A volte serve tempo per farsi delle domande, per ragionare sulle risposte o andarsele a cercare. Ci si potrebbe chiedere quindi perché tornare adesso sul Campania Teatro Festival, oltre la rendicontazione narrativa e di recensioni relativa agli spettacoli visti durante l’attraversamento della rassegna. Si tratta anche di sottrarsi per una volta dal ritmo della cronaca per osservare i fatti a distanza, con un respiro più lungo. D’altronde «è nel tempo lento dell’analisi e della memoria» che si comprende talvolta qualcosa di più, avrebbe detto Giorgio Strehler.

In concomitanza con il principio del Campania Teatro Festival su queste pagine provavamo a ricapitolare quanto avesse a che fare con la sua storia in termini di presupposti e numeri accumulatisi negli anni. Ci troviamo ora ad aggiungerne altri, cercando però di mantenere salda la consapevolezza che il consuntivo di una manifestazione culturale in generale, e di una rassegna teatrale nello specifico, non possa riguardare solo le cifre legate agli eventi, ma anche la loro lettura e il loro tentativo o la loro capacità di inserirsi nel contesto e/o di introdurvi elementi di omogeneità o contraddizione, fungendo da finestra di osservazione sulla propria realtà da cui pure lasciar spirare un vento proveniente dalle correnti del resto mondo.
Il 16 luglio, terminato da tre giorni, in mail arriva il comunicato stampa del Festival, per ratificarne il successo. Il Palazzo Reale di Napoli «tornato ad essere il cuore della manifestazione» e gli otto teatri coinvolti, «alcuni dei luoghi più suggestivi della regione» diventati scenario, «il focus sul teatro sociale» che «ha portato coraggiosamente bellezza e cultura». E «i tanti spettacoli che hanno debuttato in prima assoluta», la sezione Osservatorio, «dedicata alle giovani compagnie» e «fucina di talenti e originali operazioni di scrittura e regia», «i grandi nomi della scena internazionale» di cui si fa elenco nella seconda parte della pagina, in grassetto perché restino in mente: la Julia di Christiane Jatahy, Lapis Lazuli di Euripides Laskaridis, William Kentridge con Faustus in Africa! e Works and Days di FC Bergman, per due giorni a Salerno. Le quattro mostre gratuite, i prezzi popolari, possibili «ancora una volta soltanto grazie al finanziamento della Regione Campania», e la consueta sequela di numeri: 31 giorni di programmazione, 387 giornalisti accreditati, 177 servizi radiotelevisivi e «oltre 40.000 presenze». «Un record». Cos’altro vuoi aggiungere?

Rileggere a distanza di mesi il comunicato genera almeno quattro sensazioni. La prima è giornalistica: si tratta di uno scritto funzionale, rivolto alla stampa perché in nome della notiziabilità comunicativa e semplificata amplifichi facendo grancassa. La seconda è politica: il comunicato parla all’unico interlocutore che interessa davvero, il presidente Vincenzo De Luca, che da anni tiene per sé anche le deleghe culturali (e dunque potere di nomina e cordoni della borsa) affinché gli sia confermato che i cinque milioni investiti nelle attività della Fondazione Campania dei Festival hanno raggiunto gli obiettivi di consenso e quantità che l’uso di risorse pubbliche pretende. La terza è personale: per quanto ci si possa immergere il festival resterà artisticamente ingiudicabile, essendo possibile vederne soltanto una piccola parte. L’enormità, insomma, non ne permette la valutazione qualitativa. La quarta è prospettica: il comunicato saluta dicendo arrivederci («l’appuntamento è per il Campania Teatro Festival 2026») e facendo una promessa: «lo schema vincente resterà lo stesso». Già, ma cosa prevede questo schema?
