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La realtà che va a fuoco. Rabih Mroué in scena

Una riflessione (con uno spunto dal film La voce di Hind Rajab) sulle possibilità di raccontare il presente, con un focus sui lavori di Rabih Mroué visti a Short Theatre 2025

I tempi in cui stiamo vivendo impongono una riflessione: quale relazione può esistere tra la creazione artistica e la realtà che ci sta esplodendo intorno? Il film della regista tunisina Kaouther Ben Hania, La voce di Hind Rajab, ha imposto in questo senso un nuovo paradigma per raccontare il presente attraverso la narrazione di un fatto accaduto nel recentissimo passato, contiguo con quello che ancora sta accadendo in Palestina. L’opera ruota attorno all’utilizzo di uno sconvolgente dato del reale, la vera voce della bambina registrata durante le chiamate di soccorso alla Mezzaluna Rossa. A partire da questo dato il film ricostruisce finzionalmente le attività di soccorso, l’impegno delle donne e degli uomini della Mezzaluna Rossa, nel tentativo vano di salvare una vita. Hind è nascosta in automobile, gli zii e i cugini che erano con lei le sono morti accanto, la sua voce rende visibile allo spettatore l’immagine di una bambina chiusa in macchina da sola, è un nodo alla gola che non si scioglie. La pellicola, vincitrice morale di Venezia 82, nonostante la codardia della giuria che ha preferito il minimalismo à la Jarmusch (si legga in questo senso il commento di Alberto Crespi), racconta un pezzo di mondo mettendo in luce dinamiche sconosciute al pubblico: quali regole – assurde – deve seguire un soggetto come la Mezzaluna Rossa per salvare dei civili in un territorio di guerra come Gaza? Qual è la catena di comando? E soprattutto, perché l’esercito israeliano nonostante i mezzi tecnici di cui è in possesso – nel film si parla della visione a infrarossi – non fa nulla per portare in salvo una bambina di 6 anni?

Se le possibilità narrative del cinema nei confronti della realtà quotidiana sono evidenti e plurime, quali sono gli strumenti delle arti performative quando la creazione ha a disposizione i dati del reale in grado di processare un immaginario molto preciso e attuale insieme al pubblico? Certi luoghi, alcuni artisti e artiste, certi festival e compagnie mettono sotto la loro lente d’ingrandimento tale questione più di altri. Si guardi ad esempio a Short Theatre, una di quelle manifestazioni in cui è centrale il grado di incisione della performance sulla realtà. Da questo punto di vista uno dei fenomeni più interessanti visti alla Pelanda è stato il contributo di Rabih Mroué con due suoi lavori (Before Falling Seek the Assistance of Your Cane e Make me stop smoking).
In diversi lavori (tra performance e spettacoli) presentati nel cartellone della nuova direzione collettiva si riscontra una radice comune che sostiene la struttura di questa edizione e che si dirama nei vari contenuti proposti: sono performance non performanti. Lavori, discussioni, progetti, idee, confronti che si emancipano dalle necessità produttive, dall’ansia di prestazione di dover presentare un prodotto. Questa libertà, che diventa dinamica tanto drammaturgica, per chi va in scena, che fruitiva, per chi assiste in platea, genera un sentimento di dialettica, con tutte le energie propositive e ideative messe in campo, ma anche i limiti, le fragilità, i dubbi, la noia, in alcuni casi.

Rabih Mroué, nato a Beirut e ora stabile a Berlino – il cui lavoro spazia dalla direzione di teatri, alla regia, fino alla recitazione e alle arti visive – ci sembra allora l’artista rappresentante di questa natura curatoriale: ascoltarlo, vedere l’agire dei suoi pensieri condivisi con semplicità, franchezza; seguire i suoi ragionamenti e, soprattutto, comprendere che la sua è una parola scenica in continua costruzione, che si pensa e ripensa, mette in dubbio, rivendica militanza politica e nel farlo però la osserva a distanza e ci permette, a noi che lo ascoltiamo, di prendere una posizione a riguardo, di non empatizzare solamente ma di comprendere. In Make me stop smoking l’impianto delle “conferenze non accademiche” viene sovvertito: Mroué è seduto sulla sinistra della scena su di un tavolo e parla facendo riferimento a dei fogli poggiati davanti a lui mentre a sinistra vi è uno schermo. L’isolamento del performer dal pubblico, il suo essere sempre seduto è una convenzione accettata da subito e funzionale al dispositivo della “non academic lecture”. Chi pensa di trovarsi di fronte a un noioso speech si sbaglia: è seduto ma non immobile, legge in un inglese semplice (noi possiamo seguire anche con i sovratitoli in italiano), è ha una capacità comunicativa unica. Tutto, come dicevamo, a servizio però del testo. L’azzeramento della rappresentazione e della performatività dell’opera d’altronde è stata emblematicamente protagonista a Short anche con gli iraniani di We Came to Dance. Mroué ci spiega come ha lavorato sulla scelta del titolo e siamo messi al corrente, con poetica spontaneità, di quello che, letteralmente, è accaduto nella sua testa. Perché quel titolo (Make me stop smoking) e non un altro? Cos’è un titolo? Cosa definisce e a cosa dà inizio? Se il lavoro di Mroué trova origine nella frattura che si crea tra memoria collettiva e personale riguardo gli avvenimenti della guerra civile in Libano, i governi che si sono succeduti e la loro propaganda, la resistenza e le vittime, qual è la forma artistica che può dare restituzione a tutto ciò? Esiste una verità documentaria o possiamo raggiungerla attraverso la finzione scenica? Entriamo così nell’archivio dell’artista, e del suo investimento in esso, sia in termini di ricerca, catalogazione, definizione anche, che di annullamento e cancellazione. L’archivio è fisico e procedurale o emotivo e evenemenziale? Mroué ci sta presentando delle tracce, anzi, le sue tracce, chiedendoci, attraverso reperti video e/o foto, di provare a ricostruire insieme non tanto un archivio ma un “percorso d’archivio”. E una volta presentati i materiali, le fonti annesse, le testimonianze, cosa accade? Cosa resta della verità? Il finale è davvero contingente a questi giorni e a queste ore, in cui tutto ciò che vediamo, sappiamo, condividiamo, è virtuale, effimero, provvisorio. Mroué ci parla allora di un archivio che potrebbe essere stato come anche no, ed è proprio in questo iato che si colloca la relazione tra arte e mondo, tra documento e avvenimento; e lì ci siamo noi, coi nostri pensieri e corpi, lacrime e sorrisi, come quello esasperato, bellissimo che compare sullo sfondo, prima di scomparire.

