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Fare un festival senza far finta di niente. Intervista a Linda Di Pietro

Linda Di Pietro, da anni si occupa di management culturale, con esperienze diverse in Italia, dal 2020 dirige il festival Farout a Milano, negli spazi di BASE. L’abbiamo intervistata dopo il primo week end del festival che quest’anno si estende fino a fine novembre

Linda Di Pietro.

Quali sono i passaggi che intercorrono tra una realtà come BASE e il festival Far Out?

Gli esperimenti sono molteplici, anche a testimonianza di stadi di lavoro e ricerca diversi. Per esempio Industria Indipendente presenta quest’anno due progetti diversi, dei quali uno è l’esito di una residenza che verrà presentata a BASE (Dammi i brividi ma non per la paura), mentre l’altro è un’opera site specific all’interno di Armani Silos (Partiture per andare oltre I). Un altro formato è quello legato al lavoro di Alos (Ritual III: Whisper), che, con un gruppo di giovanissimi che ci seguono da un anno e mezzo, sta lavorando alla creazione di alcuni rituali musicali e sonori, in cui chiederà di raccontare delle loro esperienze che diventeranno parte del rituale poi condiviso con un pubblico più ampio. Poi abbiamo invece una programmazione più internazionale, ospitando delle opere che hanno uno stadio di maturità più avanzato, come quello di Mette Ingvartsen (Manual focus) o il percorso di Butch Tribute (Sterud/Kongsness). Dentro questa diversità di stadi, noi lavoriamo nella cura del rapporto con i fruitori, con i pubblici, che stanno imparando a conoscere queste altre possibilità espressive. BASE non è sempre stato uno spazio in cui si vede teatro, adesso le principali caratteristiche che lo contraddistinguono sono la cross disciplinarietà e l’ibridazione. Il tentativo è quello di stare fuori dalle definizioni tradizionali; i vari fruitori dunque si stanno abituando a una interattività, a una postura più in ascolto e più attiva di quelle tradizionali: queste sono le sfumature che si incontrano dentro il festival.

BASE. @Maria Teresa Furnari

Questo è il tuo quinto anno alla guida curatela qui a BASE: riguardando indietro, anche alla peculiarità che quel 2020 ha portato con sé, che cambiamenti ravvisi nella relazione con i pubblici, con i territori?

La mia presenza a BASE nata dalla richiesta delle persone che l’hanno fondata, e che si impernia sulla volontà e desiderio di spostare l’idea di BASE da un luogo che accoglie, soprattutto inteso come contenitore a un luogo che produce, che quindi si fa contenuto, si fa parola, e quindi posizione politica. È ciò che stiamo facendo da cinque anni a questa parte; è vero che il 2020 è stato un anno difficile, ma ci è stato essenziale quel tempo così lento per poter ragionare insieme su quale era la voce volevamo avere, quali fossero linguaggi, quale interesse nella cultura contemporanea volevamo produrre. Così è nato il festival, un esperimento per fare emergere queste posture, ma anche per incontrare una comunità cittadina, perché Milano è una serie di comunità ricolme di artisti, di figure anche giovani che vivono di questo ma che sempre meno hanno uno spazio dove potersi esprimere. Quindi abbiamo voluto farci casa per chi ancora non ce l’aveva e dall’altra capire se c’era spazio in un cuneo (come mi sembra ci fosse allora e tuttora c’è) che sta fuori dalle istituzioni più tradizionali: spazio dedicato ai linguaggi del contemporanei, contaminazione di spazi non specificatamente dedicati al teatro, come spazi dismessi, spazi naturali, spazi pubblici. Abbiamo notato un grande movimento anche se poco presidiato e comunque non dai grandi istituti. Da lì ci siamo iniziati a muovere e abbiamo ideato Far Out, assieme a un’altra linea parallela, che si chiama Cavalcavia, che è un lavoro sull’idea di ponte tra centro e periferia, inteso come canale aperto da entrambe le parti, per rompere quella logica che porta fuori il prodotto senza alcuna aderenza al luogo e alla sua umanità, ma promuovendo una dimensione in cui ciascuno si possa sentire adatto e giusto a partecipare. Anziché portare gli spettacoli dei cortili, abbiamo scelto di interfacciarci con quei presidi culturali che già vivono nei diversi spazi della città attuando un processo inverso e aprendo le porte a realtà come Milano Mediterranea al Giambellino, Barrio’s a Barona, Terzo Paesaggio a Chiaravalle. Sono soggetti che già lavorano nei quartieri, che non hanno bisogno di essere colonizzati ma che hanno magari il desiderio di lavorare con realtà più centrali per creare insieme dei ponti. Lo abbiamo chiamato così un po’ in risposta ai diversi cavalcavia che dividono il centro dal resto della città, mentre noi vorremmo proprio il contrario della cesura.