Cappuccio è stato scelto come direttore il 2 novembre 2016 in seguito alle dimissioni di Franco Dragone (che quello stesso giorno dichiarava a Fanpage: «le mie idee sono state bocciate su tutta la linea», «volevo creare un grande festival internazionale» ma «ho dovuto operare come un assessorato alla cultura» e «su 47 spettacoli della scorsa edizione ne riconosco appena 19», «era inutile continuare a lavorare in queste condizioni»). Da allora per Cappuccio 120.000 euro di compenso lordo annuo (nel 2017 48.000 per Nadia Baldi come assistente alla direzione, 40.000 dal 2018 al 2021, 84.000 dal 2022 in quanto anche vice direttrice artistica) e nove edizioni in cui, al netto delle sezioni extra-teatrali (inesistenti prima del suo avvento), contiamo 650 spettacoli (italiani, internazionali, facenti parte di Sport Opera, dell’Osservatorio, indicati come Progetti Speciali). Insomma, si tratta del 56,9% della proposta teatro-performativa da quando esiste il Napoli Teatro Festival Italia, nonostante il biennio pandemico e l’edizione 2024 autunnale e ridotta a causa del ritardo con cui il governo ha trasferito alle Regioni i Fondi per lo Sviluppo e la Coesione («abbiamo salvato la kermesse investendo soldi del nostro bilancio» perché «crediamo che la cultura sia un elemento trainante» spiegava il 10 settembre 2024 De Luca). Questione di cui si discute fin dalle prime edizioni dirette («qualcuno si è mai lamentato dei libri della biblioteca di Windsor o dei quadri esposti agli Uffizi? Un programma esteso garantisce libertà allo spettatore. Non lo condanno a vedere tutto ma a scegliere. E, con meno titoli, cosa direbbero le 30, 40 compagnie escluse?» dice a Il Mattino il 12 luglio 2018) Cappuccio s’adopera per un aumento dell’offerta tant’è, per rendersene conto, si confronti la prima edizione (2008) – 23 giorni, 34 spettacoli – con l’ultima, 31 giorni e 98 spettacoli: si passa da 1,4 titoli al giorno di media a 3,2 con un aumento del 128,5% nel rapporto tra durata e messinscene. Una dilatazione che diventa eclatante se badiamo agli «eventi», come fa il Campania Teatro Festival quando presenta il programma o ne valuta a posteriori l’impatto: 80 nel 2017, 168 nel 2018, «oltre 200» nel 2019, 130 nel 2020, 160 nel 2021, 145 nel 2022, 93 nel 2023, 116 nel 2024, 160 nel 2025. Fa 1.252. E se è vero – come sostiene Jonathan Mills – che «la vibrazione che emana dall’avere così tante cose che accadono contemporaneamente» determina «l’assalto ai sensi e alle viscere» che caratterizza ogni festival, va detto pure che la sovradimensione per accumulo avvicina una rassegna alla «baraonda dei supermercati e dei centri commerciali» per cui, «dietro alibi pretenziosi, si incentiva un consumismo senza rimorsi» (Marc Fumaroli), finalizzato a «improvvise accensioni di interesse e addensamenti di visite» (Salvatore Settis) che paiono degne d’un «mattatoio culturale» (Georges Rivière). È la «barbarie espositiva» che Tomaso Montanari e Vincenzo Trione raccontano in Contro le mostre (Einaudi, 2017) parlando d’arte – gli allestimenti di «eventi fatti di eventi», montati per sezioni «che appaiono in larga misura superate» e «attraversati come i terreni di svago» da un pubblico di cui dev’essere certificata la crescita – e che trova il corrispettivo anche in certi festival teatrali italiani. Ha dunque voglia Cappuccio a nominare a voce o in brochure Proust o Tomasi di Lampedusa che legge una pagina di Conrad in inglese, Socrate, Cristo, la Sinfonia numero quaranta di Mozart, «i venti primaverili di Capodimonte», la Vergine delle rocce di Leonardo o le due ore trascorse con Tadeusz Kantor («aveva la febbre e guardava il mare»); ha voglia a rintracciare «la volgarità» di «questi nostri giorni» ne «l’addizione di segni che uccide l’essenza» e ne «l’esibizionismo rumoroso che pretende attenzione provocando l’incidente dei sensi»; ha voglia a contrapporre «la traccia dell’arte», che è «traccia del profondo», a «l’affermazione della materia» con cui «i poteri forti» puntano a «disporre di persone controllabili, che non siano cittadini ma passivi consumatori»; la sua direzione sembra invece in linea con ciò che Zygmunt Bauman denuncia in Per tutti i gusti (Laterza, 2015) ovvero l’applicazione all’arte dei «criteri di mercato», «la logica degli scaffali ripieni» di prodotti dati in promozione, il calcolo infine dei clienti di cui si quantifica «l’immediatezza di consumo e gratificazione» perché chi impiega il nostro denaro (gli amministratori pubblici, sempre più simili ai manager) sia soddisfatto. Ma non basta.

