| Cordelia | ottobre 2025
Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.
Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di ottobre 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.
Qui gli altri numeri mensili di Cordelia
#BOLOGNA
ABRACADABRA (Francesca Pennini / CollettivO CineticO)
Il ritorno sulle scene di Francesca Pennini mette in crisi lo spettatore giocando con le sue aspettative per decine di minuti; per poi folgorarlo con la poesia, il dolore e la sorpresa. È uno spettacolo in prima persona, ma il grado di aderenza dei fatti narrati alla verità è fortunatamente difficile da calcolare: Pennini comincia ringraziando la platea, è solo una voce che parla e chiede a spettatrici e spettatori di pensare e ripensare al proprio corpo. Perché qui è il fuoco, sul corpo: quello martoriato dalla vita e dalla creazione artistica, il corpo degli incidenti piccoli e di quelli grandissimi, delle prime fratture da bambina, delle vertebre spezzate. «Tu ci credi alla schiena?», ci chiede la voce. Una voce che dice di un corpo. Poi appaiono le scritte: il testo è duplice, recitato e proiettato sul sipario, esploso. Quando il sipario cadrà e verrà chiamato sulla scena Angelo Pedroni sarà lui a prestare il proprio corpo per quella voce: il corpo di Pedroni e la voce di Pennini in un doppiaggio perfetto e straniante. Intanto sulla sinistra è apparsa una scatola, che come nei migliori spettacoli di magia, solo nel finale dischiuderà il proprio mistero, fatto di quarzi e pietre dai mille colori. Ormai il pubblico ha capito di aver avuto ragione a pazientare, che quel corpo - presente nei discorsi - poi sarebbe arrivato, e soprattutto la drammaturgia si insinua in una interessantissima e perturbante storia che affonda le proprie radici nell’infanzia e nella possibilità di rincontrare un vecchio penfriend. Stavolta è Francesca Pennini in flesh and blood, nata dal buio e dalla nebbia, a danzare e raccontare; ma anche qui forse c’è una bugia, uno scherzo e il viaggio dall’altra parte del mondo è invece un viaggio in un luogo di cura, in una realtà ben più triste che però prepara alla rinascita. Ancora una volta l’artista ferrarese dimostra un talento teatrale purissimo, un senso per la regia come linguaggio dello stupore: Abracadabra! Collettivo Cinetico è tornato, ed è una gran bella magia. (Andrea Pocosgnich)
Visto all'Arena del Sole, CARNE focus di drammaturgia fisica. Di e con Francesca Pennini partner in crime Angelo Pedroni testi originali Francesca Pennini musiche originali e sound design Simone Arganini scenografia Alberto Favretto tecnica e disegno luci Alice Colla azioni e invenzioni invisibili Carmine Parise realizzazione costumi Maria Ziosi produzione CollettivO CineticO, Fondazione Teatro Stabile di Torino / Torinodanza Festival, Festival Aperto / Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Centrale Fies | Art Work Space con il sostegno di Regione Emilia Romagna, MiC e con il supporto di Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale e L’Agorà de la Danse di Montréal nell’ambito di CARNE focus di drammaturgia fisica vincitore del bando di residenza presso L’Agorà de la Danse di Montréal, sostenuto da CINARS, NID Platform, L’IIC di Montréal e Delegazione del Québec a Roma foto di R.Segata courtesy of Centrale Fies
#NAPOLI
LA DISTANCE (Tiago Rodrigues)
La distance sono gli anni luce che separano un padre che è sulla Terra da una figlia che partecipa alla colonizzazione di Marte. Ma è anche l’inconciliabilità politica tra un uomo che al netto di crisi e di guerre pensa che la democrazia sia ancora possibile e una ragazza che non ha più voglia di rimettere mano al vecchiume e scommette su un ordine nuovo. Ma è anche la differenza tra un lui radicato nel posto natio e una lei in cerca di lontananza. Ma è anche un strappo del tempo per cui non restano che pochi giorni, poi la connessione cadrà e i contatti saranno impossibili. Ma è anche una diversità di lessico per cui parole come «lotta» o «utopia» per uno significano mentre all’altra non dicono niente. Ma è anche una storia migrante in cui chi è giovane passa non il mare, come capita adesso, ma lo spazio, come Thiago Rodrigues immagina avvenga nel 2077. Ma è anche l’opposizione tra chi si sgrava del passato e chi continua nel «quel che eravamo»: il cavallo cavalcato da piccola, il taglio che ti facesti cadendo, il disco che suonava nella lingua parlata da tua madre. Ma La distance è anche un rifiuto dei padri, o la voglia d’una deriva, o il racconto d’una perdita per cui Alison Dechamps infine scompare e Adama Diop non può che tenerla nei pensieri. Ecco, io non so cos’ho visto e questo – in tempi di teatro spesso assertivo e che impone già in partenza un ingaggio per aderenza col pubblico – mi pare un bene. Di certo ho ammirato due interpreti credibili, impegnati in un dialogo costruito per alternanza, come in uno scambio mail o WhatsApp, le cui battute facevano ridere e il cui dolore feriva, posti su una pedana con una roccia e dei tronchi caduti a fare da separé, che ruota al ritmo dello scambio verbale mostrando i due a turno eppure in relazione continua. Così lui si dispera ad esempio, curvo allo stomaco e col mento sul petto mentre lei di sfondo si lascia andare; o lei che nell’ultimo frameri compare a cavalcioni sui tronchi mentre lui sta con gli occhi socchiusi: dunque è ancora da sola nel cosmo? È l’immagine rimasta sotto le palpebre al padre? O è un ricordo, quest’impalpabile che stringiamo come l’oro perché chi abbiamo perduto non scompaia del tutto? (Alessandro Toppi)
Visto al Teatro Mercadante: Festival d’Avignon, Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, Onassis Stegi (Athènes), La Comédie de Clermont-Ferrand Scène nationale, Divadlo International Theatre Festival, Le Volcan Scène nationale du Havre, Teatre Lliure (Barcelone), Centro Dramatico Nacional (Madrid), Malakoff Scène nationale Théâtre 71, Culturgest (Lisbonne), De Singel (Anvers), Équinoxe Scène nationale de Châteauroux, Points communs Nouvelle Scène nationale de Cergy-Pontoise / Val d’Oise, Piccolo Teatro di Milano Teatro d’Europa, Maillon Théâtre de Strasbourg Scène européenne, NTCH Taiwan National Theatre and Concert Hall, Les Célestins Théâtre de Lyon, Théâtre du Bois de l’Aune (Aix-en-Provence), Théâtre de Grasse Scène conventionnée d’intérêt national Art & Création, Scènes et Cinés Scène conventionnée d’intérêt national Art en territoire (Istres), Le Bateau Feu Scène nationale de Dunkerque, Plovdiv Drama Theatre, Malta Festival (Poznan), Espace 1789 (Saint-Ouen)
#TORINO
WHITE OUT (di e con Maria Hassabi)
White Out di Maria Hassabi visto alla Fondazione Merz di Torino per il Festival delle Colline Torinesi (diretto da Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla e organizzato dal TPE – Teatro Astra) è come tutta la violenza di una implosione: il cedimento, nel corpo, del tempo. Originariamente è stata concepita come un’installazione live, parte della personale I’ll Be Your Mirror (Hong Kong, 2023). In un ambiente sonoro che si frappone al rumore in loop delle installazioni circostanti presenti in mostra (Push The Limits 2), e in una condizione visiva che è quella abituale della sala, un corpo esile di rosso vestito si adagia su una bianca panca rettangolare, letteralmente vi si scioglie sopra. Se ne imbianca in una dissolvenza posturale che non implica dissoluzione della figura. Una sfocatura ma non come di un corpo inorganico, resistente invece in tutta la sua articolare anatomia: corpo rotto disteso alla dispersione, alla frammentazione, e tenuto insieme per temporalità impensate, e fuori misura. Si alterna un piano dell’immersione e un piano dell’emersione: da dove? dal bianco, immagino. Per aprire piegature del tempo che ora nel colore si rapprende e ora si arresta. Piegata, distesa, contorta quindi negata e cancellata come in un violento fermo immagine sempre infissabile, Hassabi ospita figure e posture inimmaginabili. Chi è mancato? Cosa ha fatto questo vuoto? Un corpo fermo, sospeso, che danza per via negativa, scultura che dice del vivente, della mobilità della materia. La sua è la forza di un abbandono radicale, alla perdita incondizionata, pur nello sforzo come condizione di una analitica mestizia (il volto, intenso, è dolente e gli occhi semichiusi sempre accorati), mai come una interessata transizione. Non vi è approdo in questo abbandono al movimento di ogni singola cellula: osservo l’inesausta tensione di questa rossa umanità arresa al bianco eppure capace di tenuta. Un corpo fuori asse avvinghiato alla sua seduta: tutto qui. Immensa Hassabi che infine di spalle ritrova la postura verticale, e se ne esce a passi svelti, dopo aver cambiato il mondo. (Stefano Tomassini)
Visto alla fondazione Merz. Festival delle Colline Torinesi. di e con Maria Hassabi su commissione di Tai Kwun Contemporary, Hong Kong sound design Stavros Gasparatos e Maria Hassabi costumi Victoria Bartlett
#ROMA
INTERAZIONI FESTIVAL: Valentina Sansone, Greta Francolini, Stefania Tansini
Interazioni Festival organizzato da Chiasma si è svolto quest’anno in un momento cruciale, per la città di Roma, per l’Italia, per il mondo. Un piccolo festival si è trovato a coabitare tempo spazio e opinioni nelle ore di mobilitazione per il genocidio in Palestina. Quelli tra la fine di settembre e i primi di ottobre sono stati giorni in cui essere un festival di arti performative poteva configurarsi come il più fuoriluogo dei luoghi, oppure, come il più naturale dei frangenti in cui ricordarsi cosa significa fare arte, oggi. Con la direzione di Salvo Lombardo, il cartellone di quest’edizione a ingresso gratuito e dal titolo Piène, ha partecipato al clima di crisi politica manifestando, già negli intenti curatoriali, il suo pensiero: «appare di vitale importanza il non perdere di vista la conquistata sfocatura». Più che un posizionamento, i tre lavori che abbiamo visto, delle coreografe Valentina Sansone, Greta Francolini e Stefania Tansini hanno assolto nella loro scrittura questo glitch: un’anomalia brilla in virtù di un decentramento di senso, per cui i corpi spostano la nostra fruizione non su ciò che ci convince ma che ci fa esitare. Il corpo può farsi osservare e controllare come in Non era previsto che noi sopravvivessimo di Sansone ma in quella danza solipsistica e esposta dietro a un vetro arriva a rigurgitare estaticamente saliva, sangue e sudore; in And then there were none di Francolini può essere servito con grazia su di un vassoio e diventare appetibile desiderio ma che nell’immanenza aspira a trascendere il suo peso; e ne La grazia del terribile di Tansini può scoprirsi mutevole e alterata forma in divenire, imperturbabile atto di composizione e ricomposizione di frammenti di sé. Tre lavori, molto diversi tra loro, che testimoniano unanimemente però, come il corpo possa ancora salvaguardarsi dalla polarizzazione, dalla riduzione, dalla retorica semplificante che distrugge la complessità. Il corpo non è sic et simpliciter e questo è ciò che ci muove. In scena come nelle piazze.
