FESTE (Familie Flöz)
Lo spaccato di una villa, la porticina al piano terra, il piano nobile, lo scantinato, la portineria; sullo sfondo il mare, lampioni, qualche pianta e tanti sacchi della spazzatura. Questa anticamera esterna, spazio di soglia che lascia intravedere squarci di vite vissute, avvenimenti festosi che fungono da parentesi rispetto alla vita quotidiana, è il palco dell’ultima opera della compagnia berlinese Familie Flöz, Feste, programmata in Sala Umberto. Feste in maschera, feste di matrimonio, obbligo al divertimento che viene contrappuntato da una inestinguibile malinconia, da una sensazione di estraneità che non si riesce ad abbandonare. Il carosello di personaggi vive nel frattempo: tra piccoli acciacchi, promesse di matrimonio interrotte, antipatie e riappacificamenti, velleità lavorative e atti di fiducia conquistata, cancelli che devono rimanere chiusi anche se poi c’è sempre qualcuno che bussa alla porta; ciascuna emozione, ciascun intento è, come sempre nel loro teatro, frutto di un lavoro sul corpo meticoloso e vivido, nonostante (o forse proprio in ragione delle) maschere dagli occhi vitrei che indossano i tre magnifici attori, in grado di rendere sfumature di senso, non detti attraverso posture precise e perfettamente comprensibili nonostante l’assenza di battute. A essere un po’ più debole, stavolta, è l’impianto drammaturgico che vede svilupparsi in parallelo le vicende della coppia in procinto di sposarsi, con la piccola squatter la quale trova riparo tra i sacchi della spazzatura della villa. Le due storie si incontrano in più punti ma senza entrare in profondità, o innescare una riflessione che possa andare oltre la comparazione delle due sorti: una in teoria felice in vista del matrimonio eppure sempre malinconica, l’altra invece vitale e sempre generosa nonostante l’indigenza. Ciò che più colpisce è il contrasto e la purezza della giovane senza casa, l’unica che effettivamente dona benessere agli altri in maniera disinteressata, senza ricevere nulla mentre gli altri sono persi nella loro rinnovata serenità, troppo solipsisti per potersi accorgere di colei che gli ha ridato vita. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Sala Umberto | Un ’opera di Andres Angulo, Björn Leese, Johannes Stubenvoll, Thomas van Ouwerkerk, Michael Vogel | Con Andres Angulo, Johannes Stubenvoll, Thomas van Ouwerkerk | Co-Regia Bjoern Leese | Una produzione di Familie Flöz |In coproduzione con Theaterhaus Stoccarda, Teatro Duisburg, Teatro Lessing Wolfenbüttel. con il supporto dell’ Hauptkulturfonds Regia di Micheal Vogel
I RAGAZZI IRRESISTIBILI(di N. Simon, regia M. Popolizio)
Qualche anno fa si nominava spesso – a dimostrazione della capacità “agglutinante” della lingua tedesca di coniare termini per i sentimenti ibridi o inesprimibili – la parola schadenfreude, il sentimento di piacere di fronte alle sfortune altrui. È a una simile gioiosità diabolica (addomesticata dalle convenzioni, ma così irresistibilmente radicata nel cuore di ciascuno) che si rifà la temperie scenica de I ragazzi irresistibili, adattamento della pièce del 1972, The Sunshine Boys, firmata da Neil Simon, che Massimo Popolizio governa con una regia salda e ritmica, capace di aggiornare, rispettandoli, gli schemi e i tempi farseschi del vaudeville, del quale Willy Clark (Franco Branciaroli) e Al Lewis (Umberto Orsini) sono stati, in gioventù, applauditissimi fuoriclasse. A causa di uno screzio, il duo si è infranto, consegnandoli entrambi, per decenni, a una vita lontana dalle scene, ai rispettivi rimpianti. Willy Clark sprizza ancora rancore, Al Lewis possiede un passo più lieve (e forse persino più sarcastico): la proposta di una reunion televisiva fa riaffiorare l’agonismo, le rivalse, le bizze. Sulla scena ospitale, segnata da un tratto fatiscente, di Maurizio Balò, Branciaroli e Orsini signoreggiano con maestria, con monumentale e rodata naturalezza. Il pubblico è conquistato, complice