro ci sono, invece, due concetti: le architetture difensive e i legami.
Parlando con le attrici, i temi sono emersi con una tale forza e una tale sincerità che pensare di inserire riferimenti o spunti letterari sembrava quasi un’operazione di innesto posticcio, invece che di approfondimento. Credo che esista, in ciascuno, un nucleo di un’unicità, un’essenza, quella che Hillman chiama la ghianda. Questa essenza noi la proteggiamo, la blindiamo quasi, erigendo delle architetture difensive, appunto. Servono a proteggerci dal mondo: come esseri umani abbiamo tutti, sempre, paura di essere toccati o feriti. Mi sono confrontata a lungo con la dramaturg, Francesca D’Agnano, su questo tema e su questa immagine. Non interpretiamo questo processo in termini positivi o negativi, lo avviciniamo semplicemente come un dato di fatto. Quello su cui abbiamo lavorato, insieme alle attrici, è il rischio che questa operazione, così naturale, porta con sé: quello di non riuscire a guardare al di là delle nostre barricate, non capire più, dopo un po’, da cosa ci stiamo difendendo. Penso che affrontare il tema della paura, seppure in un’accezione così intima, abbia un significato politico: la nostra paura è un grande mezzo per controllarci, per manipolarci. Ma, al tempo stesso, è uno dei segni più evidenti della nostra umanità. È una dualità simile a quella che sostanzia i legami. Il legame, il sentimento della vicinanza estrema a un altro essere umano, è l’esperienza che più ci induce a costruire barriere, a preservarci, ma anche la chiave per abbassarle. Per questo, l’indagine scenica sui legami è stata così delicata, così ricca e anche così perturbante da riempire un anno di lavoro. Ci siamo inoltrate nella visceralità, provando a esplorare, dei legami, il volto meno rassicurante: abbiamo indagato il rapporto madre-figlia e quello tra due amanti, ma anche il legame con un’assenza: quell’esperienza, così dolorosa, di prossimità viva a qualcuno che è ancora molto presente dentro di noi, senza esserlo nella realtà. Credo sia qualcosa che quasi tutti hanno provato, almeno una volta nella vita, ma del quale si fa fatica a parlare, per una sorta di pudore. Non si tratta di una “formula” per descrivere la condizione della detenzione, la distanza fisica che impone dalle persone amate. È ovvio che l’esperienza che queste donne stanno vivendo entri nel lavoro (e che ci sia sensibilità nei confronti delle problematiche che sono figlie di questa esperienza) ma l’impegno è quello a non esserne mai fagocitati. A me, a noi, interessa quella quota di universale – e di ordinario – che risiede nell’esperienza di ciascuna, senza distinzioni tra fuori e dentro il carcere. È anche un modo concreto per uscire da qualsiasi logica “riabilitativa” e tenere l’attenzione puntata sulla ricerca. Allo stesso modo, per me è importante che il pubblico dismetta una lente pietistica o assistenzialistica nell’avvicinarsi allo spettacolo. È, di nuovo, una questione di sguardo.

Nella pratica di un lavoro che emana così tanto dalle interpreti e che, allo stesso tempo, è così tanto esposto all’imprevisto, come si gestisce il compromesso?
Direi che si gestisce per come si può gestire. Ci sono delle volte in cui il malessere che si respira è così forte non dico da impedire l’incontro, ma da renderlo molto complesso. E, per quanto sia vero quello che ti dicevo poco fa, non si può neppure ignorare il luogo in cui si è: si tratta di una continua ricerca di equilibrio tra ascolto e contenimento delle tensioni, e le carte in tavola cambiano continuamente. Questo vuol dire che l’intero impianto è aperto all’imprevisto, che deve potersi sorreggere nel caso un quadro venga a mancare all’improvviso, in termini drammaturgici ma anche di tenuta del gruppo di lavoro. Dobbiamo sempre, tutte, ragionare su ogni possibilità. Questo punto in cui incontriamo il limite, un’impossibilità, è anche il luogo dove nasce, a volte, una specie di magia.
Intendi il tuo impegno come una maniera di “fare servizio”?
Credo che il punto sia un altro. Secondo me le carceri non dovrebbero proprio esistere, e non perché non riescono a essere realmente i luoghi di riabilitazione e rieducazione che pretendiamo o speriamo che siano. Il discorso sta a monte: se la società è strutturata in modo tale da portare alcuni a sviluppare una “devianza”, costruire una struttura che dovrebbe servire a favorire il reingresso di queste persone nello stesso sistema che le ha danneggiate, mi sembra una contraddizione. Non entro neppure del merito dell’efficacia, mi colloco in un’altra posizione. Sono sempre stata mossa dell’idea di cercare la luce negli altri, di scovare quella possibilità che tutti abbiamo di emanare luce. Armando Punzo dice, parlando delle sue esperienze di lavoro in carcere, che si tratta di creare buchi nella realtà e questo lo sento molto vicino al mio modo di guardare. Se invece intendiamo “fare servizio” come servire la propria vocazione, sì. Questo lavoro è semplicemente la mia passione, lo farei anche senza compenso – a Palermo, per dei periodi, è successo – ma poi diventa difficile costruire lo spettacolo, se non hai il budget per i costumi, la scenotecnica, le luci. E questo non è previsto, che lo spettacolo non sia compiuto artisticamente, intendo. È importante il processo, certo, ma noi siamo lì per realizzare l’esito, per incontrare il pubblico.

Negli ultimi anni, sono molte le ricerche che hanno documentato l’efficacia del teatro nel ridurre la recidiva e nel rafforzare l’autopercezione e la capacità relazionale delle persone detenute: si tratta di letteratura critica soprattutto anglosassone, ma si possono menzionare anche i report annuali stilati dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e il XV rapporto sulle condizioni di detenzione curato dall’Associazione Antigone. Spesso ricorre, tra gli elementi esaminati, il beneficio di uno degli elementi fondativi della pratica teatrale: la possibilità di sospendere – per il tempo dello studio e della rappresentazione – gli assetti normativi e convenzionali. Questo, nel contesto carcerario, si riflette nell’occasione, per l’interprete, di pensarsi in un ruolo diverso da quello delinquenziale, di non vedere esaurita la propria identità all’interno di questo schema, così stabilizzato dal discorso pubblico dominante. Un altro modo per dire buco nella realtà, un altro modo per dire ghianda.
«Ci tiene in vita lo sguardo di qualcuno che ci ami» mi dice, con semplicità, Claudia Calcagnile, appena prima di salutarmi.
Ilaria Rossini