Il mantello di Loden
di Thomas Bernhard
a cura del collettivo Tavolo Cultura di Spin Time
un progetto di Francesco Villano
con Marco Cavalcoli, Altea Narici, Francesco Villano
sonorizzazione live Altea Narici
consulenza alla drammaturgia Sergio Lo Gatto
illustrazione e grafica Mariagiulia Colace
L’incasso della serata verrà devoluto interamente al sostegno alla popolazione civile di Gaza, che riceverà una donazione tramite l’associazione Gazzella OdV.
In un costante sostegno alle cause e alle urgenze di Spin Time, mel 2019 Francesco Villano invitava Lino Musella e il musicista Marco Vidono nella lettura scenica di Emigranti di Slawomir Mrozek; nel 2024 lo affiancavano Mariangela Granelli e Dario Felli in una versione a leggio musicata di Orgia di Pier Paolo Pasolini. Oggi Spin Time ospita una terza lettura-concerto attorno al racconto Il mantello di Loden di Thomas Bernhard, accanto a Marco Cavalcoli e al violoncello di Altea Narici.
Note di regia
Francesco Villano
Seduto a un tavolo, un avvocato della Saggengasse ascolta un altro uomo della Saggengasse parlare. Lo ascolta, ma ancor più lo guarda, lo indaga, lo scava, trascrivendo su carta tutti i suoi pensieri: tutto quello che serve per fare “un buon lavoro”. Per venti interi anni i due si sono incrociati per strada, scrutandosi a vicenda, immaginando le rispettive vite, notandosi senza mai riconoscersi. Questo è il primo e l’unico momento per guardarsi in faccia.
L’incontro, però, è un non incontro. L’odissea di uno passa con indifferenza accanto a quella dell’altro, in una desolante implosione di senso. Nessuna storia si crea da questo incontro, non interviene alcun colpo di scena. Nell’inseguire un climax che, come una apocalisse, programmaticamente viene sottratto, i due si rubano sistematicamente il tempo, la parola e l’identità. In questa anomala storia di fantasmi, il punto sembra proprio essere non arrivare mai al punto.
Rispettando l’andamento linguistico e sintattattico e la morfologia della lingua di Bernhard, abbiamo creato un diagramma dove far risuonare la messa in voce di queste parole: una struttura piatta, convenzionale, un respiro apparentemente appoggiato alla cronaca. «Si dice la verità, ma non la verità». In una foresta di segni e rimandi, nessuno capirà perché sia servita una così debordante narrazione. Se non perché noi siamo fatti di logos.
Offriamo una “lettura-fiume” dove il ritmo e il suono delle parole creano il senso del discorso e dove questa relazione di potere non può invertirsi. Sperimentiamo un gioco fonetico che – al suono di un’indefinita entità esterna dettata dal metronomo – si ripeterà solo due volte. Minime variazioni, storture improvvisate che – tra verbo e parola – porteranno chi assiste alla libertà di relazionarsi con una sorta di macchina parlante.
Nessun obbligo di fruizione integrale; immaginiamo piuttosto l’attraversamento di una pinacoteca decadente e poco illuminata, un museo che non rispetta una cronologia narrativa e che, anzi, propone di invertarne di nuove, assecondando il ritmo e le sonorità, lasciando emergere e scomparire immagini istantanee, entrando e uscendo liberamente dalla sala.
Doppio, affezione, perdizione
Sergio Lo Gatto
«Nel mio lavoro, quando qua e là si formano i primi segni di una storia, o quando in lontananza vedo spuntare da dietro una collina di prosa l’accenno a una storia, gli sparo addosso».
Thomas Bernhard, «Secondo giorno», in Tre Giorni (1971)
«Se si cerca di far corrispondere la prima e la seconda esposizione o descrizione dei fatti, spesso risulta che il dettaglio in precedenza irrilevante è in fondo rilevante, e il dettaglio all’inizio rilevante diventa all’improvviso irrilevante e all’improvviso tutto quanto diventa qualcosa di completamente diverso».