Visto a Spazio Diamante durante Interazioni Festival: Crediti completi su chiasma.eu/2025/interazioni/
#MILANO
CRY VIOLET (Panzetti/Ticconi)
Sembra quasi una formula esausta, quella reiterazione cinetica che Panzetti/Ticconi scelgono per Cry Violet, presentato all’interno del Danae Festival di Milano. Su partitura sonora – precisa, incalzante, viziosa – di Teho Teardo, la creazione si struttura come un dispositivo performativo di indagine sulla colpa “ambientale”, sulla sua estetizzazione e sulla tentazione, tutta contemporanea, di trasformarla in immagine ripulita e anche commerciabile. Se è vero che la colpa, come si dice, la si legge negli occhi, in questo lavoro essa si disloca, trasferendosi negli arti, nelle genuflessioni, negli atti meccanici e rotatori che si ripetono in modo ossessivo, mostrando un senso di inadeguatezza e di vergogna: mani portate al viso per celarlo, corpi piegati in posture di abnegazione o contorti in un moto di ritorsione verso sé, come a sottrarsi a un interlocutore che è altro, e soprattutto altrove. In questo linguaggio del gesto, ieratico e trattenuto, le pathosformeln warburghiane si consumano nel rigore, come figure archetipiche di un dolore che continua a esistere solo nella sua forma, perché svuotato della propria urgenza originaria. La coreografia procede così per accumulo di codici espressivi ma per sottrazione emotiva degli stessi, costruendo un lessico minimo e disciplinato, mentre sullo fondo bombolette spray e pezzette verdi attendono d’essere agite e significate. Strumenti di pulizia, che si riscoprono medium di rimozione simbolica, verranno usati solo alla fine, rivelando allo spettatore il motivo della colpa da espiare. Di questa dimensione ecologica, nello spettacolo, rimane tuttavia solo il presupposto concettuale, perché essa non riesce a trovare una chiara corrispondenza visiva – costruita su piccoli indizi e residui oggettuali – lasciando emergere invece una più ampia meditazione sulla colpa in sé e sulla sua genealogia fisica e spirituale. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Fabbrica del Vapore_Cisterne. Danae Festival. coreografia, performance, costumi Ginevra Panzetti / Enrico Ticconi composizione sonora Teho Teardo illustrazione grafica Ginevra Panzetti originariamente creato all’interno di Esplorazioni un progetto di Triennale Milano in collaborazione con Volvo Car Italia con il supporto di Lavanderia a Vapore / Piemonte dal Vivo – Torino (IT); Rampe – Stoccarda (DE)
#ROMA
FRANKENSTEIN, a history of hate (Motus)
Frankenstein(history of hate) è il secondo capitolo del progetto che Motus dedica al celebre personaggio nato dalla penna di Mary Shelley nell’estate del 1816, e che viene presentato in prima nazionale, in forma di dittico, a Romaeuropa Festival. Mentre la prima parte, Frankenstein(love story), ruota attorno alla nascita del romanzo e della Creatura, e al rapporto che lega quest’ultima a Victor, il suo creatore, (leggi anche l’articolo di Sergio Lo Gatto) Frankenstein (history of hate) attraversa il racconto originale invocando una destrutturazione di elementi visivi e drammaturgici, in un alternarsi e moltiplicarsi di raddoppiamenti e proiezioni dei tre performer in scena, Enrico Casagrande, Tomiwa Samson Segun Aina, Yuan Hu. Mentre le immagini tratte dal documentario [ÒDIO], vincitore dell’ITALIAN COUNCIL 2024 - con Silvia Calderoni e Alexia Sarantopoulou- consolidano il dialogo tra cinema e teatro, disseminando, insieme a una costante e vivida sperimentazione, le tracce di una più ampia riflessione sul tema della creazione: della creatura-mostro come di possibili nuovi linguaggi, e delle loro implicazioni storiche e politiche. C’è un momento, che segna il passaggio da Frankenstein(love story) a Frankenstein (history of hate), nel quale lo spazio viene ricostruito e riconsegnato allo sguardo dello spettatore da figure vestite di nero e incappucciate che ne ridefiniscono i confini affrancandolo, infine, da un preciso tempo storico: una sospensione/non sospensione dove converge la massima concentrazione di senso di quanto viene esplorato sulla scena. In video, un paesaggio roccioso, poi il mare, e un affiorare di corpi: quello di Calderoni/Victor, che richiama alla mente quello di Calderoni/Kaspar Hauser, in un film del 2013 di Davide Manuli. Dove sta andando il mondo? L’urgenza, sembra ribadire Motus, è accogliere il filo nascosto delle cose, l’invisibile della pratica artistica, ma anche di quell’umanità perduta che, ci ricorda Shelley, non è malvagia per nascita. (Giusi De Santis)
Visto Teatro Vascello, Romaeuropa Festival. ideazione e regia di Daniela Nicolò & Enrico Casagrande con Tomiwa Samson Segun Aina, Yuan Hu, Enrico Casagrande in video Silvia Calderoni e Alexia Sarantopoulou drammaturgia Daniela Nicolò ricerca e collaborazione drammaturgica Ilenia Caleo riprese e montaggio video per la scena Vladimir Bertozzi ambienti sonori Demetrio Cecchitelli assistenti alla regia Astrid Risberg, e Juliann Louise Larsen assistente al video Isabella Marino scena costumi Daniela Nicolò & Enrico Casagrande direzione tecnica e fonica Martina Ciavatta disegno luci e video Simona Gallo tecnico luci Theo Longuemare una produzione Motus con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Snaporazverein (CH) e Romaeuropa Festival. Una produzione Motus con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, TPE – Festival delle Colline Torinesi,Kunstencentrum VIERNULVIER (BE) e Kampnagel (DE), residenze artistiche ospitate da AMAT & Comune di Fabriano, Santarcangelo Festival, Teatro Galli-Rimini, Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto-
TIPICO MASCHIO ITALIANO (di Lorenzo Maragoni)
La strada dell’autocoscienza del privilegio maschile è tortuosa e lastricata di buone intenzioni. Con Tipico Maschio Italiano Lorenzo Maragoni ne racconta un tratto scegliendo di puntare il dito su di sé. I titoli di testa amplificano con ironia l’egocentrismo maschile di questo one man show. Accompagnato dalla musica dal vivo di Giovanni Frison, Maragoni si rivolge ai suoi bro in platea e ci aggancia nel racconto di sé. Dall’infanzia ai fatti più recenti della sua biografia, anche lui è stato ed è un tipico maschio italiano: ha esercitato un potere di cui non era consapevole, ha goduto di privilegi non percepiti come tali, ha praticato violenza psicologica sulla sua compagna. La narrazione, alternando il tono informale della stand up a quello intimo della confessione e a quello poetico della canzone, procede sul confine tra autenticità e finzione drammaturgica. Ma la presenza calda dell’attore ci inchioda alla verità di una sofferta conquista: la capacità di osservarsi dall’esterno, rileggere gli eventi della propria vita sotto una luce diversa, cambiare la percezione di sé come persona (etero di sesso maschile) che agisce nel mondo e nei confronti dell’altro sesso. Questo spostamento di sguardo è un processo continuo, richiede allenamento e dialogo. Nato da un’inchiesta sul campo realizzata con associazioni che si occupano di maschilità e che ha portato Maragoni a incontrare tanti uomini nella dimensione insolita del dialogo intimo, lo spettacolo è un’autodenuncia ma anche una condivisione. Ed è fortemente percepibile la sensibilità inquieta con cui Maragoni approccia un tema di cui conosce le insidie, a partire dall’interpretazione stessa delle motivazioni di fondo della messa in scena: lenire un senso di colpa? Sentire di aver fatto la propria parte? L’onestà di quell’inquietudine toglie spazio a queste domande prima che il pubblico (almeno quello femminile) possa farsele. Rimane l’augurio di vedere programmate operazioni come questa in spazi altri, perché incontrando platee eterogenee possano con più dirompenza innestare un germe di cambiamento. (Sabrina Fasanella)
Visto a Carrozzerie N.O.T. di e con Lorenzo Maragoni. Assistente alla regia Anna Dall’Olio. Musiche originali Giovanni Frison. Light designer Massimo Galardini. Contributo video a cura di Factanza Media. Animazioni e grafica a cura di Simone Brillarelli. Regia Lorenzo Maragoni. Produzione Teatro Metastasio di Prato in collaborazione con Retropalco srl, con il sostegno di Carrozzerie ǀ n.o.t Hanno collaborato al progetto Factanza Media, Osservatorio Maschile e Fondazione Libellula.