e, al tempo stesso, portato a rivolgere uno sguardo beffardo (ed ecco la schadenfreude) a questo duello in progressione – mai stereotipato – tra vedette cocciute, e ormai inermi. Eppure, il rovescio celato della derisione è la tenerezza. Vale sul palco, mantenendo la relazione tra i due sempre scattante e sempre sentimentale, vale in platea, liberando la consapevolezza di una singolare fraternità, definendo la compartecipazione, quasi consolatoria, di un destino. Freud, ne Il motto di spirito (1905), espone – come uno dei moventi del fatto comico – la “teoria della dominazione”, secondo la quale si ride per esercitare una forma di controllo sull’oggetto del riso, per esorcizzare il turbamento nel quale ci getta. Il gesto al quale siamo chiamati è quello di osservarci reciprocamente, come in uno specchio che, enfatizzando i tratti, ci restituisce il grottesco, la voragine, ma anche la grazia, la leggerezza della nostra umanità. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Morlacchi. Crediti: di Neil Simon, regia di Massimo Popolizio; con Umberto Orsini e Franco Branciaroli: e con Flavio Francucci, Chiara Stoppa, Eros Pascale, Emanuela Saccardi; scene di Maurizio Balò; costumi di Gianluca Sbicca; luci di Carlo Pediani; suono di Alessandro Saviozzi; traduzione di Masolino D’Amico; una produzione Teatro de Gli Incamminati, Compagnia Orsini, Teatro Biondo Palermo in collaborazione con CTB Centro Teatrale Bresciano e con AMAT Associazione Marchigiana Attività Teatrali e Comune di Fabriano
GENNARENIELLO (di Eduardo De Filippo, Regia Lino Musella)
C’era del timore nei confronti di questo Gennareniello. Ma Lino Musella ha studiato tanto, moltissimo. Esattamente come De Filippo nelle versioni televisive delle sue commedie, l’attore appare a sipario calato per parlare col suo pubblico. Declama l’ultima lezione, quella del 1983, un anno prima della morte del drammaturgo. La vita e la morte sono momenti di un fluire: chi va via, lascia spazio al nuovo, e chi arriva deve studiare, conoscere ciò che è stato, amarlo, e andare oltre. Sollevato il pesante velluto rosso, c’è una terrazza napoletana: è il 1984 e sui muri si legge il furioso passaggio del terremoto di quattro anni prima. Dall’abitazione di una palazzina inguainata da impalcature, esce della musica e appare una bella ragazza. Gennareniello è la storia di un conflitto generazionale e di una fine, ma anche della forza dell’abitudine a volersi bene. Musella ha avuto la brillante intuizione di trattare Eduardo, Luca e Pupella come se fossero proprio delle maschere: sono attori e sono l’interpretazione dei personaggi. Questo ha prodotto una perfetta aderenza al modello originale, pur mantenendo gli specifici tratti: Tonino Taiuti è meravigliosamente Eduardo che interpreta Gennareniello, pur lasciando intravedere, leggerissimo e pudico, un ritmo jazz nei movimenti. Lo stesso Musella è Luca, pur cambiandogli aspetto e rendendolo simile a Nino D’Angelo e vagamente vicino a quella gioventù del primo Troisi, immobile e senza meta perché senza lavoro. Sarebbe un torto non ricordare il fulgore dell’interpretazione di Gea Martire, i cui pesanti e pensanti silenzi la rendono una meravigliosa Pupella. Musella riesce a restituire la normalità di una storia esemplare di una normalissima famiglia, con una tenerezza straziante ma senza eccessi. È il 1984, anno della morte di Eduardo. Oltre quella data, la sua umanità non può trovare spazio: Napoli era cambiata, come era cambiato l’occidente tutto. Gennareniello, messo in scena la prima volta nel 1932, è diventato il passato, ed è la fine che lascia spazio al nuovo. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro San Ferdinando, Crediti: Di Eduardo De Filippo; Regia Lino Musella; Con Tonino Taiuti, Gea Martire, Lino Musella, Roberto De Francesco, Ivana Maione, Dalal Suleiman, Alessandro Balletta, Daniele Vicorito; Scene Paola Castrignanò; Costumi Ortensia De Francesco; Foto di scena Ivan Nocera.
