Presentato alla ottantaduesima edizione della Mostra internazionale del Cinema di Venezia, Duse è l’ultimo film di Pietro Marcello con Valeria Bruni Tedeschi nei panni di Eleonora Duse. Racconta un periodo preciso della vicenda umana e professionale di una delle più grandi attrici di sempre della scena nazionale e internazionale. Recensione
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Ogni volta che ci si avvicina all’immagine e al ricordo di lei – ricordo trasmesso, libri, foto, lettere – scatta il meccanismo di un’emotività incontrollabile, non riusciamo a vedere la sua vicenda e la sua arte attraverso il velo di un sentimento scaturito dalla distanza e dalla nostalgia. La nostalgia, forse, è per un teatro che stava così al centro, col suo meglio e il suo peggio, della vita sociale, da rendere possibile e concreta la leggenda di Eleonora, non meno di quella di Sarah e d’altre terribili donne della scena. Nel caso della Duse c’è in più come un barbaglio di madreperla ad alterarne l’immagine […]. Come è riuscita a catturarci, questa donna, anche a noi della generazione che non l’ha potuta conoscere. Si versavano in lei, nella sua vita tutti gli elementi di memoria e fantasia che stavano alle nostre spalle, nel fiato del tempo vissuto prima di noi […]». Lo scrive Roberto De Monticelli il 20 aprile 1976 sulle pagine de Il Corriere della Sera, a cinquantadue anni meno un giorno di distanza dalla morte di Eleonora Duse e decidiamo di affidarci alle sue parole perché ci pare che tutto sia incontrovertibilmente cambiato mentre tutto è rimasto incontrovertibilmente immutato. Oggi, che invece è passato un anno più di un secolo dalla sua dipartita arriva sugli schermi Duse, con la regia di Pietro Marcello. Presentata in concorso alla 82° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, la pellicola è coprodotta da RaiCinema, Palomar, Avventurosa, Piperfilm per l’interpretazione di Valeria Bruni Tedeschi nel ruolo della protagonista.
La panoramica che accompagna i titoli di apertura è sul campo di battaglia in cui la pletora polverosa di un esercito di soldatini rimanda alla piaga cancrenosa del primo conflitto mondiale. Non a caso il nero profondo delle vesti della Duse e della sua assistente farà da elemento cromatico di contrasto e assorbimento ottundente della luce ambrata e dei toni della terra e del legno nelle sequenze del campo militare dove è chiamata a tenere un discorso di incoraggiamento e motivazione. È questa la prima suggestione di un lutto incombente e già presente, che aggancia da un lato l’avanzare della fine (della vita, del fulgore, della lirica degli ideali post risorgimentali, dell’illusione di un progresso ove non sempre tecnologia e anima coincidono) e dall’altro – tramite il noto impegno della nostra nell’assistenza delle vittime del fronte – le immagini di repertorio del viaggio del treno su cui la salma del milite ignoto attraversa l’Italia, tra corone di fiori sciupate dal vento e saluti a schiera sui fianchi dei binari. Sarà questo il trait d’union dell’intera pellicola fra le scene di finzione e le immagini di realtà, ma anche tra il piano della rappresentazione, della poesia di un’epoca e quello dell’infrangimento della storia, mélange e contrappunto insieme attraverso cui e per cui vicende umane, pure diversissime, restituiscono due differenti accezioni dell’offerta di sé: quella di chi, suo malgrado forse, si sacrifica nella vagheggiata idea della patria e quella di chi per vocazione e per fatale istinto di grandezza si lascia consumare fiato e fianchi ad ogni apertura e chiusura di sipario. E poi, fra le trame della sceneggiatura, l’avanzare nemmeno troppo sibillino del reazionario tempo a venire: i pestaggi delle squadracce fasciste, l’acclamazione del Vate che rischia di inficiare la monolitica plasmazione della figura del Duce e, di pari passo, il disorientamento drammaturgico di una nuova generazione di autori che nel momento critico di un passaggio complesso poco riescono a incidere… Insomma il parallelo con i giorni nostri è implacabile e nemmeno così bisognoso di sinossi analogiche.