TERRAPOLIS (di Q. Onikeku)
La danza come profezia svelata, il corpo come luogo di una rivoluzione, rito di rifondazione della specie. Quando abbiamo smesso di essere umani? Di abitare la terra come un tempio, in armonia con gli dei e le forze della natura? Il viaggio coreografico di Qudus Onikeku, tra i più importanti coreografi e danzatori internazionali ospiti della quarantesima edizione di Romaeuropa Festival, fa incontrare il rito e la forma, l’energia della preghiera e la violenza del destino. Il palco animato dalla luce calda e polverosa ospita undici danzatori, convocati al rituale da una narratrice-sciamana-profetessa: con voce ammaliante e ipnotica dispiega il filo narrativo-poetico che accompagnerà tutta la performance. Terrapolis ripercorre le tappe dell’esistenza dell’uomo sulla Terra, risalendo dalle fondamenta della cultura yorùbá per arrivare ad osservare un’umanità che oggi ha smarrito il contatto con gli elementi e persino con gli altri esseri umani, e si ritrova smarrita sull’orlo del baratro. La spiritualità della ricchissima cultura centroafricana innerva le linee fluide dell’azione corale e disunita al tempo stesso dei performer. Il gesto coreografico è sospinto dalla musica dal vivo – quattro musicisti posizionati sul fondo del palco e per la maggior parte del tempo in penombra, a potenziare il potere vibrante di un suono dalle sfumature progressive rock, dirompente e fortemente rituale. L’andamento sincopato delle partiture coreografiche alternate alla narrazione restituisce il flusso energetico potente delle forze della natura, condensate in corpi ancorati alla terra – i piedi nudi solidi come radici – e insieme lanciati verso l’alto e l’altrove, gesti che chiamano in causa ogni fibra del corpo, fino all’ultimo capello di lunghe chiome che prolungano il movimento disegnando spirali nello spazio aereo. Anche la voce partecipa a una danza che arriva da lontano come offerta sacrificale, spazio di riappropriazione, grido di dolore e di rinascita. (Sabrina Fasanella)
Visto al teatro Argentina. Romaeuropa Festival. Idea/Coreografia/Direzione Musicale: Qudus Onikeku. Assistente alla direzione musicale/Sound Design: Obajeun Olatunde. Danzatori: Okolo Angela, David Emmanuel, Abok Ezekiel, Eze Gift, Felix Ruth, Okilo Grace, Oba Ugochukwu, Man Cynthia, Igben Vessy, Sarki Linda, Tyese Jatto Consulenti musicali: Jumoke Oke, Ifagbenusola Owomide Popoola. Musicisti: Fabiyi Abiodun, Oyebisi Oluwatosin, Lawrence Simeon, Onikeku Abdulquyyum, Ochei Peters Marie. Light Designer: Michel Abdallah. Costumi: Ochei Peter Marie. Stage Manager: Isaac Lartey. Production Manager: Hajarat Alli
SPECIALE ANNI LUCE 2025. Debutti
C'è ormai da anni uno spazio nel grande programma internazionale di Romaeuropa che è diventato un luogo imprescindibile per capire dove sta soffiando il vento del nuovo teatro italiano. Lo cura Maura Teofili che insieme a Francesco Montagna ha fatto di Carrozzerie Not uno dei centri in cui far emergere a Roma le possibilità delle nuove urgenze drammaturgiche e più in generale delle arti sceniche quando maneggiate dai giovani. Quest’anno ad Anni Luce hanno debuttato tre lavori complessi, sfuggenti per certi versi, di certo anche fragili, ma che segnano la capacità delle autrici e degli autori di prendersi il rischio di fare un passo in avanti rispetto a ciò che avevano già dimostrato. Alice Sinigaglia e Caterina Marino si prendono il rischio lavorare con compagnie numerose, di superare la forma monologo, di mettere in campo oggetti drammaturgici che squadernano la letteratura da cui provengono (è il caso di Uno spettacolo gigantesco) per farci entrare il mondo capovolto della mostruosità come unica arma contro la società limpida del capitalismo contemporaneo, oppure partono da indagini sul campo - quella di Caterina Marino nella preadolescenza - per guardare nel futuro del nostro pianeta, oppure il viaggio di Pietro Angelini e Pietro Turano nelle galassie del erotismo. In comune queste opere hanno non solo la necessità di rodarsi attraverso le repliche (che speriamo potranno avere), ma condividono l'insofferenza per la forma prestabilita, per le drammaturgie chiuse; hanno la necessità di mostrare il processo, e di ibridare la forma teatrale con altro, come la stand-up e la musica; c’è voglia di dire, di parlare del mondo ma senza l’utilizzo di storie classicamente intese. E la recitazione non è un fine ma un mezzo da piegare (fino all’eccesso) per bucare la rappresentazione e far emergere il mondo. (Andrea Pocosgnich)
LA FUTURA CLASSE DIRIGENTE (di Caterina Marino)
Dopo qualche minuto è la regista e autrice Caterina Marino a venire verso il pubblico e a spiegare che quelle appena sentite, sparate al microfono da due degli attori, sono parole pronunciate da bambini e bambine tra i 6 e i 13 anni intervistati in tre zone diverse del paese. Marino precisa che quando a parlare saranno gli adulti verrà alzata una mano come segnale. In completi scuri e magliette colorate sulle quali si intravvedono messaggi politici Federico Brugnone, Sara Mafodda, Daniele Paoloni e la stessa Marino sono i megafoni attoriali di una drammaturgia costruita dunque attraverso un’indagine sul campo, l’effetto è talvolta esilarante per lo straniamento a cui sono sottoposte le parole dei giovanissimi e per la capacità dei quattro interpreti di attivarle teatralmente e amplificarne così i tratti spiazzanti, l’ironia involontaria oppure il caustico slancio civile e politico. Si comincia dal futuro, quali soluzioni per clima e ambiente? Le risposte sono tra le più assurde e radicali, dal suicidio alla vita sui ghiacciai. L’assenza di trama rende la drammaturgia sfuggente dal punto di vista della scrittura scenica - e forse si potrebbe rimettere mano al finale per chiudere prima, dopo la citazione cechoviana -, ma la mano registica di Marino è in grado di spezzare il carattere enunciativo e la modalità da comizio con tanto di microfono con cui ogni discorso viene pronunciato: si pensi alla scena in cui gli interpreti cominciano a leccare dei ghiaccioli colorati, prima senza malizia e poi come in un’orgia simbolica ma anche performativa. I bambini parleranno di soldi, potere, patriarcato e lo spettacolo potrebbe durare anche intere ore dato che non segue uno schema che punta al finale. Potentissima, prima della chiusura la riflessione su arte e vita a partire dalle parole della giovane attivista che nel 2022, alla National Gallery di Londra, gettò della zuppa sui girasoli di Van Gogh, quell'accusa (ovvero che di fronte al riscaldamento climatico si pensa di più al quadro sporcato dal pomodoro) si tramuta nel grido accorato di Greta Thunberg di fronte ai leader del mondo. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Ex Mattatoio. Romaeuropa Festival. drammaturgia e regia Caterina Marino con Federico Brugnone, Sara Mafodda, Caterina Marino, Daniele Paoloni aiuto regia e luci Marco Fasciana, produzione Cranpi, 369gradi, La Corte Ospitale con il contributo di MiC – Ministero della Cultura residenza produttiva Carrozzerie | n.o.t, Humus artist? nel terriorio/IAC Centro Arti Integrate, Teatro Biblioteca Quarticciolo con il sostegno di ATCL Circuito multidisciplinare della Regione Lazio Si ringrazia Accademia italiana
UNO SPETTACOLO GIGANTESCO (di Alice Sinigaglia)
Con Uno spettacolo gigantesco, Alice Sinigaglia affronta il colosso rabelesiano, costruendo un congegno teatrale che è al tempo stesso saggio accademico e rito iniziatico, un laboratorio della deformità dove il pensiero implode nella carne. Lo spettacolo - una coproduzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d'Innovazione e Teatro Nazionale di Genova - prende avvio come una conferenza, “La mostruosità nell’opera di François Rabelais”, in cui cinque relatori sviscerano con metodo il tema del grottesco. Il dispositivo è di una limpidezza asettica: citazioni colte e una luce bianca che suggerisce la neutralità della mente. D’un tratto la superficie si incrina. Le parole cominciano a sfuggire al controllo, le risate diventano tic, la logica si torce su se stessa. È in questo punto di rottura - quando la conferenza si deforma e i relatori si mutano in creature deformi che si manifesta la cifra più profonda del lavoro scritto da Alice Sinigaglia ed Elena C. Patacchini: la convinzione che la cultura, se davvero si spinge oltre la propria comfort zone, deve accettare il rischio della perdita di forma. Gli studiosi vengono risucchiati nella bocca del gigante Pantagruele, in un vortice che dissolve le categorie del pensiero. I cinque interpreti (Emma Bolcato, Lorena Nacchia, Giorgio Pesenti, Caterina Rosaia, Davide Sinigaglia) abitano con credibile intensità la frattura tra umano e mostruoso, tra sapere e delirio. La materia rabelesiana esplode in un carnevale feroce: è un viaggio dentro il corpo del sapere, dove il ridicolo diventa un atto di resistenza alla compostezza accademica. Le scene di Alessandro Ratti e le luci di Daniele Passeri accompagnano questa metamorfosi con sapiente precisione, mentre i costumi di Rebecca Ihle trasformano il corpo degli attori in laboratorio d’identità. Uno spettacolo gigantesco non è solo un omaggio a Rabelais, ma un gesto di ribellione contro la misura. È un atto d’amore per il pensiero che si sporca, che suda, che balbetta davanti all’abisso del comico. Sinigaglia si conferma una delle voci più lucide della sua generazione. (Giuseppina Borghese)