JAGO (di Roberto Latini)
Alla fine dello spettacolo, all’uscita dai piccoli camerini dell’Argot, gli dico che non ricordavo molti dei momenti comici, non ricordavo tutta quell’ironia. L’indomani mi risponderà che gli anni hanno forse aggiunto un certo disincanto e dunque una facilità alla risata che dunque risulta ancora più tragica. Per i suoi 40 anni di attività il teatro diretto da Francesco Frangipani e Tiziano Panici, tra le altre cose (mostre, proiezioni di film e festeggiamenti) si è regalato - regalandolo così ai fortunati che nelle poche repliche si sono stretti, spalla a spalla, nella piccola sala trasteverina - un’opera preziosa creata nel 2007, Jago di Roberto Latini. Carne e ossa dell’attore/autore, trucco per le lacrime nere, pelle per lo spolverino, stoffa, per i pantaloni neri e la camicia bianca, cuoio per le scarpe usurate in 16 anni di repliche - per quella specie di balletto sul posto con cui Jago friziona le suole sul pavimento mentre contorce l’Otello di Shakespeare riscrivendoselo addosso -, gli ambienti musicali di Gianluca Misiti e luci di Max Mugnai (due fattori che concorrono vividamente a fare di questa apparizione un’immagine che rimane inchiodata nella memoria), la plastica e il metallo dei due microfoni - uno per la voce senza effetti, quella di Jago soprattutto, l’altro per ricreare le voci di chi in fin dei conti altro non è che una proiezione del maligno alfiere. Eccola l’opera teatrale, performativa incarnata; non ha senso recensirla qui, se non per riportare quella vibrazione, quello sconcerto dello spettatore di anni fa che scoprì - in meno di un’ora, come in una folle corsa notturna - la possibilità di un teatro altro attraverso questo spettacolo, e che ora ritrova in quel corpo avvolto dal buio la capacità di farsi opera intera, di essere uomo-concerto, uomo-teatro e dunque uomo-libro. Katia Ippaso nel volume Io sono un’attrice evidenziava il potere erotizzante di Latini, che va oltre la questione di genere, ed è evidente in Jago quanto il potere della parola sia seduzione pura, un’energia che dalla testa arriva al ventre e viceversa. Si spera in un ritorno, meriterebbe qualsiasi palcoscenico. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Argot di e con Roberto Latini musiche e suono Gianluca Misiti luci e direzione tecnica Max Mugnai
FAUST (di Leonardo Manzan)
«Il teatro è diventato il posto perfetto per un comizio, una lezione o una conferenza». Così la scena di Faust, il nuovo spettacolo di Leonardo Manzan scritto con Rocco Placidi, non è che un tavolo da conferenza senza inizio né fine, invaso da fogli bianchi. Vi prendono posto quattro relatori che dialogheranno a lungo e a vuoto attorno al Faust di Goethe. Le luci di sala restano accese: rimaniamo sulla soglia del teatro, proprio come nell’incipit del grande dramma che presta il titolo allo spettacolo; ennesima trovata di Manzan, si dirà, per smascherare le pose di un teatro contemporaneo che guarda furbescamente ai classici solo per riempire cartelloni. Lo spettacolo non c’è, c’è solo un lungo prologo fatto di parole che suonano come rutti, calembour smaltati, tirati all’estremo: il gioco ironico prosegue anche quando prende la parola Faust, con la malinconia magnetica di Alessandro Bay Rossi. Alle loro spalle un sipario c’è, ma resterà chiuso, mosso soltanto da un vento di presagio, suggestivo ma innocuo. Annuncia l’arrivo di Mefistofele, un’energica Paola Giannini, a rappresentare il demonio o forse il teatro stesso, ovvero qualcosa in cui nessuno più crede, di cui nessuno più ha paura. Destinato a morire. Tra stacchetti da varietà televisivo, canzoncine, siparietti emerge il grido di una rivolta già stanca di se stessa, la capriola della satira che ritorna in posizione eretta, o prona, davanti al padrone di turno che le chiede di ruttare o di fare il verso della gallina. Se già vi allude la lunga rievocazione dei provini, la dichiarazione d’amore finale suggerisce che l’ennesima beffa di Manzan al teatro sia di usarlo per scopi personali, o almeno così farci credere. Forse però il destinatario di quelle parole d’amore struggenti è il teatro stesso. «Siamo possibili noi due». Se si potesse immaginarne la risposta, forse direbbe a Manzan: fallo, è ora. Puoi rialzare questa benedetta quarta parete se ti serve, credere in me e, come fai dire a Mefistofele/Giannini, «esprimerti senza pudore, con tutti i sentimenti, ed essere felice». (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Vascello. Tratto da Faust I e II di J. W. Goethe. Di Leonardo Manzan e Rocco Placidi. Con Alessandro Bandini, Alessandro Bay Rossi, Chiara Ferrara, Paola Giannini, Jozef Gjura, Beatrice Verzotti. Regia Leonardo Manzan. Scene Giuseppe Stellato, costumi Rossana Gea Cavallo, music and Sound Franco Visioli, light designer Marco D’Amelio, fonico Filippo Lilli, datore luci David Ghollasi, macchinista Giuseppe Russo, assistente scenografa Caterina Rossi, aiuto regia Virginia Sisti. Produzione La Fabbrica dell’Attore - Teatro Vascello, Teatro Piemonte Europa, LAC Lugano Arte e Cultura in collaborazione Teatro della Toscana Teatro Nazionale. Foto di Manuela Giusto