Il Campania Teatro Festival nasce come Napoli Teatro Festival Italia in quanto progetto vincitore del bando emesso dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali nel 2007, e fin dall’inizio si pone lo scopo di dare alla regione e al suo capoluogo una rassegna con vocazione e caratura internazionale, quindi in grado di mettere al passo non solo la città con le istanze espressive della scena contemporanea e con realtà similari a livello continentale e ultra-continentale, ma ha anche l’obiettivo di fare di Napoli un luogo d’accoglienza e accadimento in cui, come in un processo chimico o alchemico, le spinte, i profili, le estetiche, i linguaggi si trovassero a intr-agire e reagire col territorio così da farne un polo di tangenza, riconversione e di attrazione nel più ampio contesto delle politiche, come pure delle tendenze culturali. Da allora la situazione appare molto diversa. Napoli vive attraversata da flussi turistici crescenti, che a tratti paiono incontrollati e che sembra stiano cambiando o ne abbiano già cambiato in parte la conformazione e la morfologia di abitazione, i ritmi e la percezione sia interna che esterna. Se il 2024 è stato segnalato dall’Osservatorio turistico urbano del Comune (nato nel 2023 come ente di monitoraggio e considerazione su base sostanziale riferibile anch’esso alla logica dell’analisi e dell’indagine di mercato e al lessico del marketing) come un anno turistico record, con un totale di quattordici milioni di presenze e con un impatto economico di 1,47 miliardi di euro di indotto, pare evidente che il 2025 sia avviato al superamento di tali valori con stime per la fine dell’anno di circa venti milioni di visitatori e dati specifici in crescita per i mesi di luglio ed agosto (considerati bassa stagione per una città d’arte) e con oltre 1,83 milioni di presenze per il mese di settembre (un terzo in più dell’anno scorso nello stesso periodo). Numeri spaventosi, rispetto ai quali è impossibile non chiedersi quanto si sia lavorato per preparare ad essi la comunità cittadina, il contesto urbano, i suoi spazi e i suoi luoghi.
Da un lato sembra minata la matrice identitaria di interi pezzi di città, a partire da un centro storico patrimonio dell’Unesco in cui opere d’arte, ospedali per le bambole e pastori del presepio sono stati cinti da friggitorie di catena, cocktail bar sequenziati, pizzerie la cui riconoscibilità arriva prima nelle code di attesa che attraverso le insegne o le derive dell’odore della farina cotta, i banconi e le vetrine che illuminano a led bombastici babà a porter in bicchieri di plastica colmi di crema sintetica, pseudo-mitrie di San Gennaro di pasta frolla, sfogliatelle al gusto di salsicce e friarielli come forma ruminante e ulteriore di brandizzazione della città e del folklorismo del folkloristico con cui viene (s)venduta.
Dall’altro e nel frattempo, l’accrescimento della proposta culturale, che alcuni salutano come una rinascita, contraddistinto ad esempio dall’apertura di laboratori privati, gallerie e realtà espositive (si veda lo Jago Museum che lo scultore ha impiantato nella Chiesa di Sant’Aspreno dei Crociferi alla Sanità) e dai processi di crescita, riconsiderazione e rigenerazione urbana: si pensi alla Metropolitana d’Arte, riconosciuta da tempo come esperienza unica nel panorama nazionale e al riguardo della quale è necessario citare la recente inaugurazione della stazione Monte Sant’Angelo (aperta al pubblico il 15 ottobre) su progetto dello scultore britannico Anish Kapoor; si pensi al progetto di ABDR di recupero del Real Albergo dei Poveri finanziato con 148 milioni di euro di PNRR con lo scopo di allocarci una nuova Biblioteca Nazionale e un ulteriore sede del MANN per Pompei; si pensi alla Silent Hortense di Jaume Plensa installata a giugno a Piazza Municipio all’interno del progetto Napoli Contemporanea, in prossimità del cantiere per l’ultimazione del Parco Archeologico Sotterraneo di Eduardo Souto de Moura e Álvaro Siza, i cui lavori si vorrebbero terminati entro la fine del 2026. Esempi, rispetto ai quali è impossibile non chiedersi quindi qual è il ruolo di un festival teatrale o come esso s’inserisce in un contesto interessato da un cambiamento contraddittorio e continuo.