Il film arriva per Marcello tre anni dopo Le vele scarlatte e pare congiungersi al lodatissimo Martin Eden (Coppa Volpi a Luca Marinelli) quale ulteriore capitolo di indagine e restituzione di un Novecento che qui non si declina nel disincanto del protagonista lungo una parabola sostanzialmente ascensionale, bensì nel suo macroverso, nel termine di un’ellissi esistenziale che volge a chiudersi nell’indefesso tentativo della protagonista di non cedere di un passo al disincanto. Non è un biopic quello che ci si propone, piuttosto la definizione di un preciso momento di incontro con la figura “della più grande attrice del mondo”. Il periodo cui Marcello sceglie di dedicarsi è quello degli ultimi anni, dal 1920 circa in poi, uno spaccato preciso che segna il ritorno sulle scene della Duse, avvenuto, dopo una dozzina d’anni di ritiro e silenzio, il 5 maggio 1921 a Torino con la messinscena de La donna del mare di Ibsen. La costruzione dell’immagine all’occhio vive di un cromatismo denso plasmato dall’opposizione netta fra i toni scuri dell’ambiente e di parte dei costumi (verde, ottanio, nero) e quelli chiari la cui palette varia dal bianco alle sfumature cretacee del beige e del marrone. Per questa direzione sembrano avverarsi diverse associazioni possibili, le suggestioni veneziane del Visconti di Senso così come diversi accostamenti pittorici – immediato quello di chi scrive tra il quadro del pic-nic in campagna con la figlia Errichetta e Le Déjeneur sur l’herbe di Manet ad esempio –, tutto raccordato da un lirismo crudo dell’inquadratura che molto deve alla riconoscibilità della regia italiana post bellica d’autore, ma che pure pare essersi arricchita della raffinatezza psicologica dei primi piani in un credito di “espressionismo” a là Bellocchio. Fondamentale non solo in questo senso, ma nella più ampia definizione dell’estetica dimensionale e dimensionata dell’intera pellicola, rimangono i costumi che denunciano una ricerca filologica cosciente e raccontano quell’appropriazione della scena sulla vita che portò la Duse a vestire gli abiti dei suoi personaggi anche fuori dalle pièce. Persiste alla visione, tuttavia, la sensazione che quella dimensione di “un teatro che stava così al centro” per tornare a De Monticelli venga qui restituita in un’aura di vago decadentismo e sordo pathos, come se la macchina da presa si calasse dall’alto e dall’esterno in un mondo di sagome animate cui la polvere è stata tolta via in fretta e da poco, personaggi a riprodurne altri in una sorta di elevazione della morte al quadrato insomma, che a tratti sfiora una coloritura di maniera distonica, pure dove blandisse volontariamente la caricatura.
La salute fortemente compromessa dalla tubercolosi rende sempre più ingerenti le crisi tisiche, i rapporti mondani, professionali e personali si sono diluiti fino quasi ad essere ordinati nella schiera del ricordo quando il dissesto economico spinge l’attrice a tornare al teatro. Eleonora Duse muore a Pittsburgh nel 1924; Marco Praga, per lei critico, amico e drammaturgo, riporta nelle sue cronache teatrali in quell’occasione: «È morta laggiù lavorando. E lavorando per bisogno. Sì, oggi si può dir tutto, si deve dir tutto; tutto ciò che detto ieri avrebbe potuto apparire irriverente, e che dire oggi è renderle onore. Quando, or sono tre anni, Eleonora Duse ritornò sulla scena che, stanca e malata aveva lasciata dieci anni prima, vi ritornò per guadagnarsi da vivere. […] Quel biglietto mi diceva semplicemente: “Sono qui di passaggio. Desidero vedervi. Venite”. – Accorsi. Ella mi stese le bianche mani bellissime e mi disse: “Mio vecchio amico, ho bisogno di lavorare. Non ho più di che vivere se non per un paio d’anni. Bisogna che io torni a recitare. Aiutatemi” – Ah che gioia e che pena! Si, fu così e per questo: o soprattutto per questo: per questo bisogno. Ma non si doveva sapere. La nobiltà austera dell’animo suo, il suo leggittimo orgoglio di donna e d’artista non volevano che un suo ritorno alla scena potesse suscitare un sentimento di pietà per la donna […]». Emotiva nella recitazione e nella vita, passionale all’occorrenza fino alle derive, assorta in una fissazione contemplativa personalissima eppure talmente vera nelle sfumature umane dei suoi personaggi da non sembrare nemmeno che recitasse in palcoscenico, ma pure fondatrice della Casa delle attrici nel 1914, relatrice critica al Congresso Nazionale delle Donne nel 1917, finanziatrice di operazioni teatrali più o meno riuscite e infinite altre cose. Sono talmente tanti i fattori storici, tecnici e i sortilegi che ne fecero un emblema dell’evoluzione della figura della donna e dell’arte attorale che cessa a tramontare, che ci viene da credere che la maggior parte di loro furono tutt’altro che casuali, fatali, inconsapevoli o inevitabili, bensì scelti e portati avanti da lei stessa con un rigore e un’integralità talmente espressi da non poter essere riconvertiti nemmeno per estrema ratio. La costruzione gentile, aggraziata, affascinante, ma consapevole, coscientissima di una vita, pur in un momento esatto, viene restituita da una Valeria Bruni Tedeschi il cui trucco è straordinariamente riuscito. Non basta, però, ci sembra, a contenere un’esacerbazione emotiva ed emotivizzante non sempre necessaria e che finisce per depotenziare il profilo della Duse e la sua assertività per alcuni aspetti avanguardista non solo nel lavoro: l’occhio perennemente lucido, i toni languidi che a tratti svettano in urla che paiono dipendere da qualche forma di squilibrio (interpretativo) più che da tumulti dello spirito o da traviamenti interiori, la continua impressione di una personalità in balia degli eventi, non in grado di governare la propria qualità della presenza emotiva e professionale, una certa nevrastenia sfiancata da una postura comportamentale post-contemporanea, che ha a che fare più con la necessità perenne di psicanalisi dell’oggi di quanto possa riguardare l’espressività e la sublimazione scenica delle di-sfunzioni individuali ed epocali di cui l’immagine dusiana deve aver vissuto fuori e dentro la scena, anche solo per fisiologia storica.