Visto al' Ex Mattatoio. Romaeuropa Festival Drammaturgia Alice Sinigaglia e Elena C. Patacchini Regia Alice Sinigaglia Interpreti Emma Bolcato, Lorena Nacchia, Giorgio Pesenti, Caterina Rosaia, Davide Sinigaglia Scenografie Alessandro Ratti Disegno luci Daniele Passeri Costumi Rebecca Ihle Realizzazione scene Officina scenotecnica Gli Scarti Datore luci Febe Bonini Coproduzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione – Teatro Nazionale di Genova Produzione esecutiva e distribuzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione Residenza produttiva Carrozzerie n.o.t Ufficio stampa Maddalena Peluso Grafica Neostudio Con il sostegno del MiC e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea”
SEVERAL LOVE’S REQUESTS (di Pietro Angelini, Pietro Turano)
Tra gli spettacoli presentati da Anni Luce ce n’è uno “strano”, sghembo, che davvero è un “oggetto teatrale non identificato” - per citare un libro di Lorenzo Donati - e forse lo inquadriamo come spettacolo proprio perché i due protagonisti “fanno finta”, uno non è neanche attore teatrale (Pietro Turano, nel cast di Skam Italia e vicepresidente di Arcigay Roma, attivista e influencer da più di 100mila follower), l’altro, Pietro Angelini, è un performer e un attore tutt’altro che accademico, entrambi possono e devono migliorare proprio dal punto di vista dell’interpretazione. Direi che anche la drammaturgia avrebbe bisogno di una pulizia maggiore, eppure questo lavoro storto, tra documentarismo, autorappresentazione, comicità vive di una leggerezza che diventa un passe-partout per entrare in un mondo che altrimenti rischierebbe lo sguardo morboso e il giudizio moralistico. I due ci portano nel metaverso delle chat tra uomini e lo fanno partendo dalle loro vite: quella di un attore eterosessuale che incontra online un giovane gay. Da qui lo l’ironia sull’arista che si considera un antropologo alla ricerca di spunti per uno spettacolo, le riflessioni sul privilegio etero, la relazione con il femminile - che da quel privilegio sembra non riuscire a liberarsi. Geniale il prologo in video nel quale gli uomini incontrati da Angelini online si aprono dimostrando desideri ed eccitazione (anche con risultati evidentemente comici) oppure raccontando gli amori vissuti e mancati. L’artista in questo caso è una sorta di virus nel sistema: di fronte a uomini che dietro al proprio schermo vorrebbero masturbarsi compare qualcuno con domande quasi pasoliniane alla Comizi d’amore. C’è qualcosa che non è chiaro nella relazione tra rappresentazione e realtà, verrebbe da dire che non ci sarebbe necessità di fingere, che i due potrebbero giocare a carte totalmente scoperte ed essere se stessi, ma forse si perderebbe quella grazia sgraziata che ci fa sorridere di fronte a questo incontro non identificato. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Ex Mattatoio. Romaeuropa Festival. Concept: Pietro Angelini Di e con: Pietro Angelini e Pietro Turano Light Design: Marco D’Amelio Sound Design: Filippo Lilli Costumi: Ileana Alesi Ringraziamento Speciale: Maurizio Rippa Produzione: 369gradi Residenza produttiva: Carrozzerie | N.O.T. Con il sostegno di: Settimo Cielo – Residenza Artistica Teatro di Arsoli, Teatro del Lido, Ferrara OFF – Selezione Chiamata Offline 2023, ARTEFICI. ResidenzeCreativeFVG/ArtistiAssociati – Centro di Produzione Teatrale, C.U.R.A. UMBRIA Progetto vincitore del bando Produzione dello Spettacolo dal Vivo 2025 Promosso dalla Regione Lazio
#PALERMO
VULISSI (di Domenico Ciaramitaro)
“Vorrei” è la traduzione letterale del titolo di quest’opera scritta e interpretata da Domenico Ciaramitaro insieme a Alessio Barone. Immersi nel buio siamo circondati da voci che provengono da ogni angolo della sala; per i primi lunghissimi minuti lo spettacolo è fatto solo di questo: sussurri dal fondo scena, confabulazioni nascoste dietro la platea, curtigghi ammucciati nei palchetti del teatro, in un dialetto cantilenante tipico dei quartieri palermitani e che direttamente rimanda al luogo in cui questo spettacolo è nato, il Teatrino, una piccolissima sala teatrale nel quartiere Zisa gestita dallo stesso Ciaramitaro. È una pièce radicale: una volta in scena i due protagonisti si accavallano a ritmo sostenuto in una conversazione al limite dell’assurdo, confondendo il moto continuo che hanno in testa e che straripa nelle parole, con l’immobilità dei loro corpi, seduti su due sedie pieghevoli al centro della scena. Sono due personaggi che vorrebbero tutto, i cui desideri sono continuamente frustrati. E chi vulissiru? Vorrebbero camminare, ma per andare dove? Vorrebbero parlare, ma di che? Sembrano in attesa di qualcosa, ma di cosa? E noi, insieme a loro, siamo storditi da questo sogno in cui sembrano incastrati. Intanto attraversano la città notturna, siderale e piena di scossoni e rumori che ci fanno immaginare con loro in un luogo altro. Vulissi è un portale, una crepa aperta nel mondo reale che ci trasporta altrove. Se non riusciamo a comprendere tutto quello che sentiamo - causa una lingua teatrale fatta di ripetizioni che caratterizzano i personaggi stessi - questo flusso di parole ci porta lontano, avvicinandoci sempre di più a loro. Come fa anche la musica che interviene sul finale: le sonorità tipiche di una banda in processione conducono alla fine di questo viaggio da cui usciamo frastornati ma pieni. Chi vulissimu? Che vorremmo? Vorremmo restare ancora un po’ qui in silenzio.(Silvia Maiuri)
Vista al Teatro Garibaldi, Palermo, ottobre 2025 nell’ambito del festival Teatro Bastardo. Crediti: di Domenico Ciaramitaro, con Domenico Ciaramitaro e Alessio Barone, assistente alla regia Emanuela Fiorenza, voce Emanuela Fiorenza.
PATRIZZIA. LA VERA STORIA DI UNA SENSATION SEEKER (di Savi Manna)
Il monologo a cui stiamo per assistere si svolge tutto su una piccola sedia nera al centro di una scena scarna e circondata dai palchetti del teatro Garibaldi. La platea è stata infatti ribaltata in direzione del foyer. Le luci di servizio rosse accese sui palchetti conferiscono all’atmosfera l’aria di una veglia, come se tra noi ci fosse la morte e non ce ne fossimo ancora resi conto.
Patrizzia è un personaggio vivo e Savì Manna è magnetico nell’interpretarla. Per campare vende il pesce al mercato ma non ha sempre fatto questo nella vita. Lei è una sensation seeker, l’adrenalina è la sua passione, ha una dipendenza dal rischio e superare il limite, a discapito della quotidianità e della vita stessa, le è essenziale per sentirsi viva. “Vivu vivu” ripete spesso nel mostrare alla clientela il pesce appena pescato e quella vitalità, la freschezza che può tramettere una cosa morta, somigliante ancora alla vita, diventa subito allegoria dell’esistenza di Patrizzia.
La trama riprende le cronache degli anni ’80 di Catania, è la storia di due ladre di banche, eccellenti e viziose il cui legame Manna racconta come intimo e indissolubile. Così scrive nelle note di regia: “Patrizzia è il difetto, l’indicibile, il lato oscuro della mia città, ciò che nessuno vuole vedere o sentire, ma di cui tutti siamo complici”. C’è un lavoro molto importante nella costruzione identitaria di questo personaggio che non si riconosce nei ruoli imposti di moglie e pescivendola, che ha un’altra storia nascosta e, per quanto sordida, anche bellissima. Una vita vera, una vita per cui vale la pena di restare vivi.
Questo spettacolo è in scena da dieci anni e Manna sceglie di riallestirlo in occasione del festival Teatro Bastardo festeggiando insieme questo anniversario importante. Agli applausi si fa fatica a uscire dall’illusione di prossimità a questa donna, poiché l’intensità interpretativa dell’artista catanese è qualcosa di eccezionale.
Vista al Teatro Garibaldi, Palermo, ottobre 2025 nell’ambito del festival Teatro Bastardo. Crediti: di e con Savì Manna, scenografia e disegno luci Salvo Pappalardo.