GIORNI INFELICI (di S. Scuccimarra, regia M. D’Amico)
È una giornata come le altre per Donna (Sabrina Scuccimarra, anche autrice nello spettacolo diretto da Martino D'Amico). Si alza di buonumore, ergendosi sopra la montagnetta di fogli sparsi su cui riposa, saluta signori e signore, chiede dei rispettivi consorti e dei bambini, scambia convenevoli con la signora della spesa, fantastica sul ragazzo del banco alimentari, si congratula con la signora mamma e congeda il signor papà sempre di fretta. Ogni giorno la stessa tiritera, non una virgola fuori posto. “Né peggio né meglio, nessun cambiamento. Nessun dolore” nel rassicurante e solitario angolo di mondo che si è ritagliata, dove non esistono estremi, se non giorni più o meno infelici, tutti uguali. Fino a quando, nel suo copione perfettamente cadenzato, non incappa la nuova vicina, una donna sulla cinquantina, così simile a lei, eppure libera e sfrontata. Da quel momento, le certezze di Donna cominciano a crollare, e la forzata mediocrità in cui si manteneva vacilla sotto i colpi degli eventi che sfuggono al suo controllo. La protagonista comincia a riservarsi sempre di più spazi in cui esprimere il suo reale scontento, mentre sparpaglia con stizza i copioni impilati intorno a lei. Persino le sue fantasie notturne, che vedono protagonista questo misterioso cowboy immaginario dedito al suo piacere, sembrerebbero provare a deviarla dal normale corso di una vita programmata nel minimo dettaglio. Così, nel cuore della notte, Donna confronta la vicina e, con sua enorme sorpresa, scopre che non è altro che una sua proiezione, quella parte di lei che agogna a una vita svincolata dalle catene di quei copioni che tanto alacremente ha disteso e ammucchiato, fino a venirne inghiottita. E così Donna si distacca dal cumulo di fogli che era diventato la sua prigione e, con solo una camicetta da notte a coprirla, avanza sul proscenio e si espone agli occhi avidi del pubblico, rivendicando la sua libertà. Cento di questi giorni infelici, se per un momento possiamo comprendere il labile confine tra vivere e sopravvivere e immergerci nelle acque turbinanti e imprevedibili di un’esistenza pienamente vissuta. (Letizia Chiarlone)
Visto alla Sala Mercato del Teatro Nazionale di Genova di Sabrina Scuccimarra Produzione Compagnia Lombardi Tiezzi in collaborazione con Associazione Culturale Padiglione Ludwig Regia Martino D’Amico Interprete Sabrina Scuccimarra Musiche Gioacchino Balistreri Luci Alessio Pascale Assistente alla regia Matteo D’Incoronato
INSECTUM IN ROME di (T. Ondrová e S. Gribaudi)
lnsectum in Rome, performance di Tereza Ondrovà e Silvia Gribaudi e vista a Teatri di Vetro, si fonda su un cambio di prospettiva esistenziale, da antropocentrica a entomologica. Se a livello più immediato la domanda di partenza (emersa dal progetto di ricerca della fotografa naturalistica Elisa Zavoli e dalla violinista Sara Michieletto in cui hanno creato immagini e suoni per riavvicinare le persone ai temi ambientali) chiede se “ci si sia mai sentiti un insetto”, le questioni che ne scaturiscono a partire dall’osservazione dei loro modi di comportamento, interazione e evoluzione, si costruiscono a partire da una logica più ampia di ribaltamento. L’ironia stralunata, l’interazione gentile, la frontalità delle azioni spesso agite con un intento dimostrativo e di condivisione che spesso caratterizzano le opere di Gribaudi, intessono tutta la performance fin dall’inizio, come quando le due artiste siedono tra il pubblico o ci invitano a spostare di posto, o a scambiare oggetti, spingendo a un cambiamento anche non desiderato, o quando innescano una serie di azioni fondate sulla continua ripetizione, su atti che possono diventare rituali quotidiani. Il volto dall’espressività contenuta, il corpo disarticolato, il cui movimento diviene staccato musicale che designa un ritmo sonoro, accompagnato dalle altre sonorità naturali, diventano il luogo su cui porre nuove questioni legate all’individuazione di genere, età, taglia, nel momento in cui si incontra qualcosa di sconosciuto e di cui non si sono ancora acquisiti i parametri di riconoscimento e relazione, sia questo un insetto, un’ altra persona o altri esseri viventi. Nei panni di qualcos'altro, nel confronto diretto e nella vicinanza coatta, ci si sperimenta comodità e scomodità finché non si individua una possibilità di mutamento, scontro o di convivenza. L’invito diventa procedere verso nuovi modi di adattamento, anche giocando al “come se”, provando a traslare quelle abilità riconosciute negli insetti e verificandone le possibilità di successo nel tempo e nel luogo che stiamo abitando. (Viviana Raciti)
