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Voi avete capito le ragioni della bocciatura? Sulla Pergola e non solo

Una riflessione sul declassamento della Fondazione Teatro della Toscana che ha perso il titolo di Teatro Nazionale pe diventare Teatro della città (ex Tric)

Il 26 settembre è stata ripristinata la Commissione Prosa con la nomina, in rappresentanza delle autorità locali (Regioni, Province, Comuni) di Nadia Ghisalberti, Piergiorgio Piccoli e Pierluigi Sacco. Prendono il posto di Alberto Cassani, Carmelo Grassi e Angelo Pastore, dimessisi il 19 giugno dopo aver costatato «l’impossibilità di costituire all’interno della Commissione un percorso condiviso ed equilibrato». La volontà di procedere a maggioranza da parte dei quattro commissari nominati dal Ministro, e lo smantellamento del teatro d’arte e del sistema teatrale – per dirla con le parole di Pastore a la Repubblica (20 giugno 2025). Ma anche la scelta, per citare Cassani (al Corriere di Bologna), di declassare il Nazionale della Toscana «con motivazioni pretestuose».
Perché riprendere la questione? Per non cedere del tutto alla dimenticanza, perché abbiamo letto le carte, alcune delle quali inedite finora, e perché vale rilanciare il tema della trasparenza degli atti istituzionali, che è un’urgenza strutturale e una questione democratica.

L’immagine che viene rileggendo i verbali è quella degli interrogatori dei polizieschi che hanno la stanza ingrigita dai neon, il grande tavolo sul quale battere i pugni, un paio di inquirenti che in piedi annuiscono mentre altri due hanno il compito di pressare il sospettato perché cada in contraddizione. Ogni tanto dall’ufficio c’è chi porta un documento buono per l’indagine – «ecco gli estratti bancari», «abbiamo il tabulato delle telefonate», «c’è l’esame del DNA» – e immancabile a mezz’altezza, coincidente col punto di vista dello spettatore, il vetro dietro il quale qualcuno osserva, mani in tasca e l’espressione di chi già sa come andrà. Provo dunque ad usarla quest’immagine, per intenderci.
Ci sono due dei quattro commissari nominati dal governo (Luigi Rispoli e Gianpaolo Savorelli) che «condividono» ma la cui voce nei verbali non c’è mentre a incalzare sono Marco Lepre e Alessandro Massimo Maria Voglino, anche loro di nomina governativa. L’amministrazione fornisce le carte nel tentativo di ristabilire il rispetto della prassi – sono state compiute le verifiche, i fatti «sono già oggetto degli ulteriori approfondimenti», qui ci sono le precisazioni richieste – mentre il soggetto interrogato è la Fondazione Teatro di Toscana, che il 27 marzo 2025 ha ricevuto conferma che il progetto artistico del 2024, ultimo anno del triennio precedente, è valso 29 punti su 35, e cioè l’82,8% del punteggio massimo ottenibile, mentre adesso – è il 7 maggio, sono passati appena 41 giorni – si sente dire che non ha «le caratteristiche idonee» per essere un Teatro Nazionale.

Lepre e Voglino sembrano essersi divisi i compiti. Il primo introduce le accuse, il secondo le rincara. Ecco, innanzitutto impressiona quanto, di seduta in seduta, varino gli aspetti che nel progetto della Fondazione secondo loro non funzionano. Prima sono il programma «generico se non inesistente», la personalizzazione di Massini e il modo in cui (in riferimento allo Statuto) è stato scritto il contratto con cui è stato nominato Direttore Artistico – c’è un avverbio, «insindacabilmente», che insospettisce perché nella gestione sembra «escludere ogni rapporto con il Direttore Generale» – e poi c’è proprio la questione del Direttore Generale, Marco Giorgetti, la cui uscita preoccupa. Ma a Lepre non basta per cui insiste ed elenca: sono state interrotte importanti relazioni internazionali, in Italia «vengono meno storici rapporti di collaborazione» e c’è la sostituzione della scuola diretta da Pierfrancesco Favino col Centro di Avviamento all’Espressione fondato da Orazio Costa: si perde in ore di lezione e caratura. Infine «guarda qui» sembra dire come riferendosi a delle prove schiaccianti: è la «copiosa rassegna stampa» che racconta di «ulteriori tagli alla programmazione». Come la mettiamo?
Poi, nel corso dei giorni, a non andare bene diventeranno le variazioni di bilancio, i tagli ai costi del personale, di nuovo la riduzione delle coproduzioni internazionali e le chiusure estive troppo lunghe. Infine la Fondazione è messa nell’angolo. Inutile giustificarsi, spiegare, fornire alibi che scagionino, inutile ormai anche «entrare in questi dettagli» perché, per citare Voglino, già «un semplice confronto con i progetti triennali presentati dagli altri Teatri Nazionali» mostra che non ci sono i presupposti perché anche la Fondazione Teatro della Toscana sia ritenuta tale. Può essere però un Teatro delle Città di Rilevante Interesse Culturale. E può presentare istanza di riessame, naturalmente. Ammesso che serva.