Thomas Bernhard, Il mantello di Loden (1971)
Quale che sia il contesto, il formato o la sbiadita linea di trama, da sempre Thomas Bernhard ha guardato in faccia l’umano, sfidando a testa alta il tema dell’identità della voce narrante, la dissacrante e ipnotica confusione tra chi scrive, chi agisce, chi legge. Personaggi incastrati in casse toraciche dell’esistenza che non riescono a trovare la via per rigenerare l’ossigeno del sangue, per scambiare una percezione con una sua conferma nel reame della realtà. Il risultato è un vorticoso viaggio verticale che non risparmia le epifanie della filosofia da marciapiede, né si rifiuta d’attraversare l’arida radura del concetto offerta da certo bieco esistenzialismo. La storia come dispotica unità narrativa non può dunque che essere deliberatamente portata in sacrificio. Piuttosto hanno la meglio l’ellissi, l’istanza per una sottrazione, lo sforzo energico che fa morire il senso in uno slittamento semantico subdolo e sibillino. Nell’universo letterario di Bernhard non esistono – davvero – vincitori, ma soltanto vinti. In questa insistita serie di metafore belliche, questo autore è la lancinante testimonianza di un presente che ci vede umani schiacciati tra la promessa di quello che saremmo stati e l’evidenza di ciò che stiamo dimostrando d’essere. Il Mantello di Loden è double-face, il suo dritto e il suo rovescio mostrano una coazione a ripetere che, in questa versione, verrà portata all’eccesso dalla proposta di ascoltare due volte la stessa storia, sopportando (o lasciandosi contagiare da) minute variazioni sul tema, stratagemma retorico che ci ritrae in pieno, così ligi a rimetterci in moto sugli stessi ingranaggi, su scelte cui non riusciamo a rinunciare. In un fortunato saggio di Gilles Deleuze (sempre del 1971!) la ripetizione è pura affermazione e potenza creatrice: è positiva e afferma, si muove all’interno dell’idea stessa che viene partorita; il medesimo simulacro trae uno “slancio vitale” dalla valorizzazione di differenze interne e libere che animano il modello che in prima battuta le evocava. Anche in Bernhard, il gioco linguistico non si ferma a una ripetizione all’infinito de «l’identico», piuttosto espone la natura stessa della possibilità di ripetersi, rigenerandosi in innumerevoli forme che fanno apparire e scomparire quel fallito tentativo di trama. Mascheramenti e spostamenti sono il cuore di quella ripetizione, conservando una potenzialità dinamica e uterina basata sulla manifestazione ambigua di una serie di fantasmi del senso. E se le narrazioni fluviali di Bernhard mai dimenticano la temperie culturale, così qui si è consapevoli di dove e quando siamo e del perché stiamo prendendo parola. Il suicidio evocato dal testo somiglia a quello “nei confronti della società”, quello di Van Gogh per Antonin Artaud o dello stesso Artaud espresso nelle lettere dal manicomio di Rodez, che parlano di un «corpo della verità», di un «corpo che danza alla rovescia». E, così, si smarrisce sacrificandosi per tutti e tutte noi. In questo caso il precipitato è una scrittura autoptica, cesellata di punto in punto verso un’esasperazione non solo letteraria, ma eminentemente umana, che le due voci e il contrappunto musicale faranno qui a gara per definire. Il Loden bernhardiano è simbolo di sottrazione, immagine di fredda funzionalità, che evoca un sistema asettico di memorizzazione del vissuto, il gelo che prende alle caviglie chiunque abbia perso il senso dell’avvenire. Un campo minato di soluzioni retoriche fa detonare, con agghiacciante intenzionalità, la capacità che il protagonista (e dunque chi legge) matura di “arrivare al punto”. Se la narrazione non propone alcuna logica razionale, il modello di questa lettura-fiume vive di un programma quasi algoritmico: il programma di un colpo di scena che di fatto non avverrà mai. La voce esterna del “testimone” Enderer funge da ànghelos che annuncia e poi mistifica lo stato delle cose: su narrativi piatti d’argento il testo ispira la libera sovversione dei significati profondi, per ricomporre una storia che in fondo non esisterà mai. Sotto a ogni confronto di Uno con l’Altro c’è l’impellente necessità dell’Individuo di trovarsi di fronte a se stesso, conquistando una prospettiva che vada oltre la sicurezza d’essere solo occhi che osservano i fatti. E non c’è niente di più attuale di questo.