Visto a Teatro India. Teatri di Vetro. Coreografe e performer Tereza Ondrová e Silvia Gribaudi, disegno luci Katarína Morávek Ďuricová, produzione Temporary Collective / Daniela Řeháková e Associazione Culturale ZEBRA, coproduzione Tanec Praha z.ú./ TANEC PRAHA, PONEC – dance Venue e Operaestate Festival Veneto – CSC di Bassano del Grappa
PINOCCH-IO (di Lucia Guarino)
Uno spazio metafisico accoglie l’esile figura della danzatrice Lucia Guarino. Tutto intorno è bianco, e in questa rarefazione, una lunga asta color rosso acceso viene alzata come fosse una grande spada a fendere questo candore: si tratta invece di un naso, anzi il naso di Pinocch-io, ultimo e intimo lavoro dell’artista. Attorno a questo «figur-io», vivo di potenza e per questo delicato e fragile, si articola una dedica dell’io al sé - essenziale, come è il linguaggio coreografico di Guarino – ma poetica e incisiva che sembra affiorare, dando loro corporeità e concretezza, dai quadri di De Chirico, tanto nei colori usati per gli abiti, che nell’uso e nella collocazione degli oggetti. Un’indagine, che è anche un duello di scherma a cui alludono i costumi, sulla propria natura che parte dalla menzogna - prima di qualsiasi altra azione, la danzatrice indossa simbolicamente il lungo naso - per arrivare alla verità del corpo in un percorso enigmatico, malinconico, a tratti inquietante in cui la burattina biomeccanica si sfida a diventare se stessa. Ancora in definizione, le luci tenui di Gianni Staropoli aiutano a dipingere una dimensione sospesa, compromessa nella sua fissità, in cui Guarino sembra nascere e muoversi come fenomeno, accadimento etereo e fugace. Un essere dai cuori di carta inchiodati al petto, che possono essere presi e sfogliati uno dopo l’altro, lentamente, con decisione; tante stille rossastre appartenenti a un’intera vita. In quel corpo che si fa piccolo piccolo e poi si estende, salta, corre, o semplicemente sta, si manifesta l’essere, la sua nascita, infanzia, adolescenza e adultità, mentre nel qui e ora teatrale si rappresenta "l’esser-ci". Io, tempo e spazio sono le tre unità sceniche attorno alle quali si muove questa coreografia di ricerca, sono vettori di sensibilità attraverso i quali possiamo dire di noi. Oppure mentire. (Lucia Medri)
Visto al Teatro India, Teatri di Vetro: concetto e movimento Lucia Guarino, luce e spazio Gianni Staropoli, musiche Stefano Pilia, sguardo esterno Emma Tramontana, supporto alla drammaturgia Roberta Nicolai, consulenza costumi Gianluca Sbicca, sostegno alla produzione TSU Teatro Stabile dell’Umbria. Supporto amministrativo NexusFactory, sostegno alla residenza CURA centro umbro residenze artistiche, Masque Teatro, URA, Spazio ZUT speciali ringraziamenti a Elena Rosa, Gianni Staropoli, Marcello Sambati. Foto di Margherita Masé
UNA RELAZIONE PER UN ACCADEMIA (di F. Kafka, regia T. Ragno)
Un microfono di fronte a un leggio e a un alto sgabello dotato di numerosi appigli per piedi e mani. Si attende l’arrivo dell’illustre ospite che esporrà la sua relazione di fronte alla platea. Stretta tra le dita la maniglia della sua ventiquattrore, schiena dritta, compare una scimmia in smoking e scarpe da ginnastica. Diretto e interpretato da Tommaso Ragno, Una relazione per un’Accademia, tratto dall’omonimo racconto di Franz Kafka, mette in scena la storia di Pietro Il Rosso, una scimmia catturata in Africa che, per sopravvivere, è arrivata a imitare gli esseri umani al punto da poter rivendicare, con orgoglio, di avere acquisito la cultura di un europeo medio, accantonando il suo passato di primate e buttandosi nel teatro di varietà. Al di sotto della tuta villosa che ne ricopre il corpo, Ragno si erge sulla sedia e scartabella tra i fogli, cominciando a raccontare. Sotto le luci ravvicinate e puntate su di lui, gocce di sudore si formano copiose sulla fronte della strana creatura, che pare irrequieta: i suoi occhi penetranti scandagliano il pubblico mentre continua a saltellare convulsamente da una sporgenza all’altra, quasi come se il suo lato più animale avesse bisogno di emergere