Io l’Istanza di riesame l’ho letta. È datata 8 luglio, è lunga 18 pagine, punta a far «pervenire ad un ripensamento» la commissione e vi si legge che «non modifica i contenuti della domanda presentata il 18 febbraio 2025, la quale deve ritenersi confermata nella sua completezza». Insomma, quel che c’era scritto allora lo trovate anche qui. Ed è a questo punto che le cose non tornano. Perché i termini relativi al contratto di Massini sono chiariti subito dal legale della Fondazione (Massini opera «in attuazione degli indirizzi e delle finalità definite dal Consiglio di Amministrazione e dai Soci», «non esercita funzioni gestionali né ha autonomia sulle risorse finanziarie», «la clausola sull’insindacabilità delle scelte artistiche si applica esclusivamente all’ambito creativo», come già diceva una nota inviata il 4 e l’8 aprile al Ministero), perché il bilancio è approvato, c’è solo «una razionalizzazione di alcune voci di costi relative alla gestione ordinaria», e perché gli scostamenti dovrebbero comunque essere esaminati «soltanto a consuntivo» e «non in fase preventiva» (se ne dovrebbe parlare l’anno prossimo, al limite). Le cose non tornano perché è un diritto della Fondazione cambiare il Direttore Generale («la posizione non risulta vacante» tra l’altro, poiché il CdA ha affidato «nella seduta del 23 maggio 2025 incarico a Carlo Calabretta»), perché le chiusure estive «riguardano, come tutti i teatri italiani, solo finestre limitate», perché da norma (art. 9 lettera A del Decreto Ministeriale) la Fondazione ha novanta giorni per adeguare lo Statuto e perché è caduto l’obbligo dell’Accademia: ora la gestione di una scuola vale al massimo 2 punti e non rientra più nell’analisi della Qualità Artistica ma nei calcoli della Qualità Indicizzata.