#MILANO
ABOUT LOVE AND DEATH – ELEGIA PER RAIMUND HOGHE (di Emmanuel Eggermont)
Non è solo una playlist. Anche se l’effetto a cascata, come di un catalogo musicale saccheggiato, un poco incombe su tutta la performance. È un lungo assolo (75 minuti!), che mette in fila numeri musicali profondamente evocativi di estetiche della teatralità, per ricostruire (e omaggiare) l’universo camp e dark di Raimund Hoghe: «scrittore, sceneggiatore, coreografo e drammaturgo nella compagnia di Pina Bausch, scomparso nel 2021». About Love and Death è l’omaggio di Emmanuel Eggermont che con lui ha collaborato per oltre quindici anni (il titolo è una battuta del film Phaedra di Jules Dassin del 1961). Visto a Danae Festival di Milano, la sua elegante figura è composta, compassata, al limite dell’austero, mentre introduce e posa e sposta a terra e nello spazio, con ossessiva precisione, due bicchieri ripieni di sabbia (cenere?) bianca. Sono le condizioni di un ordine spaziale, e temporale (quando uno si versa interamente sul braccio del performer, e allora una intera vita scivola via). Ma l’evocazione iconica di musiche da film riconoscibilissime (Cantando sotto la pioggia...), con voci di acclamate vedette (Josephine Baker), e pure la straziante e paurosa Marilyn di Pasolini scandita da La rabbia con sotto Albinoni (del 1963, sùbito riconosciuta da Maria Paola...), ritmano scene che sono altrettante evocate performance del passato. E poi Klaus Nomi che la fa un po’ da padrone, mentre è immancabile la Carmen della Callas che cozza e stride con l’altrettanto immancabile Freddy Mercury di I was born to love you. Forse non tutto così in successione funziona, ma la scandita, intensa funambolica presenza di Eggermont tutto rende presente e intelligibile come un magnete che nuovamente attrae in scena, senza confondervisi, l’inconfutabile impronta di Hoghe. Eppure, in questa distesa di rovine gestuali e musicali e sonore, mentre una memoria non riesce a ricomporsi, in tutta la sua irregolare icasticità qualcosa invece resiste: un legame, una eredità, una filiazione che riceve il suo potere trasformativo. (Stefano Tomassini)
Visto al Danae Festival di Milano. concept, coreografia e danza Emmanuel Eggermont collaborazione artistica Jihyé Jung disegno luci Alice Dussart suono Julien Lepreux ringraziamenti Kite Vollard produzione e distribuzione Sylvia Courty (Boom’Structur Clermont-Ferrand) amministratore di produzione Violaine Kalouaz, Filage produzione L’Anthracite coproduzione CCNT diretto da Thomas Lebrun, Le Gymnase CDCN Roubaix Hauts-de- France, Les Rencontres Chorégraphiques Internationales of Sain- Saint-Denis, Le CCAM / Scène Nationale de Vandoeuvre, Charleroi Danse – Centre chorégraphique de la Fédération Wallonie-Bruxelles con il supporto di The DRAC Hauts-de-France e Hauts-de-France Region
DONALD (di e con Stefano Massini)
Donald. Storia molto più che leggendaria di un Golden Man è innanzitutto un esperimento di autocritica e di autoanalisi: più che una biografia, un’analisi anatomica dell’immaginario che ha prodotto il mito. «Una strana storia di cui potremmo addirittura riderne». Sul palco del Piccolo Teatro, nel solco della sua drammaturgia dedicata ai “personaggi neri” della storia recente e ora del presente, Stefano Massini convoca la figura di Donald J. Trump per scomporre il dispositivo che ne ha reso possibile l’ascesa: l’ossessione per la rappresentazione e l’adorazione del luccichio come surrogato di verità. Così, ben prima del suo ingresso in politica, Trump viene usato come un dispositivo narrativo, lente d’ingrandimento dei contemporanei sistemi sociali. Prima emarginato nella genealogia familiare — la madre scozzese, il padre tedesco, gli sputi destinati a quell’eredità “sospetta” negli anni ’50 — poi bulletto famelico, dove la ferita identitaria si coagula in brama di riscatto: da campione di flipper a capitano della squadra di baseball, da golden baby a golden boy a Golden Man. Massini scava in questo cortocircuito, con una capacità di scrittura più incisiva rispetto alla sua teatralità divulgatrice e affabulatoria, affiancato da una band che ribadisce che la storia di ascesa di questo uomo d’oro è, in fondo, una partitura jazz: improvvisata, sincopata, imprevedibile. La scena si trasforma in un climax fino alla provocazione visiva dell’eccesso, mentre si accende di insegne, loghi, luci e promesse abbaglianti, tutto volutamente fuori misura. È qui, dove la narrazione procede e alimenta un corpo che assorbe miti americani e li rilancia in forma grottesca, che l’iperbole scenografica ripropone una questione ricorrente nella storia umana. Perché Massini non racconta solo Trump. Racconta il sistema che l’ha incoronato, la società che lo ha reso possibile, la platea (reale e metaforica) che ha voluto credere alla storia più abbagliante, pur sapendola pericolosamente fragile. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo di Milano. Crediti: di e con Stefano Massini, scene Paolo Di Benedetto, luci Manuel Frenda, costumi Elena Bianchini, musiche Enrico Fink, eseguite da Valerio Mazzoni, Sergio Aloisio Rizzo, Jacopo Rugiadi, Gabriele Stoppa, produzione Fondazione Teatro della Toscana
SdisOrè (regia di Gruppo UROR)
All’interno della sua trilogia dedicata agli Atridi, Eschilo scelse di raccontare in Coefore la vendetta di Oreste nei confronti della madre Clitennestra, colpevole di aver ucciso suo marito, Agamennone, con la complicità dell’amante, Egisto. Vendetta compiuta sotto gli occhi e i consigli di Elettra, sorella di Oreste devota alla memoria del padre. Intorno al 1991, nei suoi ultimi anni di vita, Giovanni Testori riscrisse la tragedia per Franco Branciaroli, intitolandola SdisOrè (letteralmente: “si dice Oreste”) e affidando a un grammelot di italiano, latino maccheronico e dialetto lombardo l’espressione della violenza arcaica traboccante dall’originale eschileo. Hystrio Festival il testo è messo in scena dal Gruppo UROR, con Evelina Rosselli che prende su di sé il compito di narrare la storia e di incarnare i suoi personaggi attraverso le maschere e le marionette prodotte da Caterina Rossi, capaci di esaltare gli elementi grotteschi e primitivi serpeggianti all’interno del testo. Resistono i contrasti che la tradizione tragica ci ha consegnato, ma si incardinano in volti e in corpi deformi, si sporcano con le loro pulsioni ancestrali. Così, la furia vendicatrice fa di Oreste un energumeno dagli occhi stravolti; la lunga solitudine e il disprezzo verso la madre danno ad Elettra un’attitudine da zitella morbosa; l’appetito sessuale rende Clitennestra una tiranna tanto feroce quanto impotente, ridotta a costringere per la soddisfazione del proprio piacere un Egisto prosciugato dal terrore. «Testori consente di essere grotteschi», dice Rosselli intervistata da Vittoria Caprotti, e in effetti l’abbassamento scatologico della materia tragica genera nello spettatore un’oscena ilarità e un orrore ridanciano, che si stemperano quando l’attrice si libera di tutte le sue protesi e racconta il finale testoriano della tragedia, in cui al brusio della giuria dell’Areopago e all’olimpica giustizia ateniese si sostituiscono un suono e un concetto sconosciuti alla Grecia del VI a.C: lo scampanio di una chiesa e il perdono cristiano. (Matteo Valentini)
Visto al Teatro Elfo Puccini, Hystrio Festival, settembre 25. di Giovanni Testori regia di Gruppo UROR con Evelina Rosselli realizzazione maschere e marionette Caterina Rossi Sound design Franco Visioli Light design Camilla Piccioni produzione esecutiva PAV con uno sguardo di Antonio Latella e il sostegno di AMAT Marche e Comune di Pesaro. Il progetto ha debuttato presso il Teatro Olimpico di Vicenza nell’ambito del Festival 77° ciclo dei classici a cura del Teatro delle Albe.
#GENOVA
HISTORIA DELL’AMOR (Agrupación Señor Serrano)
Perché amiamo nel modo in cui amiamo? Cosa ci spinge a cercare l'Amore, quello con la A maiuscola? Quando ha avuto inizio la nostra perigliosa impresa? Historia del Amor, spettacolo prodotto dalla compagnia catalana Agrupación Señor Serrano, si pone l'obiettivo di ricostruire una storia sull'origine dell'Amore e il suo snodarsi nei secoli tra convenzioni e preconcetti. Sulla scena una sola performer (Anna Pérez Moya), che abita uno spazio invaso da sacchi della spazzatura ricolmi degli oggetti più disparati, ricordi che si accatastano a prendere polvere in un angolo della soffitta. Si susseguono cartoline che immortalano la potenza dell'Amore nelle sue forme e che sono perlopiù frutto dell'occhio della mente, titillato dal potere evocativo delle parole. I gesti della performer sono essenziali ed espressivi, il volto e le mani in primo piano, inquadrati da videocamere e proiettati sullo schermo alle sue spalle, il microscopico nel macrocosmo. Alle cartoline si accompagnano immagini di coppie iconiche del cinema che l'intelligenza artificiale deforma e fa convogliare l'una nell'altra. L'uso dell'IA non risulta eccessivo o debordante, esempio lampante di come possa essere adoperato in senso integrativo senza nulla togliere all'arte. Alle cartoline si inframmezza una narrazione che ripercorre la leggenda di El Dorado. La città ricoperta d'oro ricercata dai conquistadores diventa parallelismo del modo in cui l'Amore può renderci egoisti al punto da immolare ciò che riteniamo sacrificabile. Amare è come trovarsi in un infinito corridoio del supermercato dove bisogna soltanto scegliere il cartone di latte che fa per noi. Eppure, ci verrà spontaneo continuare a scartarli per provarne di nuovi, fino a quando, a furia di gettarlo a terra, il latte ci arriverà alle ginocchia. Nasciamo, respiriamo e viviamo nel bisogno di essere amati, e forse è così da sempre. Ma mentre la scritta "Gaza" si staglia nitida, bianca su sfondo nero, ci chiediamo quanto sia sottile il confine con l'Odio, e dove sia finito quell'Amore che muove il sole e le altre stelle. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro Gustavo Modena (Teatro Nazionale di Genova) CREDITI Regia e drammaturgia Àlex Serrano e Pau Palacios Collaborazione alla drammaturgia Clara Serraù Interprete Anna Pérez Moya Voce Simone Milsdochter Scenografia Max Glaenzel Musica Roger Costa Oggetti Celina Chavat Disegno luci Víctor Longás Costumi Joan Ros Movimento Anna Pérez Moya Programmazione video David Muñiz Video Boris Ramírez Assistente alla regia e drammaturgia Cristina Cubells Assistente alla scenografia Sara Leme