L’internazionalità innanzitutto. Negli anni di direzione di Cappuccio è diventata un’esperienza relativa (il 15,4% della programmazione principale; era il 46,4% nel triennio di Quaglia, il 41,1% nel quinquennio di De Fusco, il 47,6% con Dragone). Una dinamica già manifesta prima della pandemia e che non è stata invertita in questa edizione: due titoli catalogati come Progetti Speciali e condivisi col progetto Pompeii Theatrum Mundi del Nazionale di Napoli (Golem di Amos Gitai e Notte Morricone di Marcos Morau) e una sezione di undici spettacoli, di cui quattro (Jogging di Eric Deniaud e Hanane Hajj Ali, Dressing Room di Bissane Al-Charif e Hala Omran, Reminiscenze di Dalal Suleiman e Il mare ha cambiato colore di Julie Kretzschmar e Sara Lupoli) hanno formato il Focus “Now Med, Beyond Swana”, dedicato alle trasformazioni in atto nel Mediterraneo e che è stato tra i nuclei più interessanti del festival. Troppo poco tuttavia (il 15% degli “eventi”) per dire che la rassegna accoglie «spettacoli di eccellenza da tutto il mondo», come pure si legge sul sito.
Quanto alla natura del programma la logica pare quella delle «mostre all inclusive» di cui scrivono Montanari e Trione, per cui si prova ad assecondare per estensione le preferenze di quante più persone possibili, puntando sulla soddisfazione delle tendenze già in essere più che sull’induzione all’incontro con l’inedito o l’imprevedibile. Il comico per chi cerca il comico, la ricerca per gli iniziati della ricerca, tra testi detti a leggio e ostentazione crescente di nomi celebri. Così Laura Morante che dice Orgoglio e Pregiudizio «avvolta dalle romantiche coreografie filologiche della Compagnia Nazionale di Danza Storica» sta con la data secca di Metadietro di Rezza/Mastrella che sta con gli esiti scenici del Focus “Comunità, Quartieri e Teatri di Vita” che sta con Anna Bonaiuto che legge Maurizio De Giovanni che sta con «il racconto in presa diretta di un paese che brucia» fatto da Cecilia Sala con Una notte a Teheran che sta con So’ Pep… in ultima analisi di Peppe Iodice, tra un tributo ad Anna Magnani, il concerto di Alan Sorrenti, il premio Carlo Croccolo, il dj set in onore di Dalla e Battisti, la proiezione di Felicità di Micaela Ramazzotti. Ci si potrebbe rifare alla lezione shakesperiana sulla complessità della vita, che fonde di continuo la gioia con il sangue e i brindisi agli omicidi. Meglio, si potrebbe dire che una simile programmazione è un azzardo ideativo e organizzativo e tuttavia, a ben guardare, si dovrebbe anche constatare come possa rivelarsi un rischio minore se lo scopo è non scontentare nessuno, riducendo al minimo la nettezza di visione restituita, allargando al massimo le maglie del setaccio e della cernita poetica e così sfrangiando l’assunzione di responsabilità dell’offerta. Che più che interdisciplinare è multidisciplinare per accostamento e che riduce l’extra-ordinarietà dell’occasione festivaliera a un palinsesto pressato e ricolmo. Che in definitiva non appare in contro-tempo e contrasto con ciò che sta avvenendo sul piano commerciale e over-turistico ma s’accorda invece ai ritmi, alla ricerca di sovra-folla e all’accatastamento con cui convivono per il turista mordi e fuggi lo sguardo esterno al San Carlo, il caffè preso al Gambrinus, lo spritz da due euro, il selfie al murales di Maradona, un passaggio veloce davanti al Caravaggio di via Toledo e l’acquisto della borsa falsa o dei calzini dall’ambulante prima di mettersi in fila per la recita “paste e patate” inscenata dalla trattoria Nennella.