attraverso la narrazione compita e precisa, come i ciuffi di pelo sbucano dalle maniche della camicia. Termina la sua relazione e si inchina, accogliendo gli applausi del pubblico. Ma nel frugare nella sua valigetta, sbuca una banana. Alla vista, il lato più primitivo prende il sopravvento e, innalzando il frutto, sulle note di Also sprach Zarathustra di Strauss, lo sbuccia con lentezza solenne e plateale, prima di prenderne un morso. La natura trionfa sulla civiltà, le pulsioni persistono al di sotto dell’epidermide, come le radici sbucano tra le crepe del cemento, combattendo il grigiore delle metropoli e tendendo verso il sole e l’azzurro sconfinato del cielo. Al di sotto dei bei vestiti, rimaniamo, pur sempre, animali anelanti all’illusione di una libertà primitiva perduta che ci pare di riacquistare, talvolta, nel fantasma di una risata. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro della Tosse. Di Franz Kafka, diretto da Tommaso Ragno, aiuto regia Maria Castelletto, interpretato da Tommaso Ragno, scenografie Katia Titolo, disegno luci Giuseppe Amatulli, Argot Produzioni in collaborazione con Pierfrancesco Pisani – Isabella Borettini per Infinito Teatro e Argot Produzioni
[…] KZ (di Paola Bianchi)
Già nel titolo è incisa una contrazione, un acronimo dell’orrore: KZ sta per Konzentrationslager, cioè campo di concentramento, quindi “KZ” è un sostantivo “concentrato” di un concentramento. Cavilli linguistici a parte, Paola Bianchi presta con coerenza, progressione e cura, la sua ricerca al progetto Voci dalla storia per cui ha ascoltato le testimonianze delle persone deportate nei campi di sterminio nazisti e le ha fissate, come se dal supporto audio passassero a un supporto fisico, in una partitura di gesti. […] KZ quel segno di punteggiatura nel titolo - che indica in una citazione la scelta di un’omissione di una parte di testo originale - è un tratto distintivo a ribadire che ciò a cui assistiamo è una traccia, una stratificazione di memorie scelte, di tipo narrativo, uditivo, corporeo, ognuna delle quali è stata selezionata. Non c’è memoria senza selezione e per questo la contrazione è sia nel contenuto che nella forma: i movimenti della coreografia sono incidentali, frammentati, ruvidi e netti, introversi e estroversi, concavi verso l’interno, contorti, a fatica, e liberati con coraggio. A questi si alterna il voice over di Bianchi che alla partitura coreografica fa corrispondere una vocale sulla memoria, sulla persistenza di una storia, sull’eternità di un trauma che si fa sentimento osseo, incastonato nel midollo della nostra esistenza. «Ricordare vuol dire dimenticare» dirà più volte e lo farà attraverso un lavoro pregiato e rispettoso dell’orrore e dolore tout court, non solo di quello dell’Olocausto, ma di tutte le violenze e i genocidi della storia, passati e presenti. Simbolo di questo esercizio di archivio, una lampadina che con movimenti circolari scende gradualmente sulla scena restringendo sempre di più la porzione di spazio illuminata; e scendendo ancora gira attorno al corpo della danzatrice, alle sue parole e ai gesti che si fanno impercettibili, fino a quando tutta la sala resta immersa nel buio e resta acceso solo un cerchio di luce, che non dovrebbe spegnersi mai. (Lucia Medri)
Visto al Teatro India, Teatri di Vetro: coreografia e danza Paola Bianchi, sound design Stefano Murgia, lighting design Paolo Pollo Rodighiero, residenza creativa Teatro Galli di Rimini produzione PinDoc, coproduzione Liberty / Stagione Agorà con il contributo di MIC e Regione Siciliana, realizzato nell’ambito del progetto Voci dalla storia ideato da Liberty e sostenuto da Unione Reno Galliera, Città Metropolitana di Bologna, Comuni di Baricella, Granarolo dell’Emilia, Malalbergo e Minerbio, Parco della Memoria Casone del Partigiano “Alfonsino Saccenti”, con il contributo di Regione Emilia Romagna. Foto di Margherita Masé
ICE_SCREAM (di Giselda Ranieri)