#ROMA
BORDA (di Lisa Rodrigues)
Al Teatro Argentina La luce lentamente comincia a bagnare una materia per noi ancora indistinguibile, sono interi minuti, un tempo lunghissimo in cui si dispiega una mutazione. Qualcuno in platea comincia a spazientirsi. Dopo gli applausi se ne andrà adirata una spettatrice sulla cinquantina che forse aveva altre aspettative. E invece bisogna starci in questo silenzio pieno e magnifico, conquistare con gli occhi le più piccole apparizioni, le diverse palette di bianco e grigio create dalla brasiliana Lia Rodrigues. Le forme cominciano ad evidenziarsi in questo grande emballage, impacchettate in stoffe, teli di plastica. Ora li vediamo i corpi che si muovono, percepiamo dei sussurri, i performer che cominciano a liberarsi e poi a muoversi con una forma rotatoria ma sempre acquattati al terreno: formano tableau vivant che ricordano un classico del teatro danza, May B di Maguy Marin. A un certo punto forse arriva una tempesta seguita da tante mani di corpi che non si vedono, e si ergono verso l'alto queste dita come a chiedere aiuto nel cimitero del Mediterraneo. Poi lentamente un suono comincia a prendere corpo nel ritmo di un battito cardiaco (di qualcosa che finalmente giunge alla vita?) e diventerà un’esplosione di musica e colori, di ritmi afro che riempiono lo spazio incidendo i corpi e i loro muscoli: piramidi umane, schiere, una passerella di moda improvvisata, la giocosa mostrificazione del corpo e del volto, come quelle teste tenute sotto braccio dalla prima fila di performer, a dare l’illusione che siano volti senza corpo e poi le natiche nude e i costumi e i copricapi che intanto sono arrivati a riempire di altra vita, fuori genere, fuori standard. Borda in portoghese può voler dire confine, margine, ma anche sogno e fantasia. Ora i nostri eroi sono diventati divinità, hanno superato il confine e lo hanno fatto con la potenza della fantasia, hanno trasformato la loro marginalità anche sociale, in vitalità dionisiaca. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Argentina. Romaeuropa Festival. Creato da Lia Rodrigues Danzato e creato in collaborazione con: Leonardo Nunes, Valentina Fittipaldi, Andrey da Silva, David Abreu, Raquel Alexandre, Daline Ribeiro, João Alves, Cayo Almeida, Vitor de Abreu Assistente alla creazione: Amalia Lima Drammaturgia: Silvia Soter Collaborazione artistica e immagini: Sammi Landweer Disegno luci: Nicolas Boudier Direzione di scena e luci: Magali Foubert e Baptistine Méral Colonna sonora : Miguel Bevilacqua Missaggio e masterizzazione: Ronaldo Gonçalves Produzione/ manager: Colette de Turville Assistente di produzione: Astrid Toledo Produzione e manager Brasile: Gabi Gonçalves/ Corpo Rastreado Segreteria/amministrazione: Gloria Laureano Supporto logistico Centro de Artes da Maré: Sendy Silva Insegnanti: Amalia Lima, Leonardo Nunes, Valentina Fittipaldi, Andrey Silva Costumi: Lia Rodrigues Companhia de Danças Cucitrice: Antonia Jardilino De Paiva
iGirl (di Marina Carr, regia Federica Rosellini)
Federica Rosellini attende di cominciare in un punto centrale e sopraelevato, al limite tra palco e platea: l’ombelico dello spazio teatrale. Alle sue spalle una rocciata spacca le sedute, di fronte un corridoio conduce al video sul fondale. iGirl, testo di Marina Carr portato al debutto in Italia da Rosellini come performer e regista, vive in questa tensione spasmodica e ombelicale tra un Olimpo arcaico e un destino artificiale. Il corpo dell'interprete si offre spogliato, rasato, istoriato dalle figure degli arcani — ventuno come i capitoli del testo e dello spettacolo. Corpo agonista, performativamente magnifico, puro sacrificio di sé: corpo spaccato, ferito, generoso. Come quello dei miti. R. Barthes direbbe che il mito “svuota la storia e la trasforma in natura”. Nel momento in cui iGirl convoca Edipo, Giocasta, Giovanna d’Arco come contenitori per una visione del femminile e della specie, compie quell’operazione: de-storicizza il mito per farlo parlare il linguaggio assoluto di un dolore onnipresente. Secondo José Manuel Losada, la mitocritica non consiste nel “riempire” i miti di sensi contemporanei, ma nel riconoscere i mitemi che li attraversano e lasciarli risuonare nella distanza. iGirl fa l’opposto: impone la propria urgenza — un’archeologia, peraltro brillante, del patriarcato — sul mito. Il risultato è più una colonizzazione svuotante di quelle figure che un dialogo con esse. Nel mito, dice ancora Barthes, la storia si cancella e ne resta solo la pelle. Carr lavora proprio su quella pelle: la incide, la scotta, la fa sanguinare. Ma, come nel corpo di Jeanne o di Giocasta, la ferita diventa immagine, non esperienza. iGirl è un rito d’incisione sul corpo del classico: il problema è che, così inciso, il mito non sanguina più, mostra solo le cicatrici. Così come Laio inchioda Edipo e Giocasta viene spaccata fino a diventare “poltiglia di sangue”, la riscrittura diventa un atto di inchiodamento simbolico. I ventuno quadri si susseguono come reperti di un museo della specie: c’è potenza immaginifica, manca la precisione pulsante di una storia. Il linguaggio poetico procede per accumulo, non per necessità. Anche la regia asseconda questa ipertrofia del senso, sovrapponendo video AI-gen, suoni, corpo e voce in un vortice che confonde la profondità con la densità. iGirl ci ricorda che il classico sopravvive perché resta feribile. Ma quando la ferita diventa segno, il mito non parla più: posa. (Andrea Zangari)
Visto al Mattatoio, Romaeuropa Festival. Video: Ra di Martino; musica originale: Daniela Pes; sound designer: GUP Alcaro; costumi e tatuaggi: Simona D’Amico; scenografia: Paola Villani; light designer: Simona Gallo; dramaturg: Monica Capuani; aiuto regia: Elvira Berarducci; performer e regia: Federica Rosellini
CHAIR/IL POST (mum & gypsy)
Lo Spazio Rossellini, con il suo palcoscenico alto nel buio hangar gestito da Atcl, ha ospitato la tappa romana di un progetto internazionale a cavallo tra la Toscana e il Giappone. Capotrave/Kilowatt Festival è stato infatti uno degli attivatori italiani insieme a Fabbrica Europa di un percorso di creazione vincitore del bando ministeriale Boarding Pass. tre attrici e un attore dall’Italia (Alessandra Cozzi, Lara di Bello, Giorgia Fagotto Fiorentini, Luca Maino) e una compagnia giapponese appunto (in scena Aoi Nakasone), la mum & and gypsy, già frequentatrice dei nostri palcoscenici da più di un decennio, spesso in collaborazione con Fabbrica Europa. Lo spazio è pensato per accogliere pensieri, movimenti, stralci di vita, oggetti che a quelle vite appartengono nella quotidianità e che qui vengono stipati ai lati del palco, dove torneranno a sedere anche gli interpreti una volta usciti di scena. Il borgo di Sansepolcro è casa temporanea e luogo estraneo al contempo. Sono colleghi e coinquilini, e anche l’appartamento è protagonista di racconti e riflessioni, così come il tema della famiglia che serpeggia tra i discorsi dei giovani. Emerge l’aura performativa di Nakasone e la sua leggerezza nei movimenti, e d’altronde questa leggerezza è una evidenza di tutto lo spettacolo, aiutata dallo schermo sullo sfondo in cui appaiono immagini del borgo, del cielo e talvolta i pensieri dei personaggi. Uno spettacolo delicato, ben diretto e interpretato ma che cade nel solito stereotipo, ovvero l’autobiografismo teatrale. Pur nel dispositivo suggestivo di una drammaturgia fatta di brani che ritornano come in un eterno vortice di immagini e situazioni, la narrazione, se non in un paio di occasioni (quando vengono sfiorati temi mondiali come la guerra o la violenza subita da una donna in giappone) non riesce a guardare oltre il chiacchiericcio, la filosofia spicciola e il tema teatrale, trattato con tutti i cliché del caso. C’è tutto un mondo da raccontare, fatto a pezzi, certamente complesso e invece troppo spesso si vedono drammaturgie, (che poi rischiano di assomigliarsi tutte) in cui le piccole vicende personali diventano un guscio protettivo fin troppo comodo.(Andrea Pocosgnich)
Visto allo Spazio Rossellini. Creato e diretto da Takahiro Fujita performer: Alessandra Cozzi, Lara di Bello, Giorgia Fagotto Fiorentini Luca Maino, Aoi Nakasone, performance in video: Izumi Aoyagi stage manager: Yoshiko Haraguchi luci: Naomi Koyanaka suono: Daisuke Hoshino video designer: Jitsuko Mesuda responsabili produzione: Kana Hayashi, Shiori Koga, Marta Meroni interprete: Miwa Monden sottotitoli: Miwa Monden, Marta Meroni una coproduzione mum & gypsy, Fabbrica Europa e CapoTrave/Kilowatt nell’ambito del progetto CRISOL – creative processes, finanziato dal programma Boarding Pass Plus 2022/24 del Ministero della Cultura con il sostegno di The Saison Foundation, Agency for Cultural Affairs government of Japan, Japan Arts Council
PRIMA FACIE (di Suzie Miller, Compagnia Finzi Pasca)
