Questa recensione fa parte di Cordelia di ottobre 25

Federica Rosellini attende di cominciare in un punto centrale e sopraelevato, al limite tra palco e platea: l’ombelico dello spazio teatrale. Alle sue spalle una rocciata spacca le sedute, di fronte un corridoio conduce al video sul fondale. iGirl, testo di Marina Carr portato al debutto in Italia da Rosellini come performer e regista, vive in questa tensione spasmodica e ombelicale tra un Olimpo arcaico e un destino artificiale. Il corpo dell’interprete si offre spogliato, rasato, istoriato dalle figure degli arcani — ventuno come i capitoli del testo e dello spettacolo. Corpo agonista, performativamente magnifico, puro sacrificio di sé: corpo spaccato, ferito, generoso. Come quello dei miti. R. Barthes direbbe che il mito “svuota la storia e la trasforma in natura”. Nel momento in cui iGirl convoca Edipo, Giocasta, Giovanna d’Arco come contenitori per una visione del femminile e della specie, compie quell’operazione: de-storicizza il mito per farlo parlare il linguaggio assoluto di un dolore onnipresente. Secondo José Manuel Losada, la mitocritica non consiste nel “riempire” i miti di sensi contemporanei, ma nel riconoscere i mitemi che li attraversano e lasciarli risuonare nella distanza. iGirl fa l’opposto: impone la propria urgenza — un’archeologia, peraltro brillante, del patriarcato — sul mito. Il risultato è più una colonizzazione svuotante di quelle figure che un dialogo con esse. Nel mito, dice ancora Barthes, la storia si cancella e ne resta solo la pelle. Carr e Rosellini lavorano proprio su quella pelle: la incidono, la scottano, la fanno sanguinare. Ma, come nel corpo di Jeanne o Giocasta, la ferita diventa immagine, non esperienza. iGirl è un rito d’incisione: il problema è che, così inciso, il mito non sanguina più, mostra solo le cicatrici. Così come Laio inchioda Edipo, e Giocasta viene spaccata fino a diventare “poltiglia di sangue”, la riscrittura diventa un atto di inchiodamento simbolico. I ventuno quadri si susseguono come reperti di un museo della specie: c’è potenza immaginifica, manca la precisione pulsante di una storia. Il linguaggio poetico procede per accumulo, non per necessità. Anche la regia asseconda questa ipertrofia del senso, sovrapponendo video AI-gen, suoni, corpo e voce in un vortice che confonde la profondità con la densità. iGirl ci ricorda che il classico sopravvive perché resta feribile. Ma quando la ferita diventa segno, il mito non parla più: posa. (Andrea Zangari)
Visto al Mattatoio, Romaeuropa Festival. Video: Ra di Martino; musica originale: Daniela Pes; sound designer: GUP Alcaro; costumi e tatuaggi: Simona D’Amico; scenografia: Paola Villani; light designer: Simona Gallo; dramaturg: Monica Capuani; aiuto regia: Elvira Berarducci; performer e regia: Federica Rosellini













