| Cordelia | marzo 2025 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di marzo 2025 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia

#MANFREDONIA

SETTE A TEBE (regia di Gabriele Vacis)

All’ingresso in sala la luce è accesa fra le poltrone e così resterà per tutto il tempo della messinscena, non serve indurre un’immersione identificativa ove tutto ciò che accade è così connaturato in noi da essere ben prima e ben dopo di noi. Il sipario è aperto, sul fondo bruno campeggiano avanzate sull’asse retto orizzontale e frontale alla platea undici sedie, nere come gli abiti essenziali degli interpreti che sono già in scena, in movimento. Singolarmente, in coppia o più numerosi cominciano a comporre nuclei di azione o meglio sarebbe dire di pre-azione, avendo come l’impressione che quella dinamica sia un modo e un moto necessario a preparare non solo loro, ma noi pure, al travalicamento dimensionale che trascina i fatti, le vicende, la storia, il mito fuori dal respiro corto in cui succedono, successero o succederanno per effonderli in un vortice il cui soffio potente e infaticabile li rivuole sempiternamente umani, ad agitare i corpi tra gli impulsi muscolari e la costruzione dei riflessi energetici messi in forma dalla visione, a plasmare le voci tra il diaframma e la cassa di fonazione della bocca. La drammaturgia che Gabriele Vacis ha composto con i ragazzi del PEM vede la tessitura di nuclei tematici e parole dette affiancata da una partitura suggestiva di suoni e canti. La presenza dei singoli (intendendo in questo modo l’unità di intenzione, azione, corpo e voce), si riverbera costantemente in quella del gruppo, un coro che si struttura a schiera o a cerchio e si vuole utile a ricalibrare una percezione di comunità, di società civile o forse di civiltà sociale, disseppellendo il filo che lega Eteocle e Polinice al Vietnam o al Donbass, Melanippo a una Beretta 92 FS. Come se la vacuità degli occhi di ciascuna morte sopraggiunta in battaglia, sia essa una battaglia bellica o esistenziale, potesse servire a domandarci se non sappiamo sottrarci al conflitto, se ci consegniamo e rimaniamo in guerra o se la guerra non sia in noi cui non resta, qui ed ora, che affermare che siamo vivi. (Marianna Masselli)

Visto al Teatro Comunale Lucio Dalla: Ispirato alla tragedia di Eschilo drammaturgia di Gabriele Vacis e PoEM con le attrici e gli attori di Potenziali Evocati Multimediali: Davide Antenucci, Andrea Caiazzo, Lucia Corna, Pietro Maccabei, Lucia Raffaella Mariani, Eva Meskhi, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Letizia Russo, Lorenzo Tombesi, Gabriele Valchera regia di Gabriele Vacis scenofonia e allestimenti Roberto Tarasco cura dei cori Enrica Rebaudo fonico Riccardo Di Gianni produzione PoEM Impresa Sociale con Artisti Associati Gorizia, Fondazione ECM Settimo Torinese

#MILANO

COSTELLAZIONI (di Nick Payne, regia di Raphael Tobia Vogel)