Potremmo ribadire il rapporto con Arrigo Boito e quello tossico con D’annunzio (nel film interpretato da un Fausto Russo Alesi all’incontro col quale la Duse cercherà di sottrarsi a lungo), constatare la fine del matrimonio con Checchi a coincidere con l’impossibilità di essere madre di Errichetta più di quanto non fosse Francesca, Nora, Mirandolina, Ofelia, Hedda, Elettra, Marguerite, Teresa, potremmo ricordare le origini e la miseria della famiglia d’arte, l’interpretazione di Romeo e Giulietta ancora adolescente, il capocomicato ancora ventenne, i tripudi e i debutti, i titoli portati sui principali palcoscenici nazionali e internazionali, la sfida vinta con quella che tutti riconoscono quale sua principale rivale, Sarah Bernhardt – la competizione tra le due si riverbera nella pellicola in una delle scene ritmicamente più efficaci, con l’acredine manco troppo ammansita dal “fairplay” francese della Bernhardt a sottolineare l’anacronismo dei temi e dei linguaggi della messinscena in uno scontro consumato a tavola dopo il successo della prima ibseniana -, tanto per restare in tema umano di divinità e forse pure di divinazione, potremmo accennare a Craig o a Isadora Duncan, a Sibilla Aleramo e a Matilde Serao, citare la collaborazione con Ermete Zacconi (qui un Mimmo Borrelli che risulta credibilissimo nel ruolo mantenendo il più possibile il proprio stile recitativo) o ancora immaginare gli anni trascorsi lontano da tutti dopo il 1909, i momenti passati al tepore gentile del sole di un meriggio sul terrazzo della casa di Asolo dove poi chiederà di essere sepolta a guardare il Garda fino alla fine del tempo. Della Duse tanto si è detto, assai si è raccontato, moltissimo si è scritto, qualcosa si è scorto tra le diverse foto e i pochi, pochissimi fotogrammi di Cenere (1917), eppure tutto si immagina e niente forse oggi si sa davvero. Sì, nulla, se ogni fibra e nervo, se ogni silenzio e ciascuna parola, se i tremiti e i sacrifici, le folgorazioni e i fallimenti, se gli sbalzi e la costanza, se tutto l’istinto e parte del metodo, se le folgorazioni e la coscienza venivano dalla scena e alla scena tornavano, per la scena finivano. Pare chiaro a chi di lei abbia letto, ascoltato, provato a ricostruire o intuito solamente la figura di polvere d’argento, stoffa, capelli mossi e nebbia che viene fuori dalle immagini di repertorio e dai ritratti, dagli aneddoti e dai romanzi, e soprattutto dalle cronache e dagli epistolari. Nata al terminare di un’epoca che già segnava il principiare di quel Secolo breve da cui uscire fu tutt’altro che veloce, come nessuna “la Duse”, fu tra le prime a plasmare la commistione tra palco e mondo o meglio tra vita e Arte, per usare un termine caro al suo eloquio, che tra la fine del diciannovesimo e gli inizi del ventesimo secolo segnò la nascita di un nuovo immaginario, o probabilmente del concetto stesso di immaginario come prima mai era esistito. La Divina, lo sappiamo, era uno dei suoi più conosciuti e riconosciuti appellativi, cui nella dimensione privata se ne aggiungevano altri, a seconda dell’interlocutore, del contesto, del momento, tutti emblemi di una scomposizione e ricomposizione, di un’edificazione del sé che, fuori dal palcoscenico inteso quale dimensione dell’essere ben oltre la rappresentazione, fa fatica a percepirsi tanto quanto ad essere percepita. E allora? Accostandoci alla scrittura ciò che più torna alla mente di chi scrive è nella voce di chi chiede «Che senso ha oggi tornare a queste figure? Perché raccontarle?». L’operazione compiuta da Marcello giunge in sala a distanza di un anno dal centenario della morte di Eleonora Duse, in occasione del quale è stato rilasciato il documentario per la regia di Sonia Bergamasco Duse – The gratest, premio speciale per la migliore opera prima ai Nastri d’Argento. La stessa voce conduce perciò nel ricomporre un quadro dove appaiono l’Eduardo Scarpetta di Martone in Qui rido io, I fratelli De Filippo di Rubini o il Pirandello de La stranezza di Andò, che in varie forme di recente hanno abitato gli schermi non solo cinematografici. Ci pare allora di intuire la risposta nel bisogno di fuggire a un certo timore dell’incapacità di quel sacrificio di sé in grado di fare di un performer o di un interprete un Attore, alla paura della sparizione di un teatro grande abbastanza da accogliere ancora il Grande Teatro.

