Al Fabbricone di Prato, quest’anno Contemporanea anticipa un Focus Danza particolarmente intenso e che si fa strada in parallelo ai programmi del neocreato Istituto Alti Studi Coreografici di KLm, presso lo SpazioK.

A Contemporanea, festival del Teatro Metastasio, quest’anno un Focus Danza 2025 al Fabbricone di Prato felicemente si fa strada in parallelo con le attività del neonato (altisonante solo per gioco) Istituto Alti Studi Coreografici (che è invenzione e gestione di KLm – Kinkaleri, Le supplici, mk) nel prolifico e utilissimo SpazioK. Qui ho visto la proiezione di un video di sette minuti in loop di Giovane Ceruti, dal titolo bellissimo: I politici mi imitano (2024-25). Questo giovane artista ha selezionato alcune sequenze di sproloquî retorici e gestici di alcuni politici nostrani e li ha raddoppiati lui stesso a specchio, in una sincronia talmente perfetta ed efficace da riuscire a mostrare (e disinnescare), nel tempo lungo della sua ripetizione, l’orribile vuoto e la violenta prossemica di un linguaggio arruffapopoli, di una demagogia senza profondità, il vuoto cortocircuito di un deleterio e rovinoso riflesso.


Quasi tutta nascosta alla vista è stata invece la Salomè (da Wilde) di Madalena Reversa, ideazione e regia di Maria Alterno e Richard Pareschi, composizione coreografica e interpretazione di Gloria Dorliguzzo. Un vero peccato, perché la performer in scena, nei momenti di apparizione e di leggibile presenza, di rifrazione del corpo inclinato sul terreno o nella redenzione verticale dello spazio, è una meraviglia. Ma l’estetica della scena è vecchia, novecentesca, senza mistero se non quello del fastidio di un prolungato buio falciato da improvvisi lampi di strobo. Al centro in alto sospeso un monitor che scandisce il lettering di frammenti di testo spesso prevedibile («La Luna si tinge di rosso, il Sole si tinge di nero»), non senza involute ironie («Nessuno ha veduto»). Già. Se il programma perentorio ci avverte che si tratta di «un’Elegia all’assenza, finché non c’è più luce, finché tutto ciò che rimane è la perdita», in termini scenici però manca tutto ciò che era presente, tutto ciò su cui le luci si sono dovute spegnere. Di tutt’altra natura invece è stata l’intensa e felice disamina sulla danza dei macellai in Butchers Capsule concepita dalla sola Gloria Dorliguzzo. In un dispositivo alternato ben congegnato, il pubblico assiste da una parte a una lezione intelligentissima e rivelatoria di Caterina Dufì «attorno al sacrificio e al taglio rituale della carne nell’antichità in relazione alla metrica della poesia e alle implicazioni politiche della distribuzione della carne nel pensiero democratico antico». La ricerca da togliere il fiato è di Lucia Amara e funziona, proprio per l’iniziale balbettata dimensione didattica che poi si trasforma, e ci trasforma, in un’assemblea complice in attesa continua di rivelazione (e nella ricerca di Amara ce ne sono davvero tante). Dufì è già forse una abilissima macellaia che taglia la carne del sapere per noi che ascoltiamo, e che a nostra volta siamo tagliati in tre gruppi che in sequenza sono portati ad assistere, dall’altra parte, nel foyer del Fabbricone, un signor macellaio vero e proprio (Francesco Inserra, immagino in straordinario notturno), che «agisce una sequenza di taglio della carne in una penombra sonora». Ma senza il suo oggetto, perché forse lo siamo già noi, lì, che guardiamo e ci spostiamo, già tagliati nello spazio. È una prolungata pantomima, però, che un po’ fa anche sorridere. A una certa, il signor macellaio estrae dal suo bottino una maschera di Apollo che appende e che indossa e che divora, come fosse pane azzimo. Mangiare (il) Dio (dei macellai) per farla finita col taglio. Notevole.

Imperdibile è anche il duo (seppure in forma ‘studio’) Fuck Me Blind di Matteo Sedda e Marco Labellarte, ispirato a Blue di Derek Jarman. Qui «i performer condividono lo stesso pivot point». Ossia si tengono in gioco fissandosi sempre con lo sguardo in un movimento circolare continuo, spesso anche rotatorio, e centrifugo e centripeto, che accoglie e propone tutta una gestualità intima e piena di confidenza, sempre calda e partecipe, condivisa e anche di compresa responsabilità. Sempre sul confine del volto dell’Altro, nella morsa degli occhi come finestra del cuore, insieme, creano così un nuovo equilibrio erotico, ipnotico («indisturbato Hypnos») e «omo-folklorico» (il conio è notevole), che non è più quello della fine.
Sembra promettere molto anche il bellissimo quartetto al quale stanno lavorando Jari Boldrini e Giulio Petrucci con Sofia Galvan e Chiara Montalbani. Elysium («incontro tra la poetica visiva della pittrice Lou Benesch e le suggestioni di Elysium Planitia, paesaggio marziano») per ora dura la metà di quel che sarà, eppure si può già intravedere una forza generativa del movimento che richiede una sapiente composizione. La struttura è l’ascolto e il contatto tra i corpi, l’uso del peso e la resistenza alla gravità: ma anche una consapevolezza atmosferica che all’inizio è intensificata da un ventaglio di incensi che i performer, con ostentata disinvoltura, portano in bocca accesi, in giro per lo spazio. Poi una sequenza di rincorse per appuntamenti al centro come per ricomporre l’unità sempre fluida e sgusciante di una colonna di corpi. Infine (per ora) due lunghe sezioni alternate a coppie e a terra, che indagano nel partnering posture di accoglienza e figure di accettazione, di percezione e cambiamento, affinché il movimento evolva insieme allo stato mentale che lo asseconda. Forse perché nessuno sia straniero, nemmeno si senta un marziano, tra i confini del corpo.
Stefano Tomassini