Ma forse vale chiudere con altro. Nella regione più giovane d’Italia per età media (44,2 anni), che ha per capoluogo la terzultima città per indice di vecchiaia (152 anziani ogni 100 under 14), c’è infatti un tradimento compiuto pure dal festival. Che nacque per essere anche un luogo d’accoglienza del nuovo e lo spazio-occasione per il teatro in formazione ma in cui le proposte acerbe, in itinere o più fragili ricevono poco ossigeno, ancora scarsa attenzione. «L’Osservatorio» – che eredita il ruolo (ma non la forma e la capacità d’impatto) avute nelle edizioni precedenti dal E45 Fringe Festival ideato nel 2009 da Interno 5 – «è tra le sezioni cui tengo di più» afferma Cappuccio eppure continua a non rispondere alle funzioni cui è destinato, costituisce un a-parte (piazzato al teatro Tedér quest’anno) ed è stato mortificato dal calendario per cui gli spettacoli delle compagnie meno note sono andati in scena in contemporanea ai titoli principali del festival. Confusa l’ideazione (vi convivono con discrezionalità opinabile gli under e «le compagnie private che trovano difficoltà nell’avvio del processo produttivo», i debutti e certi vecchi titoli che hanno avuto scarsa circuitazione), privo d’un accompagnamento da parte di operatrici e operatori di settore (nessun percorso di confronto o visione è strutturato o favorito dal festival) l’Osservatorio anche nei numeri tradisce il mandato del ricambio generazionale, cui pure sembra votato: in nove anni ha rappresentato il 19,8% dei festival diretti da Cappuccio (i Fringe sono stati il 43,4% dell’offerta dei Napoli Teatro Festival Italia diretti da Renato Quaglia e il 33,1% di quelli firmati De Fusco). Di contro viene in mente Felice Scalvini, citato dallo stesso Quaglia in Lavoro culturale e occupazione (a cura di Antonio Taormina, Franco Angeli, 2021): «Chi raggiunge una posizione di vertice sente di aver superato il proprio limite di competenza o di possibilità; quando diventa consapevole di non aver più mercato all’esterno» – o quando il mercato al momento non offre le occasioni bramate – «diventa inamovibile, insostituibile, determina il blocco dello sviluppo della propria istituzione e la esclude dal normale turn-over che la dovrebbe (ri)animare ciclicamente». Conseguenze? Vertici stanziali, sclerotizzazione di forma e proposta, una frenetica mobilità orizzontale subita da chi è costretto a restare manodopera a lungo e lo spreco di risorse creative e di possibilità di un autentico rilancio culturale. Misurato in termini di durata del permanere nei ruoli conquistati, è così che il successo individuale diventa una dannazione collettiva. Cappuccio è direttore artistico del festival da 3.269 giorni, è stato nominato senza che fossero resi pubblici i criteri e il processo di selezione e di scelta e ha firmato tante edizioni quante quelle di Quaglia, De Fusco e Dragone messi assieme. Troppe. Eppure in linea, evidentemente, coi dettami d’una Regione che candida alla direzione del Nazionale di Napoli un teatrante in pensione (Geppy Gleijeses: «non potevo realmente candidarmi alla direzione, come pure qualcuno aveva proposto, perché come pensionato la Legge Madia non lo consente» ma «sono onorato che abbiano fatto il mio nome Vincenzo De Luca ed Emilio Di Marzio, il consigliere in quota Regione nel CdA»; Il Mattino, 17 maggio 2024) e che è il principale finanziatore pubblico di un Circuito diretto fin dalla sua fondazione (31 ottobre 1983) sempre dalla stessa persona.
Marianna Masselli, Alessandro Toppi