Che peccato che il testo dell’australiana Suzie Miller, Prima Facie, andato in scena al Sala Umberto, si sia perso in un allestimento francamente discutibile. Eppure la firma è quella di Finzi Pasca, compagnia con quarant'anni di esperienza. In scena c’è Melissa Vettore, che a tratti, soprattutto nella seconda parte fa un buon lavoro, ma la cui recitazione è molto caratterizzata dall’accento latino americano. Drammaturgicamente lo spettacolo è problematico soprattutto nella prima parte, perché qui la storia ricostruisce il passato della protagonista, un’ avvocata in carriera a Londra, dall’inizio degli studi fino all’attuale vita lavorativa in cui si ritrova ad essere una campionessa nel difendere uomini accusati di violenza sessuale e molestie: la narrazione non stupisce e non si muove oltre immaginari già conosciuti e acquisiti (la giovane donna appartenente a una famiglia del ceto medio contro l’elite dei ricchi studenti, il successo da rincorrere…) ma anche regia e interpretazione non aiutano. Scarpette rosse e fogli appesi a mezz'aria, uno schermo in cui verranno proiettati discutibili video probabilmente generati con l’intelligenza artificiale, e poi fasci di luci che scolpiscono e squadrano lo spazio come dei raggi laser fantascientifici. E se da un certo punto in poi la drammaturgia lentamente comincia a fare il proprio lavoro e anche noi finalmente entriamo nell’universo della recitazione di Vettore lo scalino insormontabile rimane la regia giocata tutta sugli effetti, sull’esteriorità (si pensi altresì al racconto della violenza subita recitato su una sorta di altalena che si muove anche orizzontalmente). Peccato, perché nella seconda parte la donna si trova a dover difendere se stessa in quanto vittima proprio di violenza da parte di un collega, ora è lei al centro della macchina giuridica ed è lei a mettere in luce le contraddizioni dell’apparato legislativo e giudicante. Anche se qui siamo nel mondo anglosassone la questione è aperta e centrale pure nella nostra società: il consenso (negato o manipolato) e un sistema che trasforma la vittima in colpevole facendole, socialmente, terra bruciata attorno. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Sala Umberto di SUZIE MILLER traduttrice MARGHERITA MAURO costumi Giovanna Buzzi musiche Maria Bonzanigo assistente alla regia Ilaria Cangialosi scenografie e accessori Matteo Verlicchi video designer Roberto Vitalini - bashiba.com regia e disegno luci di DANIELE FINZI PASCA produzione Compagnia Finzi Pasca
#FIRENZE
IL VANGELO DI CASSANDRA (Gemma Hansson Carbone)
Il pavimento del Semiottagono dell’ex carcere delle Murate è tutto coperto da un manto rosa, seguiamo con lo sguardo il materiale plastico fino al centro della scena, sale e avvolge il corpo di Gemma Hansson Carbone, è il suo costume, la sua pelle. Alle spalle una sorta di luna, di fronte alla quale verrà annunciato il verbo, e saranno suggestivi i controluce di Alessandro Panzavolta (responsabile anche della scena). Per questa nuova opera programmata e coprodotta da Fabbrica Europa, l’artista italo-svedese torna alla scrittura di Dimitris Dimitriadis (dopo Muoio come un paese): un fiume in piena di immagini e lirismo a partire dalla figura mitologica di Cassandra che qui non è anticipatrice di futuro ma colei che afferma il presente nominando il mondo nel segno dell’eros. Quel "vangelo" del titolo e l’immobilità della protagonista al centro della scena, bloccata in una sorta di prigione ossea, come in una crocifissione senza croce, riportano a una cristologia evidente però se il corpo è costretto, la voce e il pensiero sono liberi. A Dimitriadis interessa il desiderio e la nostra propensione a esaudirlo: «Il mondo adesso è il mondo in cui adesso / chi desidera prende ciò che desidera», e potrebbe sembrare dunque una critica alla società di oggi (che avrebbe perso questa tensione al desiderio?); lo sguardo al mondo di “prima” afferma l’immaginario binario dell’autore: «La donna che è desiderata dal maschio e non si concede / La cosa più terribile è questa / La cosa più terribile è opporsi al desiderio». E però in scena c’è una donna ed è potentissima l’esperienza fisica proposta da Gemma Hansson Carbone che fa piegare vertiginosamente il corpo uncinato al centro della scena (nei movimenti di Gloria Dorlinguzzo). La visione dell'autore greco relativa alla libertà conquistata grazie al maschio, nonostante l’afflato poetico, non può che apparire reazionaria, e il mondo nuovo che vorrebbe proiettare sembra più un ritorno al passato. Certo quel “godo ergo sum” vale per tutte e tutti, deve. Forse non è un caso che Cassandra sul finale perderà la pelle che la tiene ancorata al terreno (in una fuga anche dalla parola maschile?) per liberarsi nuda in una danza bacchica e sfrenata nell'oscurità (Andrea Pocosgnich)
Visto al Semiottagono delle Murate di Firenze, Fabbrica europa 2025 scritto da Dimitris Dimitriadis tradotto da Gilda Tentorio di e con Gemma Hansson Carbone movement director: Gloria Dorliguzzo luci e scene: Alessandro Panzavolta tecnomago: Francesco Tedde costume: Johanna Invrea e Damiano Bagli poeta: Michele Montanari cura: Ilenia Carrone organizzazione: Veronica Arietto produzione: Naprawski coproduzione: Fabbrica Europa con il supporto di PARC Performing Arts Research Centre, Olinda – Teatro La Cucina, Antropotopia, Ortographe, 42zone Hub, Nerval Teatro
#PARMA
OUVERTURE (di G. Kiersz, G. Palermo, M. Petrosino, F. Strasnoy)
L'ouverture è un prologo, qualcosa che precede l'esplosione sinfonica vera e propria, deve catturare l’attenzione di chi ascolta (e guarda). Ma l'Ouverture vista al Teatro Farnese di Parma non precede altri spettacoli se non la vita stessa, e anzi già la contiene nella sua trasformazione quotidiana e naturale. Siamo fortunati e fortunate ad essere stasera nel ventre di legno del Farnese, gioiello seicentesco in cui l’opera diretta da Gaetano Palermo e Michele Petrosino costituisce un cortocircuito suggestivo. Cinque tapis roulant su un palco sistemato dalla parte della platea del teatro, all’opposto del palco originale. Mentre prendiamo posto un personaggio in tuta cammina sul tapis roulant, ha una maschera da vecchio (torna in mente il gusto di Palermo per il volto posticcio in Swan), in breve l’ambiguo soggetto mostrerà il suo vero aspetto, è una giovane direttrice d’orchestra che prenderà il suo posto su uno scranno in mezzo al pubblico. Alla spicciolata entreranno in scena gli altri interpreti scaldando la voce con piccoli sussurri, sbadigli o vocalizzi. Gli outfit sono quelli della palestra, calzoncini per qualcuno, leggings per altre, una di loro al centro posiziona lo smartphone per riprendersi. Lentamente, quasi di nascosto, l’opera comincia, il riscaldamento vocale lascia il posto al canto (la musica è firmata da Fernando Strasnoy). Intanto però i corpi continuano a concentrarsi nell’esercizio fisico: lentamente emergono le straordinarie qualità dei cinque protagonisti, in grado di tenere note difficilissime anche in posizioni fisiche più adatte al fitness che al canto. ”L’orizzonti mi sussurra, l’orizzonte mi trascina” canta il libretto di Giuliana Kiersz a tratti surreale, a tratti terreno. Questo lavoro, facente parte di Gradus, il progetto di creazione con giovani artisti internazionali (che proseguirà con il debutto della greca Marilena Katranidou), lascia emergere una finissima ironia e un altissimo livello di realizzazione. I cantanti si cambieranno in scena con abiti da sera prima di finire con una serie di pose e tableau vivant: eccola la vita che è cresciuta dentro all’opera, fino a esplodere di silente vitalità.
Visto al Teatro Farnese, Reggio Parma Festival: Composizione musicale Fernando Strasnoy Libretto Giuliana Kiersz Regia e coreografia Gaetano Palermo, Michele Petrosino Direzione musicale Laure Deval Traduzione libretto Teresa Vila Soprano Maria Clara Maiztegui Soprano Maria Giuliana Seguino Mezzosoprano Dominika Isabell Marková Baritono Xiaofei Liu Basso Daniel Wendler coproduzione Fondazione I Teatri di Reggio Emilia / Festival Aperto Fondazione Teatro Regio di Parma / Festival Verdi
#ROMA
TRUE COPY (Berlin)
True Copy, andato in scena al Teatro Vascello per Romaeuropa, è una conversazione con Geert Jan Jansen, uno dei falsari di opere d’arte più abili mai esistiti; una lezione sulle competenze necessarie per poter rendere credibile un falso; ma lo spettacolo di Berlin, alla cui ideazione, regia e interpretazione figura anche il nome del pittore olandese, è anche e soprattutto occasione per lo smascheramento dell’ipocrisia del mondo dell’arte. Del resto, quanto accade in scena - come spesso succede negli spettacoli della compagnia belga - parte da una prospettiva documentaria; in questo caso, ancora più che in altri loro spettacoli, non si mette in dubbio la veridicità dei fatti, proprio perché il fuoco tra vero/falso è al centro della narrazione più che del dispositivo di lettura. Le vicende ripercorrono i primi azzardi, il successo costellato dall’ironico e cinico stupore nel vedersi riconoscere le proprie versioni da artisti, critici blasonati, polizia stessa (al suo arresto - per un errore ortografico - fece seguito un rilascio in pochi mesi perché tra le tele sequestrate c’erano anche quadri originali e nessuno riusciva a distinguerli), fino alla scelta di firmare opere originali con il proprio nome (“ma le vendo a molto meno”). Sul palco il pittore, in una prima fase in dialogo con Yves Degryse, alle spalle un telo per proiezioni circondato da cornici vuote, che mostrano poi la riproduzione del proprio studio al cui interno sparisce più volte, rimanendo voce acusmatica e dando impressione che quanto si veda sia prosecuzione di quanto è stato prima. Anche qui, vero e fittizio sono termini che vengono continuamente messi in discussione. Sta accadendo sul serio o quello che ci è impossibile vedere direttamente se non per tramite del filtro video, è accaduto in altro tempo? E dunque, se quell’idea di “originale” viene manomessa, si può dire vera, falsa o addirittura contemporaneamente vera e falsa? Accettiamo il patto, così come accettiamo che quello in scena possa essere o non essere realmente il Jansen, perché in fondo veniamo trascinati nella storia, nello svelamento dell’ipocrisia e del lucro di un business tra i più redditizi. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Vascello. Romaeuropa Festival. Ideazione e regia: BERLIN / Bart Baele e Yves Degryse con Geert Jan Jansen e [alternativamente] Yves Degryse e Fien Leysen |Assistenti: Geert Jan Jansen, Luk Sponselee |Video: BERLIN, Geert De Vleesschauwer, Jessica Ridderhof e Dirk Bosmans |Montaggio video: BERLIN, Geert De Vleesschauwer e Fien Leysen |Scenografia: Manu Siebens, Ina Peeters e BERLIN |Disegno luci: Barbara De Wit |Composizione musicale e missaggio: Peter Van Laerhoven [crediti completi]