Ma le cose non tornano anche perché, presa in esame la stagione 2025 (primo anno del nuovo triennio) e paragonata con quella dei Nazionali simili per dimensione (Genova, Napoli, Roma e Veneto), la Fondazione Teatro della Toscana presenta 64 spettacoli, 1 in meno di Genova al netto dei festival che completano l’offerta ligure, 3 in meno del Veneto, 12 più di Roma, 25 più di Napoli; perché di opere che abbiano almeno un soggetto produttivo con sede all’estero ne ha in cartellone 10 mentre di regie/coreografie straniere ne ha 4 come Genova, Roma ne ha 7, Napoli 3, il Veneto 2. Quanto alla “continuità progettuale e nuove collaborazioni” italiane, a pagina 14 del ricorso la Fondazione, «con l’obiettivo di evidenziare i soggetti artistici e istituzionali coinvolti in entrambi i cicli triennali» (2022-2024 e 2025-2027), mette in fila 17 conferme e 20 nuove relazioni strategiche. D’accordo, le si potrebbe imputare la brevità delle teniture, cioè la “settimana corta” di repliche, non infrequente, ma ciò avviene anche in Veneto e a Genova. Si tratta allora di questioni finanziarie o amministrative? Se pure fosse, il parametro che riguarda tali aspetti è quello della continuità e dell’affidabilità gestionale, che pesa al massimo il 5,7% del punteggio complessivo. Poco perché sia decisivo. Detto che i due terzi dei registi e delle registe in stagione in Toscana ha uno spettacolo anche nei quattro Nazionali citati viene da chiedersi: e se la colpa fosse di non aver pensato a una programmazione specifica per Pontedera, dove tornano alcuni titoli proposti a Firenze? Ma succede pure in Veneto (Stabile di Treviso, con 8 su 12 in cartellone anche tra Padova e Venezia). Cosa resta quindi? Dov’è il difetto? Voglino il 18 giugno sostiene che il progetto è «generico e lacunoso su molte produzioni relative alle annualità 2026 e 2027». Il problema è il modo in cui la Fondazione ha raccontato gli anni a venire. Ma cosa tocca nello specifico a chi fa domanda al Ministero? Fornire il «programma annuale dettagliato (comprensivo di schede artistiche descrittive, calendario esecutivo, bilancio, contratti)», la triennalità 2025-2027 esposta «nei limiti dei 15.000 caratteri» e «una descrizione organica degli obiettivi e delle linee progettuali per le annualità 2026 e 2027» in attesa, entro il 31 gennaio dell’anno successivo, che queste stesse linee siano precisate. Nell’Istanza di riesame della Fondazione Teatro della Toscana ci sono gli scopi strategici, «i cinque architravi» o, se volete, le aree tematiche (Domani, Oggi, Ieri, Qui, Altrove) con azioni e spettacoli di riferimento (rispettivamente 23, 19, 30, 29, 19), di cui alcuni previsti nel 2026 o 2027, e c’è un elenco di 95 tra artisti ed artiste. Quanto ciò è «generico e lacunoso» rispetto a quel che gli altri Nazionali hanno scritto e presentato?

A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che i commissari hanno compiuto il proprio lavoro e che la valutazione è discrezionale. Vero, ma fino a che punto? Nella Relazione del 25 settembre 2015 la prima Commissione Prosa chiarisce che «il giudizio di merito» va emesso «imponendo la ricerca di un equilibrio tra la soggettività dei richiedenti in termini di progetti, identità, coerenza e proposte e l’oggettività di una griglia valutativa precisa», che non può esserci spazio per i «pregiudizi ideologici» e che «l’esercizio della propria discrezionalità» va «accuratamente circoscritta al perimetro dovuto». Il 17 febbraio 2015, prima che il nuovo Decreto Ministeriale che ha riformato l’uso del FUS venisse applicato, considerando che non si era mai «strutturato nel nostro Paese un sistema fondato sui teatri Nazionali», si sente invece il bisogno di redigere un documento contenente le linee guida dell’analisi ed elenca venticinque fattori di cui tener conto. Dall’equilibrio tra classici e repertorio contemporaneo all’importanza data alla drammaturgia italiana, dalla presenza della danza a «l’investimento non episodico» nelle «diverse forme di autorialità». Ebbene, non ci sono riferimenti espliciti ad alcune delle questioni considerate decisive dai quattro commissari di nomina governativa: non si parla cioè di chiusure estive, Statuto, bilanci, costi del personale, dei rapporti eventuali tra Direttore Generale e Direttore Artistico o del modo in cui è stipulato il contratto di quest’ultimo. Ma rifarsi al passato è importante per almeno altre due ragioni.