WWWDW EXILE. © Nida Mozuraite

Oltre a quanto hai già detto, come si collocano le attività di BASE e del Festival in relazione alla città?

Non ci diamo una limitazione, la nostra intenzione è quella di aprirci. Abbiamo iniziato un lavoro con la Triennale, specialmente con FOG, ospitando diversi artisti, specialmente per quegli spettacoli che non riescono a stare dentro i canoni del teatro tradizionale. Lavoriamo con diversi Istituti Internazionali di Cultura che hanno a Milano la loro sede – come quello francese, olandese, svizzero – nell’idea di poter essere riferimento per artisti che fuori sono presentati anche all’interno di spazi più istituzionali mentre qui fanno più fatica. La caratteristica di BASE è la sua modularità che si trasforma di volta in volta in relazione al progetto che lo abita, per cui, al di là della complessità dei continui allestimenti, l’aspetto è molto sfidante. BASE si trova in zona Porta Genova, che è un po’ terra del design, per cui quando siamo in periodo di fiere veniamo sommersi, tant’è che design e architettura sono un’altra nostra spalla: quest’anno abbiamo presentato un programma molto interessante che si chiama Performing Architecture, sempre cavalcando il desiderio di stare nell’intersezione tra le discipline.

MANUAL FOCUS. @Rafa Jacinto

Nelle parole di presentazione di questa edizione del festival, avete parlato di “pratiche vivibili per tempi invivibili”: ci fai qualche esempio?

In generale in queste settimane ci siamo chiesti come si faccia a fare un festival in un’epoca così drammatica, con un genocidio in corso, conflitti che non sono nati ieri. L’altro giorno, quando abbiamo inaugurato, era stata indetta la tregua, ma c’era un sentimento combattuto, da un lato sollevati ma dall’altro molto preoccupati e in attesa di una vera interruzione delle ostilità. Più in generale, siamo immersi in condizioni di invivibilità legate al pianeta e al cambiamento climatico, e Milano è una città su cui lo senti sulla pelle tutto ciò. Quello che penso è che gli artisti ci abbiano fatto immaginare mondi diversi e, per questo, ci siamo risposti che possiamo fare un festival in queste condizioni a patto di non far finta di niente, come se non esista il resto del mondo ma anzi facendolo confluire dentro. Un esempio possibile è il lavoro di Basel Zaraa, un’artista anglo palestinese presentato pochi giorni fa a BASE e prima ancora a Periferico a Modena,(What will we do without exile?) che è centrato sull’idea di esilio, sulla componente identitaria insita nel nomadismo. All’interno di una tenda di un campo profughi racconterà gli odori, gli oggetti, i sapori dell’esilio, provando ad astrarsi dal caso specifico ma andando a chiamare in causa tutti. 

DARKNESS PICNIC.
@Rafa Jacinto

Un’altra pratica per vivere in tempi invivibili è legata all’idea del convivio, della festa; ne è un esempio la performance di DOM, Darkness Picnic, partire dall’esistenza e dal rapporto con la natura per ripensarlo in una nuova dimensione comune. In un tempo in cui linguaggio, disabilità e corpi sono campi di battaglia ci sembra importante avvicinarci a pratiche come quella di Diana Anselmo la cui performance, Je Vous Aime si pone il compito di ridisegnare il ruolo delle persone sorde, prospettiva che prima di qualche anno fa non sarebbe stata possibile.

Se dovessimo trovare delle parole cardine di questa edizione?

Quest’anno il suono emerge in molteplici aspetti. Per esempio abbiamo promosso una mostra, ReSilence, che mette al centro una attenzione particolare all’ascolto più che al suono, ascolto della città e di come la città supera la nostra capacità di comprenderla anche nel progresso estremo. Poi quest’anno stiamo provando questo esperimento con il festival di musica Linecheck, che si tiene ogni anno a novembre durante la music week e che è molto frequentato dagli esperti interessati a scoprire le nuove vibes della musica italiana. Quest’anno entriamo in collisione con loro portando tre esperienze di collaborazione tra musicisti e performer; il primo è il gruppo Ovo con il gruppo nanou, la seconda Laura Agnus Dei con Annamaria Ajmone e il terzo è Katatonic Silentio con Olimpia Fortuni. Dentro questo contesto, che si tiene tra il 17 e il 22 novembre e corrispondente alla settimana finale del festival, ci saranno una serie di conferenze su cosa significhi essere mediatori tra le discipline dando voce sia agli artisti cross disciplinari sia a chi si prende cura di quegli spazi.

@Rafa Jacinto

Come si sostiene il festival da un punto di vista economico?