STRANO (di Carlo Massari/C&C Company)
Strano. Aggettivo che tante cose e assai diverse, vaghe oppure precise, può significare. Strano è ciò che è diverso, da chi osserva, da chi considera, da chi insomma valuta. E dunque strano è “straniero”, strano è altrove, nel tempo e nello spazio. Strano è il nome della nuova performance site specific che Carlo Massari/C&C Company ha portato nella natura aperta del Parco di Torre del Fiscale per Attraversamenti Multipli. Nel buio diffuso di una sera incipiente, un cosmonauta appare su di un piccolo promontorio lato al sentiero, ha una tuta spaziale e si muove con la difficoltà data dall’ingombro, poi si scopre e rivela una divisa militare; attorno, un audio disturbato angloamericano mima un contatto radio di suoni intrecciati, una evidente intercettazione sofisticata con cui la danza di Massari cerca, faticosamente, di entrare a contatto, a delinearne una sequenza che invece continuamente sfugge, come sfugge il segnale radio. Poi però tutto cambia, la gravità di quella ricerca si distende e il suono disturbato lascia il campo a una musica da café chantant, così che anche la coreografia segue l’onda delle intenzioni e rivela, da una precedente difficoltà stizzosa del movimento, una fluidità consapevole di tendenza quasi comica. Sentimental, emerge la voce che inarca il canto sulle note musicali, è quella di Wanda Osiris, regina della Rivista, che fa scivolare nel ballo e nella levità ciò che prima turbinava caotico nella paura, nell’incomprensione, la musica porta nello spazio dove chi è “strano” trova finalmente il proprio compimento. Ma è poi così che va la nostra vita? Un abbraccio mancato blocca la canzone, la voce si rompe e il sentimento si ghiaccia in un presente infinito, emerge di nuovo il disturbo, fa contatto la vita degli strani, come fosse una radio per sempre intercettata. (Simone Nebbia)
Visto al Parco di Tor Fiscale, Attraversamenti Multipli. Crediti: Creato ed interpretato da Carlo Massari/C&C Company; Una produzione SPaCCa – Sanpapié; in co-produzione con Margine Operativo
PLUTO. O IL DONO DELLA FINE DEL MONDO (Gruppo della Creta)
Un’esuberante caciara, che con fedeltà storica, bilanciata ironia, guizzo politico e doverosa distanza critica, ambienta la commedia antica di Aristofane Pluto nella contingenza dei giorni, assurdi, del 2025. Con l’aggiunta però di un sottotitolo definitivo: O il dono della fine del mondo. Secondo la visione di Anton Giulio Calenda e Valeria Chimenti che firmano insieme questa invettiva su ricchezza e povertà, andata in scena per la prima volta a Roma in apertura delle nuova stagione del Teatro Basilica, Aristofane «è ormai un nostro compagno di viaggio perché ci siamo riconosciuti nella sua ambiguità politica: nella sua capacità di non schierarsi con nessuno, ma attaccare sempre, amici e nemici» e invece il loro Pluto si schiera eccome, pur mantenendo quel tanto di straniamento per poterci guardare da fuori, vittime dell’ineluttabilità di un destino che ci vede già perdenti, già al guinzaglio. Cremilo e Carione (biomeccanici Matteo Baronchelli e Alessio Esposito) non sono più il padrone e il servo ma i loro ruoli sembrano completarsi a vicenda, in quanto soggiogati dalla riacquistata vista del dio Pluto (Alessandro Di Murro) che elargisce gratuitamente ricchezza senza alcuna distinzione, merito o fatica. Se la ricchezza è per tutti, tutti diventano ricchi? La domanda riecheggia nel coro di contadini (composto dagli allievi attori del Progetto Speciale di studio Aristofane nostro contemporaneo) e nella ritmica accattivante dei versi scritti da Amedeo Monda, compositore delle musiche originali ma anche insofferente Ermes/corifeo. Sarà la Povertà (una pacata e severissima, perché lungimirante, Laura Pannia) a mettere in crisi l’utopia della redistribuzione, a svelare la menzogna di un ideale di equità inesistente. Pluto del Gruppo della Creta fa dialogare la consapevolezza scenica odierna con quella del 388 a.C.; con intelligenza drammaturgica e attorale rielabora il moralismo aristofaneo e con leggerezza compositiva rifugge dal prenderlo troppo sul serio per costruirgli attorno uno spettacolo vitale, energico, accessibile e divertente. (Lucia Medri).
Visto al Teatro Basilica: di Anton Giulio Calenda e Valeria Chimenti, tratto dal Pluto di Aristofane, regia Alessandro Di Murro con Matteo Baronchelli, Alessandro Di Murro, Alessio Esposito, Amedeo Monda, Laura Pannia, musiche originali di Amedeo Monda, disegno luci Matteo Ziglio, costumi Giulia Barcaroli, assistente alla regia Rebecca Righetti, direzione organizzativa Bruna Sdao, una coproduzione Gruppo della Creta e Cadellino Srl, con il sostegno del Ministero della Cultura, con la partecipazione straordinaria degli allievi attori del Progetto Speciale “Aristofane nostro contemporaneo”. Foto di Simone Galli
SIMULACRO (KOR’SIA)
C’è un’immagine bellissima nei primi momenti, la guardo affascinato: all’apertura del sipario un corpo nudo di schiena, capelli lunghi, legato a un paracadute che ancora gonfio di vento scalpita in direzione opposta. Guardo l’umano venuto da un altro mondo, nelle luci di penombra di Oscilla, dalla platea dell’Argentina per il debutto del gruppo italo-spagnolo Kor’sia a Ref. Simulacro, diretto da Mattia Russo e Antonio de Rosa, vorrebbe riflettere sulla società digitale, e interrogare “il senso della nostra epoca tra iper-connessione e distorsione della realtà.” Ecco allora uno schermo in mezzo al palco in cui si agiteranno filmati di boschi, natura in fiamme, bianchi cavalli al galoppo. Ho sempre diversi dubbi quando il video viene utilizzato con questa modalità a la Blob: distoglie lo sguardo dai performer, rischia di farci andar bene qualsiasi immagine. Incessante il tappeto sonoro iniziale, mentre una fitta nebbiolina addensa la visione, l’audio è un fruscio elettrico. Tutti sono avvolti in tute nere futuristiche, uno di loro porta in scena una bicicletta e il tappeto sonoro viene interrotto da un pezzo romantico della metà del Novecento che poi tornerà verso la fine dello spettacolo. Dove siamo? In un mondo distopico in guerra perenne (uso di fucili e combattimenti vengono mimati nella danza) oppure in un videogame? Di nuovo sferragliare metallico, lotte e tempeste di proiettili: guardo l’orologio, mancano ancora 20 minuti. Kor’sia si perde nell’illusione che gli effetti speciali (come il reticolato a la Matrix sulla platea dell’Argentina) possano bastare al racconto, ma è la drammaturgia a mancare di solidità (e della capacità di mettere insieme alcune buone idee) e l'effetto luna park è dietro l'angolo; come d’altronde all’apparato coreografico manca mordente, comunicatività e capacità di sorprendere. Suggestiva l’atmosfera dei minuti finali, forse siamo di fonte a un’umanità rinata, o a un passato glorioso: in una strada ragazzi e ragazze del secolo scorso, il paesaggio è ambiguo, lynchiano.
Visto al Teatro Argentina. Romaeuropa Festival 2025. Idea e Regia: Mattia Russo e Antonio de Rosa Coreografia: Mattia Russo e Antonio de Rosa in collaborazione con gli interpreti Drammaturgia: Agnès López-RíoScenografia: Amber Vandenhoeck in collaborazione con Mattia Russo e Antonio de Rosa/Kor’sia Musica Originale: Alejandro Da Rocha Costumi: Progettazione e direzione creativa di Luca Guarini Luci: Oscilla Foto di Aitor Laspiur Cast: Samuel Van der Veer, Helena Olmedo Duynslaeger, Samuel Dilkes, Edoardo Brovardi, Martina Anniciello, Benoît Couchot
MIRADA (di Elisa Sbaragli)
Il corpo nello spazio è, a tutti gli effetti, corpo nell’ambiente, nell’organismo vivente della natura. Insomma: un corpo in un altro corpo. Sembra questo un possibile slogan, un richiamo che Attraversamenti Multipli fa alla comunità artistica e umana, mentre Mirada, performance di danza site specific che Elisa Sbaragli porta nel Parco di Torre del Fiscale, sembra a tutti gli effetti coglierne lo spirito più profondo. Tutto parte dallo sguardo, ossia il legame tra lo strumento della visione e l’obiettivo messo a fuoco; da un lato è il campo largo dell’estensione, dall’altro il dettaglio stretto su cui si raccoglie l’attenzione. Lo spazio è quello di un prato, alla luce del giorno, larghezza e profondità dai confini sfumati che confondono in un verde pressoché uniforme l’immagine della danzatrice; lontana, Sbaragli sceglie un punto nello spazio in cui far emergere la concretezza del proprio corpo, è un punto lontano dallo sguardo del pubblico, ma uno schermo nelle vicinanze focalizza e ingrandisce, avvicina l’immagine e ne rivela i dettagli. Il gesto danzante di Sbaragli è ostinato, combatte continuamente tra l’intensità e la dispersione, la sua persistenza lotta con la vaghezza uniforme del paesaggio naturale; lo schermo naturale esplicita e delimita i gesti, in un confine tondo a sfondo nero, come uno spioncino da cui osservare, rubando all’immagine, l’intenzione e il suo effetto. Attorno il paesaggio sonoro arricchisce quello visivo, estende nell’invisibile le vie di fuga del visibile; ma più ancora, ciò sarà un’ovvietà nelle performance site specific all’aperto, a colpire è quanto si trova in dialogo con queste immagini ma della performance apparentemente non fa parte; eppure, ci entra: dietro passa il treno, in alto passano gli aerei diretti altrove, non si può non fissare continuamente lo schermo che comprime l’immagine ampia e dire che siamo qui, ora, insieme a quel corpo. E danziamo. (Simone Nebbia)
Visto al Parco di Tor Fiscale, Attraversamenti Multipli. Crediti: di e con Elisa Sbaragli; elaborazione sonora Edoardo Sansonne; produzione TIR Danza