Guardare Giselda Ranieri in scena significa osservare un corpo mente che elabora live un pensiero coreografico: non si tratta di improvvisazione ma di un ragionamento che continua ad articolarsi in partiture e espressioni che sono sempre in allerta, e mai si tranquillizzano nella successione ordinata della partitura. Una costante elaborazione che diviene trasparente, soprattutto quando il suo lavoro, prima in sala prove, poi in fase laboratoriale, entra in contatto con il pubblico. ICE_SCREAM, presentato al Teatro India, è una sintesi aperta, non ancora chiusa in una struttura definitiva, che ha come sottotitolo Molti volti per un progetto sull’umano e in cui si condensa il lavoro della danzatrice, performer e coreografa sul binomio oppositivo riso/pianto. Già elaborato durante Trasmissioni, la fase di ricerca di Teatri di Vetro, nell’esercizio condotto con la consulenza di Fiora Blasi, per quanto riguarda gli strumenti di clownerie, e insieme ad alcune partecipanti; il progetto di Ranieri arriva al suo primo approdo insieme all’interprete Micheal Incarbone presentandosi come un duo non solo di danza, ma anche duo musicale, attoriale, vocale, comico e persino animale. Due esseri viventi rivaleggiano tra loro, prima con movimenti in parallelo, poi con duelli diagonali e vicinissimi al proscenio, utilizzando due microfoni che fungono da amplificatori di suoni già risonanti dall’interno dei corpi: sono creati, propagati, urlati tramite contorsioni, prolungamenti, flessioni che uniscono questi rumori organici, fisici, a una sonorizzazione campionata elettronicamente, a cui si aggiungono riferimenti agli anni Ottanta, dalle tute animalier indossate, a un orecchiabile tormentone, fino all’acme finale col Bolero di Ravel su uno sfondo di cuori pulsanti al neon. Uno spettacolo che è una human beatbox (in riferimento alla tecnica musicale di riproduzione di suoni con la bocca) calamitante, che non si fa mai perdere di vista, che comprende tutto lo spettro dell’emotività: ascese e discese, toni gravi e acuti, fasi di condensazione e scioglimento (come il gelato “ice cream” del titolo che allude anche a io urlo “I scream”) che si manifestano sui volti di Ranieri e Incarbone facendoli diventare sorprendenti maschere tragicomiche. (Lucia Medri)
Visto al Teatro India, Teatri di Vetro: idea e coreografia di Giselda Ranieri, in scena Michael Incarbone e Giselda Ranieri, progetto sostenuto da Inteatro/Polverigi; Oriente-Occidente; Armunia; CLAPS/Brescia; Komm Tanz-Passo Nord – Compagnia Abbondanza-Bertoni; Qui e Ora Residenza Teatrale, ATCL; Teatro della Tosse. Produzione Gruppo E-Motion con il sostegno di MIC – Regione Abruzzo e Comune dell’Aquila. Foto di Margherita Masé
SONATE BACH (coreografia e regia di Virgilio Sieni)
A Cango ogni performance è unica, forse irripetibile. Per la natura dello spazio, per il dèmone che lo abita, per la memoria dei muri carica di voci. Qui Virgilio Sieni ha ripreso uno dei suoi lavori più belli, Sonate Bach. Di fronte al dolore degli altri (sulle Tre sonate per viola da gamba e pianoforte di J.S. Bach, e in dialogo coll’omonimo libro di Susan Sontag del sottotitolo). È del 2006 ed è scandito da 11 date emblematiche di tragedie del nostro presente, ma ora ritorna a noi trasformatissimo: niente musica eseguita dal vivo, in compenso si è aggiunto un interprete, ed è venuta a mancare la proiezione di un video (di Sofri), a suo tempo importante, oggi qui dispensabile. Le immagini di orrore di un mondo sempre più in fiamme già circondano e assediano abbastanza il nostro quotidiano. Le ragioni di un nuovo e rinnovato immaginario di compassione, di fronte all’orrore e alla morte, alla sopraffazione e all’ingiustizia, devono trovarsi direttamente nella prossimità dei corpi. Una prossimità che allude (e immagino debba condurre) a una comunità di cuori. La disposizione spaziale di Cango consente questo, perfettamente. L’inedito avvio è perturbante: i danzatori entrano camminando sulle ginocchia, come corpi mutilati nel buio che li inghiotte. Sono anatomie in rovina che chiedono, nel gesto, risposte. In scena, sorprende Jari Boldrini (sempre più dinamico e in stato di grazia) perché sa sempre cosa fare e dove e quando, non ha bisogno nemmeno di pensare; Maurizio Giunti è certo più istintivo, ma il suo fare non è meno puntuale e preciso e luminoso; mentre Andrea Palumbo si raccorda perfettamente con un atletismo gestuale capace di continue epifanie, come le linee di Valentina Squarzoni che sovrastano tutto, quasi in ogni istante della sua presenza. Ma è Giulia Moreddu il corpo più sapiente nel presentarsi dolente e inerte e trasfigurato dalla sofferenza (in una lunga, febbrile e sospesa slow motion con Jari che fa tremare i muri), di fronte alla quale siamo tutti costretti, sottomessi, spettatori incapaci d’azione. (Stefano Tomassini)
Visto a Cango. Coreografia e regia Virgilio Sieni, Interpreti Jari Boldrini, Maurizio Giunti, Giulia Mureddu, Andrea Palumbo, Valentina Squarzoni, Musica J.S. Bach Tre Sonate per viola e pianoforte (BWV 1027, 1028, 1029), Costumi Giulia Pecorari, Giulia Bonaldi, Marysol Maria Gabriel, Luci Andrea Narese, Virgilio Sieni, Direzione tecnica Marco Cassini, Produzione Compagnia Virgilio Sieni, in collaborazione con Festival Chiassodanza, RED Festival Reggio Emilia Danza.