Anche in Before Falling Seek the Assistance of Your Cane, Mroué posiziona la propria postazione sulla sinistra, molto decentrato rispetto al pubblico (il quale avrà di fronte a sé lo schermo dedicato alle proiezioni). Al centro della lecture c’è un volantino, con un’iconografia ben precisa, che ha una storia non recente ma tutta novecentesca, che lo fa risalire alla seconda guerra mondiale. In quell’occasione gli Stati Uniti lasciarono cadere sulla popolazione giapponese migliaia di questi volantini in cui si preannunciava il bombardamento. Un modo per ridurre i morti civili e per pulirsi la coscienza. «Questo volantino è stato sganciato il 27 luglio 1945 su Tokyo e altre 11 città. Era un avvertimento alle città inserite nella lista per la distruzione da parte dell’aviazione americana. E il bombardamento sarebbe iniziato entro 72 ore. Il giorno successivo, metà di queste città furono bombardate e migliaia di persone furono uccise». Nell’immagine mostrata durante le prime battute c’è una scritta in arabo, perché il volantino-bomba era stato utilizzato in Iraq dagli americani, «Faceva parte della guerra al terrore. E all’epoca si pensava che il terrore fosse nascosto dentro le case degli iracheni.» La prosa di Mroué, pulita, senza fronzoli ed efficace, incrocia la biografia dell’artista quando viene raccontato il tentativo di allestire una mostra al Künstlerhaus di Salisburgo proprio con quei poster. E di come la polizia sia sopraggiunta chiamata da una donna in grado di leggere l’arabo della scritta e impaurita dalla possibilità di una bomba vera. Realtà e invenzione camminano vicine, non sappiamo quanto credere fino in fondo a questi dettagli biografici e fortunatamente l’artista libanese non gioca col solito dispositivo metateatrale.

Anche perché qui c’è un’altra realtà a premere i confini della scena, quella devastata dalle bombe. In quante altre occasioni della storia sono stati utilizzati i volantini-bomba? Vanno considerati come un gesto compassionevole o come una forma di bombardamento psicologico? Quelli inviati dagli americani ai giapponesi nella seconda guerra mondiale ad esempio contenevano anche un piccolo scritto in cui veniva esaltata la forma di governo democratica: «Ti insegneremo a vivere, ti offriremo cultura: arte, musica, letteratura, filosofia e danza, così imparerai ad abbandonare la tua vita barbarica…” Vieni da noi! Ti insegneremo cosa significa la democrazia. La nostra gentilezza smentirà le menzogne che ti hanno raccontato». Mrouè sottolinea giustamente tutto il piano silenzioso dei volantini, tutto quello che non dicono: dove può fuggire la popolazione sotto assedio, quanto tempo si ha per liberare le case? E ancora il pensiero a Gaza è naturalmente immediato, ed è già presente nel testo, nel racconto delle telefonate ricevute dai gazawi come avvertimento per  lasciare le loro case.
E poi l’origine di tutto, un affondo autobiografico non solo pertinente ma in grado di aprire uno spazio tristemente poetico in un testo fitto di immagini tragiche: l’estate del ‘82, quando il Libano era sotto assedio israeliano e Mrouè aveva 15 anni e vedeva i volantini cadere dal cielo.

Uno stormo di carte rosa svolazzanti coprì il cielo e oscurò il sole ardente.
Sembrava neve nel bel mezzo dell’estate.
La scena era favolosa e mi affascinò. Mentre i fogli cadevano dal cielo, saltai per prenderne uno. Le strade erano quasi vuote in quel momento. Alcuni lessero i volantini e risero. Altri si arrabbiarono.
In quel momento, Israele non stava solo occupando la terra e il mare, ma anche il cielo. (dal esto di Before Falling Seek the Assistance of Your Cane)

Lucia Medri, Andrea Pocosgnich

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