Noi abbiamo la fortuna di poter distribuire i costi vivi del festival su una gestione annuale, è importante che lo spazio copra i costi di struttura; poi abbiamo sempre avuto fin dal primo anno i contributi ministeriali, il Comune di Milano da subito ci ha supportato con grande interesse – proprio perché ci siamo inseriti in quel cuneo che non era stato toccato da altri – e ci sostiene sia sui progetti sia sulle attività di Milano è Viva, che è un programma di attività nello spazio pubblico. Poi abbiamo anche il programma europeo In Situ attraverso il quale sosteniamo degli  artisti internazionali che vengono a fare i loro spettacoli in luoghi non convenzionali. Vorremmo rendere le attività gratuite ma il Ministero non le valorizza abbastanza, ma come policy generale, BASE prova a mantenere i prezzi quanto più contenuti possibile per continuare a essere, come dicevo prima, un posto accessibile, non solo da un punto di vista fisico, ma anche economico. Stiamo lavorando tanto con i partenariati, con le collaborazioni, quali per esempio quella con Armani Silos. Un altro aspetto che credo ci stia aiutando, è aver scelto di allungare un po’ più i tempi e arrivare fino a novembre, anche perché – sempre parlando di sostenibilità – vogliamo evitare di diventare un eventificio come è diventata Milano, anche perché poi le persone non riuscirebbero a venire sempre.

Si parla sempre più della “scomparsa degli intellettuali”, intesi come voce autorevole anche in contrasto al pensiero dominante e a servizio, invece, sempre più acriticamente, della dimensione economica, fosse pure per mera sopravvivenza. Nella dimensione del management e della curatela delle arti performative trovi questo rischio? Se sì, come si supera?

Sicuramente più che di scomparsa degli intellettuali, parlerei di trasformazione: è un ruolo, quello di chi produce pensiero, che si è completamente frammentato e decentralizzato anche a causa della intermediazione delle piattaforme digitali; le industrie culturali hanno sempre più preso il sopravvento secondo un’accezione di “brand”, si è frammentata l’idea della presenza di voci simboliche in grado di favorire coesione. Non vuol dire, però, che non ci siano altre figure, altre possibilità, che non si siano lasciati degli spazi liberi, si è permessa anche la presenza di altre voci che prima non venivano ascoltate, che non erano parte del discorso, della cosiddetta egemonia interculturale. Per certi versi tutto il pensiero culturale transfemminista è emerso anche grazie a questa dispersione. 

ALOS. Stefania Pedretti

In questo scenario quale è il ruolo nostro e degli artisti, come si riconfigura? 

Da una parte mettendo in campo delle infrastrutture, delle dimensioni che possano permettere la riconfigurazione dei rapporti. Me ne rendo conto bene nella direzione di BASE , all’interno del quale facciamo sempre più modo che questo spazio fisico diventi luogo di apprendimento, di relazioni, di abitazione, di ricerca, di residenza. E d’altra parte – recuperando anche il claim dell’edizione di Farout di quest’anno – favorendo la kinship: l’artista e l’intellettuale non sono più coloro che guidano il mondo, che indicano l’unica verità, ma sono coloro che generano mondi possibili, che creano relazioni di vicinanza, di parentela, appunto. L’artista può avere anche il ruolo di hacker, che qui intendo come pensiero critico complesso che è in grado di interrogare e mettere in crisi i dispositivi di potere, le piattaforme tecnocratiche. In questo senso non so se siamo egemonici, ma costruiamo dei micro sensi che però possono raggiungere anche delle macro strutture di senso, distruggendo la definizione di canone, sfidando l’idea di cosa sia arte, decidendo cosa mostrare e cosa no, quando un lavoro abbia raggiunto una maturità che gli permetta di non essere schiacciato dal sistema culturale.

In relazione alla spendibilità dell’arte, da una parte allora bisogna preservare il percorso dell’artista, dall’altro però bisogna poi portare l’opera al pubblico…

Sì, e in questo il curatore o la curatrice hanno il ruolo fondamentale, di membrana osmotica: operando dentro entrambi i sistemi, quello artistico e quello delle istituzioni culturali, ne conoscono i limiti e le forze, quindi da una parte fanno emergere quelle istanze narrative che non troverebbero terreno, scegliendo e promuovendo artisti le cui voci non erano ancora state ascoltate, poco valorizzate; dall’altra proteggendo quelle forme artistiche non ancora abbastanza mature da essere presentate al pubblico senza una rete. Dirigendo uno spazio polifunzionale ho la possibilità di creare dei perimetri, dei contenitori dedicati a sensibilità diverse, a momenti diversi del lavoro, mentre il festival diventa  così la sua manifestazione più esplosiva. 

Viviana Raciti

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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