Se esistono davvero infinite versioni della realtà, come suggerisce la fisica quantistica, Costellazioni di Nick Payne le apre e le attraversa, mettendole costantemente in discussione. Diretto da Raphael Tobia Vogel e prodotto da Teatro Franco Parenti insieme a TPE - Teatro Piemonte Europa, lo spettacolo prende corpo grazie all'intensità di due attori umani, anzi umanissimi, come Elena Lietti e Pietro Micci, una scienziata specializzata in cosmologia quantistica e un apicoltore, che finiscono per ritrovarsi a Milano e incontrarsi una e altre mille volte. La scena è un luogo lucido e spoglio, firmato da Nicolas Bovey, che riflette su una superficie specchiante due anime inquiete, due particelle in eterna sospensione: attraverso la partitura luminosa di Paolo Casati che disegna ripetutamente nuove geometrie di senso, essa interroga e demoltiplica la relazione tra queste particelle, creando un altro livello di realtà che le contiene ma a cui, al tempo stesso, sfuggono continuamente. È questo lo spazio in cui si materializzano due mondi paralleli e le loro simultanee varianti, evocate dalla fisica quantistica: insicuro, istintivo e senza filtri quello di lei oppure docile e insofferente quello di lui che cerca invano di trattenere quelle infinite possibilità di una relazione d’amore che con leggerezza nasce e cresce, si complica e si interrompe, ricomincia, finisce. Una molteplicità che si riversa con forza anche in una drammaturgia che procede per frammenti, si sgretola e si consuma, per poi riavvolgersi e ripartire, mostrando come in uno “Sliding Doors” cosa succede se si decide di restare, cosa succede se si decide invece di andare via. Costruendosi come la somma di tutte le vite che si potrebbero vivere, in un fluire senza sosta che la regia incalza, Vogel costringe lo spettatore a perdersi in questo gioco metafisico delle varianti. A ritrovarsi nella possibilità di poter ancora scegliere. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti, Milano. Crediti: di Nick Payne, traduzione Matteo Colombo, regia Raphael Tobia Vogel, con Elena Lietti e Pietro Micci, scene e costumi Nicolas Bovey, luci Paolo Casati, produzione Teatro Franco Parenti

#VICENZA

Ballet Junior de Genève (coreografie di Marne Van Opstal, Rachid Ouramdane, Barak Marshall)

C’è un filo invisibile, un comune riflesso, un’impronta ospitale in questi tre lavori, diversi e temporalmente distanti, eppure segnati da una stessa amicizia: ed è quella con la cultura performativa europea. Qui si tiene insieme la musica di J.S. Bach al cànone come metodo compositivo nonché al genere del teatrodanza quale memoria culturale. (Quando i baroni dell’accademia italiana mi bocciavano continuamente a tutti i concorsi universitarî perché considerato fuori lobby e figlio di ignoti, o meglio da ignorare, da ignoranti, solo presso i programmi di finanziamento della commissione europea trovai pronta risposta e libero sostegno ai progetti di ricerca anche di vita che ostinato inseguivo.) La serata del Ballet Junior de Gèneve vista al Teatro Comunale di Vicenza per Danza in Rete Festival è senz’altro composita. Eppure perfettamente armonizzata, non solo dai contenuti ma anche dagli straordinari interpreti: 20 e più giovanissim*, tutt* da applaudire. Il primo lavoro è Touch Base di Marne Van Opstal, il suono è “period”: violini e clavicembalo dal repertorio concertistico bachiano. E il contrasto non potrebbe essere maggiore: questo fare il punto (nel titolo) traduce proprio uno stare al passo. Qui, tra movimenti collettivi, scatti decisi, duetti frizzanti continuamente intervallati da prese vigorose e spezzature continue, un contrappunto visivo prende forma capace di generazione continua di immagini sonore e di gestualità astratte di grande musicalità. Il secondo ha un titolo bellissimo, Tenir le temps, di Rachid Ouramdane. Ed è un lavoro in cui il principio del cànone costruisce e dissolve gerarchie di movimento, in un loop ritmico (e percussivo) da piano preparato di Jean-Baptiste Julien. Una mobilità di schiere, di file, di incroci e passaggi creano un’intensa visualizzazione musicale. La questione che si pone è semplice: chi tiene il tempo affinché tutto funzioni? chi domina il tempo per guidare e comandare senza però soverchiare, opprimere, tiranneggiare? Il terzo lavoro, «triste e divertente», è di Barak Marshall, Rooster, ispirato a un racconto di Isaac Leib Peretz in cui si processa il qualunquismo passivo di un uomo irrimediabilmente qualunque. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Comunale di Vicenza: Crediti completi

THE BODY SYMPHONIC (di Charlie Prince)