È un debito, un lascito, un miracolo e un sortilegio, è un onere e una scienza implacabile, forse è un’alchimia dagli esiti oscuri e ineffabili, morire per cent’anni senza mai trapassare, trapassare tutte le sere senza mai scomparire, navigare privi di moneta sulla nave di Caronte, avanti e indietro su un mare di fantasmi consistiti e anime rappresentate eternamente. Il nome solo di Eleonora Duse schiude immagini e considerazioni che dicono il teatro senza nemmeno bisogno di affastellare chissà quante parole e concetti per spiegarlo, per snocciolarne le regole e la mancanza delle stesse, la storia e la contemporaneità, le ombre e i fulgori, dentro e fuori dalla scena.
Marianna Masselli
Visto a settembre 2025
DUSE
Regia: Pietro Marcello
Interpreti: Valeria Bruni Tedeschi, Noémie Merlant, Vincenzo Nemolato, Fausto Russo Alesi, Giovanni Morassutti, Vincenzo Pirrotta, Marcello Mazzarella, Federico Pacifici, Noémie Lvovsky, Fanni Wrochna, Iacopo Fanelli, Gaja Masciale, Vincenza Modica
Distribuzione: PiperFilm, RaiCinema, Avventurosa, Palomar
Durata: 122′
Origine: Italia, Francia 2025














Con tutto il rispetto dovuto a tanta cultura trasudante da questo testo, mi permetto di rilevare che, a mio parere, una recensione dovrebbe essere incentrata sull’oggetto recensito – più che sul compiacimento testuale del recensore. Più incentrata sul contenuto che sul metalinguaggio. Infatti, a me il film non è piaciuto tantissimo, pensando al soggetto e alla recitazione: di cui, qui, non si parla.
Quest’articolo somiglia più ad una tesina sulla Duse e il periodo storico che a una recensione sul film di Marcello. Inoltre nei pochi riferimenti diretti al film sembra insinuare che la recitazione (che “brutta parola” diceva la Duse) della Bruni-Tedeschi sia non inerente al personaggio e quindi eccessiva o troppo contemporanea. A parte il fatto che mi sembra che il Marcello sappia dirigere gli attori e quindi trovo assurdo immaginare che non abbia voluto quella direzione attoriale, ma soprattutto a mio modesto giudizio l’interpretazione della Bruni-Tedeschi ci regala gli unici momenti coerenti ed emozionanti di un film altrimenti un po’ scomposto.
Gentilissima Maria Cristina,
Mi spiace se la scrittura e l’impostazione del pezzo non hanno incontrato le sue esigenze di formato o di lettura.
Mi pareva giusto e dovuto su una rivista teatrale inquadrare l’orizzonte di riferimento.
Spero si trovi nelle mie parole in una prossima occasione magari.
Intanto grazie della lettura.
Gentilissima Lorella,
mi pare di aver reso conto della sceneggiatura e del momento della vita della Duse che il film prende in considerazione, così come spero di essermi espressa abbastanza chiaramente sull’interpretazione, ovviamente dalla mia prospettiva, che ho cercato di motivare, inquadrandola nel contesto.
Mi spiace se la mia scrittura non l’ha incontrata o le è parsa addirittura compiaciuta (cosa che non corrisponde nè alle intenzioni specifiche nè al mio approccio in generale), ad ogni modo confido che magari la sua visione si ritrovi nella mia in una prossima occasione.
Intanto grazie della lettura.
A me il film e in particolare la Duse/Valeria Tedeschi sono piaciuti, pur nella complessità dei tanti argomenti trattati. Sì, forse la Masselli, peraltro profonda conoscitrice di teatro e non solo, si dilunga troppo e ‘si racconta’, perdendo di vista il soggetto.
Questi dibattiti mi appassionano.
Luisa