IL NOSTRO MARTELLO È IN MANO A MIA FIGLIA (di B. Watkins, regia M. Glenda)
Due sorelle, una madre, una pecora. Un pickup, un padre defunto, l’intuizione di un cielo enorme sul vuoto pneumatico di una prateria tra le cose e le persone. Il fantasma di una nonna vaga nell’immensa distesa, dove si perse tanti anni prima in una tormenta. Sarah (Federica Carruba Toscano) e Hannah (Arianna Cremona), due sorelle, sognano di lasciare una casa troppo piccola in quella landa troppo grande, di allontanarsi da una madre imperscrutabile e inafferrabile, sempre oltre una spessa coltre di nostalgia. L’angosciante attesa di una catastrofe è la cifra de Il nostro martello è in mano a mia figlia, testo del drammaturgo e sceneggiatore statunitense Brian Watkins: una catastrofe che sembra conseguire all’entropia innescata da un’altra catastrofe, più antica. La storia si ripete, e ripetendosi si sovrascrive, come cancellando le sue onnipresenti tracce, incrementando un senso di oppressione e di impotenza che filtra nei non-dialoghi tra le sorelle, nei tic nervosi e nelle coazioni a ripetere gesti fisici. Prima di morire (o fuggire?), il padre lascia alle tre donne un sontuoso pick up che le sorelle bramano per la fuga, ma anche una pecora, Vicky, bestia troppo stupida per essere addestrata a stare in casa e che continua a sporcare e a urtare cose che non dovrebbe. Eppure la madre ama la bestia inebetita. Il silenzio dell’animale diventa simbolo insopportabile di quel tutto doloroso e muto. Fa venire in mentre la capra di una famosa poesia di Umberto Saba, fa venire in mente ogni capro espiatorio e il male di cui si fa carico. Mentre Hannah e Sarah preparano di malavoglia una cena a sorpresa per il compleanno della mamma, Vicky commette l’errore di entrare in cucina e rovesciare una pentola di sugo proprio mentre le due sorelle vivono l’unico momento di empatia e leggerezza nel dramma. L’imprevisto porta a un’esplosione di violenza contro l’animale, che stravolge il ritmo e il linguaggio della piece, verso un finale pànico, straziante, disturbante. Carruba Toscano e Cremona ci portano dentro un testo raffinato e potente, la cui scelta è felicissima e suscita curiosità verso una scrittura al contempo giovane, ma consapevole di una tradizione americana di paesaggi e caratteri marginali. Vite lontanissime dalla nostra quotidianità urbana, ma proprio per questo specchio di un’area fata di violenza e desiderio, remota ma radicata in ciascun* di noi.
Visto al Teatro Tor Bella Monaca, di Brian Watkins; traduzione Enrico Luttmann; con Federica Carruba Toscano e Arianna Cremona; regia Martina Glenda; scene Sara Palmieri; disegno luci Sebastiano Cautiero; realizzazione costumi Nunzia Russo; produzione La Contrada Teatro Stabile di Trieste
LA PARTE MALEDETTA. CARMELO BENE (regia Clemente Tafuri)
A Genova c’è un bastione silente, ma serio e testardo, della ricerca teatrale, rappresentato dal lavoro di Teatro Akropolis. Il gruppo negli anni ha declinato il proprio campo d’azione non solo negli ambiti creativi, anzi ha dimostrato un amore ostinato per alcune zone della scena contemporanea. Passione concretizzatasi in un festival, in una collana di libri, talvolta nell’organizzazione di importanti convegni, negli ultimi anni in un un progetto cinematografico e ora anche in un archivio digitale dedicato agli studi delle arti performative. Ma è sempre la scena ad essere al centro dello sguardo, con l’intento di scandagliare la creazione artistica più che l’evento spettacolare. Akropolis si muove in questo senso con discrezione, come un visitatore alla ricerca di un mistero, in una stanza buia, in mano solo una piccola torcia con cui illuminare certi dettagli. Nel caso di La parte maledetta, il tentativo è quello di raccontare l’arte con l’arte: quelli di Clemente Tafuri e David Beronio non sono documentari (su Massimiliano Civica, Paola Bianchi, Gianni Staropoli, Carlo Sini e ora Bene), ma lavori che problematizzano il linguaggio teatrale problematizzando quello filmico. Si pensi a uno di quelli più radicali, il film su Civica, dove neanche la voce del regista appariva e le sue parole erano affidate alla narrazione di Bobo Rondelli. Nel caso dell'ultima tappa, vista a Teatri di Vetro, il cuore del linguaggio è nel montaggio, nel filo rosso che lega i frammenti di archivio, il prezioso materiale nel quale Bene parla del teatro come miracolo del non luogo, della propria arte in contrapposizione con il sistema - "mondano" e "dopolavoristico" - dello spettacolo. Non è il Carmelo Bene tritato e riconsegnato in forma di meme nelle sue uscite più divertenti e decontestualizzate, qui Akropolis non teme le tirate più complesse e filosofiche, ma neanche alcune suggestive immagini dal cinema beniano o dalle celebri produzioni televisive dei suoi spettacoli. La parte maledetta in questo caso è il corpo a corpo con la rappresentazione, il suo perenne disfacimento. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro India. Teatri di Vetro 2024. Regia Clemente Tafuri con Valentina Beotti, Margherita Fabbri, Daniela Paola Rossi fotografia e montaggio Clemente Tafuri, Luca Donatiello, Alessandro Romi riprese e audio Luca Donatiello, Alessandro Romi
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