È un suono sottile, diffuso in uno spettro udibile le più volte impalpabile per uno spazio capillare, quello che nasce e prende vita da The Body Symphonic, performance-concerto del danzatore libanese Charlie Khalil Prince. Vista (dopo il debutto romano di Orbita) sul palco del Teatro Comunale di Vicenza, fa parte di Danza in Rete Festival che quest’anno ha maturato una programmazione curatoriale davvero di grande valore. Ci sono rumori e altri effetti in loop creati da una pedaliera, una chitarra elettrica sfregata anche con un archetto, campionamenti e registrazioni vocali con canti soffusi che provengono da un mini altoparlante wireless, diversamente posizionato. E poi la presenza del percussionista Joss Turnbull che intensifica l’atmosfera musicale mediorientale con ritmi e suoni esplorati sul tamburo anche attraverso dita, palmi, unghie e oggetti di metallo. E poi la gestualità di Prince, che è anche musicista laureato con specializzazione in studi religiosi. Una gestualità asciutta ed essenziale, minimalista e ascetica, continuamente negoziata tra una tensione spiraliforme, il richiamo a una gestica folclorica, il movimento seduttivo del bacino con la manipolazione degli arti e la staticità del chitarrista in un duetto irresistibile. Un corpo naturalmente musicale, ma che declina in termini ‘sinfonici’, ossia come in un tutto organico tra gesto e suono, una idea di presenza radicata nuovamente nella storia. Per danzare una meditazione giustamente archeologica, capace di far fronte testimoniale, attraverso il flusso sempre trasformativo della performance, «alle molteplici crisi politiche e geopolitiche in Libano», «attraverso rituali di scavo - rivelando mitologie nuove e sconfinate e consentendo un’agency illimitata di auto-rappresentazione e radicamento». È dunque una presenza politica che nello spazio, nel cono di luce che proviene da un faro dislocabile, dissemina e incarna traumi e domande che ricevono fragili risposte. Nella circolare mobilità del torso, nella lenta torsione delle braccia e delle mani, Prince descrive una equivalenza tra suono e corpo in frasi di movimento che, pur nella loro contenuta motilità, pulsano di potenza, come di un dolore sempre incombente, sempre alla carica. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Comunale di Vicenza, Festival Danza in Rete: Crediti completi

#NAPOLI

COME UN ANIMALE SENZA NOME (di Lino Musella)

A sinistra, difronte Luca Canciello ai suoni (fischi, distorsioni, battiti in loop) e alle spalle, in quinta, Igor Esposito, che di Come un animale senza nome cura la drammaturgia. Musella si siede con davanti un microfono. Così perché in un teatro che fa da camera amplificatoria si senta Pasolini, usando la premessa di Poeta delle Ceneri come tronco biografico da cui diramare rime e pagine (da Pietro II a Il pianto della scavatrice, da La ballata delle madri a Gli italiani) a brandelli perché tolte agli artigli dell’oblio. Ne vengono l’eco indistruttibile d’una vita e una chiamata coscienziale dagli inferi perché si ridesti in noi la rabbia, che «se ti guardi intorno ti accorgi della tragedia», che aspetti? Dunque Bologna, il padre-nemico, la madre che fa la serva, Roma, le borgate, il fazzoletto rosso dei contadini, gli ordini delle madri all’origine dei compromessi del presente («Covate nel petto la vostra integrità d’avvoltoi!»), il fascista cui, senza farsi illusioni, chiede di amare i poveri, i nomi di chi mise le bombe o sporca l’Italia ogni giorno (abuso di denaro pubblico, uso illecito degli enti, «distribuzione borbonica di cariche agli adulatori»: intendiamoci, riguarda anche il teatro). Che così fa un’intellettuale: solo, e che non ha nulla da perdere. Ma il valore di Come un animale senza nome oltre che nel testo è nel corpo: Musella sempre di profilo, a rifiutare la frontalità dell’interpretazione mascherale. Mani alle ginocchia, busto ritto, capelli con la fila, occhiali, il volto scarnificato da una luce: Pasolini s’intravede solo come fosse l’orlo o l’ombra della pelle. Il rap di Le ceneri di Gramsci, Siamo tutti in pericolo in crescendo – come per la lettera di Eduardo a Tupini in Tavola tavola, chiodo chiodo… – perché sia uno schiaffo. Già, Eduardo. Morto Pasolini Musella ci guarda: «Non li toccate quei diciotto sassi» messi a difesa di una voce altissima. Li levigherà il vento, la pioggia li farà lucenti, «non li toccate». Così disse il Maestro, ossuto, tremando. (Alessandro Toppi)