La prima: emerge, riandando indietro nel tempo, che talvolta il giudizio emesso da una commissione è una valorizzazione delle potenzialità del soggetto più che la presa d’atto del suo stato presente. Ti sostengo non per ciò che hai fatto finora ma per quel che potresti fare domani. Due casi, ad esempio. Il Teatro di Roma nel 2015 mostra «una situazione di debolezza», si tratta «di ridefinirne l’identità culturale» e di fare di «un teatro sofferente un teatro produttivo» si legge nei verbali ed è nell’ottica di una «scommessa difficile ma necessaria» che diventa Nazionale. Napoli, stesso anno: paiono scarsi i «rapporti con le realtà teatrali operanti in città» e «il sostegno delle energie creative emergenti», le relazioni internazionali e nazionali dipendono dalle coproduzioni, parziali sono le collaborazioni con scuole e università, c’è preoccupazione per «i recenti sviluppi delle vicende relative al reclutamento del personale e agli organi direttivi» eppure si decide di premiare «l’identità teatrale della città», la riapertura del San Ferdinando, l’idea di «una tradizione che guarda al futuro», la scuola affidata a Luca De Filippo e si vuole «rilanciare l’idea di un teatro pubblico in quella che resta una delle capitali» della scena italiana. È per questo che lo Stabile diventa Nazionale. Il Teatro della Toscana muta guida artistica l’11 gennaio, modifica la concezione della propria direzione (si passa «dal modello policentrico al progetto autoriale») e cambia offerta rispetto al passato. Si pone cioè in una fase di trasformazione, e di fragilità se si vuole. Rispetto alla quale i commissari hanno mostrato la stessa capacità d’interpretare il momento, e la stessa propensione a investire sul futuro, che fu dei loro predecessori?
La seconda: scorro le valutazioni dei Nazionali, anno 2018, e m’imbatto nelle “bocciature” del Teatro Stabile del Veneto e del Biondo di Palermo: 9 punti per il primo; 8,50 per il secondo. Torno poi agli allegati di quest’anno. Sono 1.973 le domande presentate, di cui 461 non ammesse (il 23,3%). Di queste 137 nell’ambito del teatro. Di 136 posso leggere le schede coi punteggi mentre quella della Fondazione Teatro della Toscana non c’è, essendo stato considerato il suo progetto «non valutabile in termini numerici». Perché? In cosa consiste davvero la mancanza unica che ha contraddistinto la sua domanda al Ministero? O siamo invece ai limiti di una sottrazione dai propri doveri d’ufficio da parte dei commissari? In attesa di risposte, che la Fondazione si accontenti dei punti presi come Teatro delle Città. E della notifica del taglio di 382.783 euro, il 20,1% in meno rispetto al 2024. Di più, d’altronde, non era possibile toglierle.

Ma perché scrivere ancora di questo e a distanza di mesi, con le stagioni che stanno ricominciando con gli stessi ritmi di sempre, le stesse promesse di sempre e con la stessa propensione di sempre alla rimozione di quel che è appena accaduto? Perché il caso-Fondazione Teatro della Toscana ha lasciato tracce verificabili, a differenza di vicende più piccole, ma non meno feroci, già finite all’oblio. Perché in quanto caso esemplare digrossa dinamiche altrimenti visibili soltanto a chi appartiene al settore e contiene in sé le storie degli altri, che non sono finite sulle prime pagine dei giornali o in tv. E perché – oltre ogni eccezionalità – ripropone un tema strutturale e democratico. Strutturale, data l’opacità delle decisioni prese dalle commissioni, che restano non leggibili (giusto un po’ di verbali secchi quanto un documento notarile, le schede coi numeri, le cifre del contributo; nessun dialogo tra valutati e valutatori, nessuna possibilità di capire le ragioni che stanno alla base degli esiti). E democratica, perché ha a che fare con la trasparenza degli atti istituzionali e perché si tratta infine del nostro denaro, che un Ministero rimpiega perché ci sia restituito in forma di servizio pubblico e di teatro che abbia alte ambizioni d’arte. E su questo non sono consentiti gli sconti, né possiamo permetterci distrazioni.

Alessandro Toppi

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Alessandro Toppi
Alessandro Toppi
Alessandro Toppi è critico e giornalista napoletano. Scrive prima per il Pickwick, di cui è fondatore e direttore fino al 2022. Dal 2014 è redattore per Hystrio, dal 2019 scrive per le pagine napoletane de la Repubblica e dal 2020 è direttore de La Falena, rivista semestrale di cultura e teatro promossa dal MET di Prato. Negli anni suoi interventi, prefazioni, postfazioni e approfondimenti sono comparsi in varie pubblicazioni. Del 2024 la curatela condivisa con Maria Procino del volume Tavola tavola chiodo chiodo… Il teatro di Eduardo nello spettacolo di Lino Musella edito dalla redazione napoletana de la Repubblica.

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