Visto a Sala Assoli. Crediti: testi di Pier Paolo Pasolini, un progetto di e con Lino Musella, musiche originali di Luca Canciello eseguite dal vivo, drammaturgia Igor Esposito, produzione La Fabbrica dell’Attore, Teatro Vascello Cadmo

#PRATO

OGNISSANTI (di S. Petyx, regia E. Vetrano e S. Randisi)

Le mani, prima di tutto. Si agitano nello spazio conteso tra la luce e il buio, ossute ma non meno eleganti tagliano l’aria come si vedesse, come fosse tangibile, percorrono sentieri di azioni e li distendono, sembrano liberarli dagli ostacoli, perché ci possano star sopra le parole. Non va via questa immagine dal palco di Ognissanti, le mani sono di Enzo Vetrano, là alle sue spalle sulla parete c’è Stefano Randisi, immobilizzato dall’arte e dalla storia in egual misura, il teatro è il Fabbricone di Prato per l’ennesimo lavoro riuscito nella stagione ideata da Massimiliano Civica. Ci sono due santi, in questo testo di Sabrina Petyx scritto apposta per i due attori, sono raffigurati in due dipinti contigui, appesi alla parete di un possibile museo, tesi in posizioni evocative di una beatitudine da nobiltà religiosa, che lasciano intuire le azioni per cui hanno raggiunto in vita l’imperitura memoria ultraterrena. Eppure, chissà, saranno due santi anonimi? Sono loro stessi a dirlo quando, forse nella solitudine di un museo chiuso, iniziano a muoversi e parlare tra di loro. Vetrano compie il gesto di uscir fuori, sfonda i contorni del proprio riquadro e acquista la terza dimensione, quella della relazione con lo spazio e il tempo, mentre l’altro santo resta dentro, tiene lo scranno del proprio alto grado; ecco che le luci di Max Mugnai, forti e nette a battere tra il buio e il rosso cardinalizio, disegnano due piani in dialogo tra loro, un dentro e fuori non dalla scena ma dal dipinto. Ma sono poi davvero, questi, due santi? O forse solo due modelli di allora che la smemoratezza della finzione ha così dipinto? C’è un’impostazione pirandelliana in questi due personaggi in cerca d’autore, o meglio, in cerca di comprendere se il tempo abbia reso santi questi due inquisitori morti ammazzati o sono ancora due poveracci come allora. La regia di Vetrano e Randisi, sostenuta dalle musiche di Gianluca Misiti che sceglie un percorso classico, evolve con qualche lentezza nell’ascesa del climax, ma governa la commistione tra un comico da marionetta e il tragico con pazienza e maestria. Santi oppure no, “chiunque – dicono – darebbe la vita per una cornice dorata”. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Fabbricone. Crediti: di Sabrina Petyx; interpretazione e regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi; scene e costumi Mela Dell’Erba; luci Max Mugnai; musiche originali Gianluca Misiti; produzione Teatro Metastasio di Prato

#ROMA

IL SOGNO DI UNA COSA (di e con Elio Germano e Teho Teardo)

Una linea retta interseca il tempo e collega gli anni del dopoguerra al presente; la ciclicità degli avvenimenti con le sue urgenze si rinnova e i tre ragazzi del romanzo, il primo, di Pasolini ci parlano dei tanti e tante che oggi attraversano la rotta balcanica. Elio Germano e Teho Teardo adattano teatralmente Il sogno di una cosa in un concerto, anche se sono solo loro due gli autori e gli interpreti nella scena spoglia. La molteplicità dei punti di vista, da quelli dei protagonisti Nini, Milio ed Eligio, si allarga a quella corale dei paesi friulani dai quali provengono e che attraversano per giungere poi in Jugoslavia. La voce narrante di Germano e la sua corporeità diventano strumenti risonanti le parole e i loro significati, amplificati dalla tessitura sonora di Teardo, la quale riecheggia nelle note della chitarra, si amplifica negli echi elettronici e si eleva nel tintinnare delle campane. La “cosa” in cui si sogna è la rivendicazione politica contro l’oppressione, la fede in un comunismo, quello di Tito, nel quale si voleva riporre fiducia per scoprirne poi l’illusione idealistica, fiaccata dagli stenti e quindi anche dalla morte. La riconosciuta sapienza artistica di Germano e Teardo, la loro coerenza politica nelle scelte finora compiute, in questo caso purtroppo non riesce a sostenere la dimensione teatrale sia nella recitazione – che non suscita empatia tanto che si fatica a “credere” in quel neorealismo del racconto e i registri e le tonalità con cui viene detto spesso si uniformano in una sola monotonia – sia nella drammaturgia musicale, poco complementare al testo e che, soprattutto nei passaggi più virtuosistici, lo sovrasta. Tuttavia, prevale l’intento di far risuonare la tensione giovanile e l’ingiustizia storico sociale: un moto d’animo e politico, lo stesso che spinge le nuove generazioni di migranti ad andare fuori a scegliere il cambiamento, personale e collettivo. Del resto, non sono proprio i migranti i veri rivoluzionari? (Lucia Medri)

Visto a Spazio Rossellini: Liberamente tratto dal capolavoro di Pier Paolo Pasolini. Una produzione Pierfrancesco Pisani per Infinito Teatro e Argot Produzioni. In coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana. Con il contributo di Regione Toscana.

L’UOMO DEI SOGNI (di Giampiero Rappa)

I personaggi che appaiono nei nostri sogno sono nostre creature, pezzi sparsi di un subconscio palpitante che si scatena durante la notte. Al povero Giovanni vengono a fare visita strani individui, i quali, subito dopo l’apertura del sipario addirittura invocano diritti sindacali, come in una moderna versione dei personaggi pirandelliani in cui questi sono dei lavoratori che reclamano una vita dignitosa. Ma nel caso de L’uomo dei sogni scritto e diretto da Giampiero Rappa, la causa non è la “servetta fantasia” come per il genio agrigentino (o almeno non solo), qui è la depressione ad aver aperto la porta a uomini neri e fantasmi di altro tipo che appaiono durante la notte scavandosi un buco nella rete del sonno come avviene con le parasonnie. In una scena semplice, ovvero l’interno di una casa pronto ad adattarsi grazie a luci e tende nei luoghi dell’incubo o nel corridoio di un aereo, Nicola Pannelli è generoso e profondo come sempre, il suo Giovanni è un fumettista, accanto a lui Elisabetta Mazzullo, una figlia volitiva, diretta, ma anche amorevole, tornata dall’altra parte dell’oceano per stare vicina al padre. Funambolici Andrea Di Casa ed Elisa Di Eusanio nel dare vita, carattere e voci agli inquilini della mente e a un socio di Giovanni, Guido (che ha buone colpe sulle frustrazioni del protagonista) e a una vicina che allevierà la solitudine dell’uomo. Lo spettacolo riesce a mescolare una piacevole leggerezza con momenti di riflessione, è un gioco per attori e attrici che tiene la platea in una attesa ricettiva, anche grazie alle ottime idee registiche con cui Rappa deve gestire i complessi piani del racconto e le suggestive intersezioni tra il mondo reale e quello onirico. Nel finale si ribalterà la situazione e Giovanni dovrà salire su un aereo per andare in aiuto della figlia: ma ormai sogno e realtà saranno diventati un'unica verità tangibile, quella del teatro, in cui tutto è possibile. (Andrea Pocosgnich).

Visto al Teatro Sala Umberto. Scritto e diretto da Giampiero Rappa Con Andrea Di Casa, Elisa Di Eusanio, Elisabetta Mazzullo, Nicola Pannelli Costumi: Lucia Mariani Musiche: Massimo Cordovani Disegno luci: Gianluca Cappelletti Assistente alla regia: Michela Nicolai Direttore di scena: Davide Zanni Scene: Laura Benzi Organizzazione Rosi Tranfaglia

MADRI (di D. Pleuteri, regia A. Sinigaglia)

A leggerlo il testo del ventisettenne Diego Pleuteri potrebbe trarre in inganno facendo pensare alla necessità di una struttura registica corposa, di un solido immaginario dal punto di vista della costruzione scenica e dunque dell'invenzione teatrale. Alice Sinigaglia, che d’altronde rispetto all’autore ha solo un paio di anni in più, mostra invece una evidente fiducia nel testo e negli attori. Riuscire a far emergere il mondo che si nasconde dietro le parole di Madri, non c’è molto altro in questo allestimento eppure è tantissimo. In una scena che articola lo spazio tra tavoli, microfoni, sedie, leggii e scatoloni Valentina Picello e Vito Vicino (il secondo è straordinario per come tiene il passo di un’attrice fenomenale per ricchezza tecnica e inferiore) cominciano con una sorta di lettura, qui Sinigaglia si diverte a giocare metateatralmente sulle diverse possibilità sceniche: come se la realtà del primo dialogo tra madre e figlio dovesse trovare un corrispettivo nella realtà del teatro, nella relazione tra attrice esperta e giovane interprete. Lo spettatore potrebbe pensare di avere avuto la sfortuna di assistere a una mise en scène, ma poi tutto cambia, i fogli del copione torneranno in seguito, con quel rumore di sottofondo che sarà il corrispettivo sonoro delle blatte tanto presenti nel testo, i brani registrati, e quell’atmosfera onirica che lentamente si prenderà la scena, in maniera sottile e quasi lynchiana. Il testo di Pleuteri (che nonostante la giovane età può vantare anche una collaborazione con Leonardo Lidi) svela con grazia - e tutto nel dialogo - i caratteri e fragilità: i due personaggi «hanno la testa bucata, i loro pensieri fuoriescono senza sosta», spiega Sinigaglia nelle note di regia,  la madre interpretata da Valentina Picello è intelligente e ironica, ma è alle prese con un buco interiore che difficilmente si ricuce, anzi forse nonostante le visite del figlio si allarga lasciando intravedere stati depressivi e problemi di memoria. Si parla di cose apparentemente piccole e futili, di una parola dimenticata in un articolo, di doveri genitoriali disattesi e non c’è bisogno del dramma, ché questo già brulica nel silenzio di una solitudine che riconosciamo nei giorni neri di questa nostra epoca. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo. Di Diego Pleuteri con Valentina Picello e Vito Vicino regia Alice Sinigaglia sound designer Federica Furlani scenografo Alessandro Ratti luci Luca Scotton produzione La Corte Ospitale coproduzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione con il contributo della Regione Emilia-Romagna con il sostegno del MiC e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea”

TRE GIORNI (di Federico Malvaldi)

Di fronte al pubblico di Fortezza Est una file di sedie, quelle della sala d’accoglienza degli ospedali, o di altri luoghi e uffici pubblici, c’è seduto un uomo, giovane, la testa è coperta da un copricapo, una larga felpa di pile lo avvolge. Dietro di lui un set di luci che ora illuminano di verde l’atmosfera, una melodia orecchiabile accompagna la sofferenza dell’uomo, il volto si contrae e poi le mani vanno lì in basso, a coprire la vergogna. Perché il corpo non controlla più certe sue funzioni durante la malattia, a causa dei tanti farmaci. Rob fra tre giorni dovrà essere operato, gli è stato diagnosticato un tumore alla spina dorsale; non vuole dirlo alla madre e ha un amico che quotidianamente verrà per tentare di convincerlo a mangiare. Quando lo spettacolo scritto e diretto da Federico Malvaldi si apre al pubblico siamo già nel mezzo di relazioni maturate in giorni di ospedalizzazione, Rob se la prende con tutti, compresa un’infermiera premurosa e una tirocinante, Emanuela, futura dottoressa con la quale stabilirà un rapporto speciale. La messinscena è semplicissima - la fila di sedie rappresenta anche il letto, dietro vi è un carrellino per gli effetti personali e un’asta porta flebo - e gioverebbe forse una minore frontalità: è pur vero che le entrate e uscite sempre laterali e dalle quinte degli altri personaggi sono sensate nella visione in soggettiva del paziente ospedalizzato ma sarebbe interessante vagliare alternative registiche. Questo giovane gruppo di attori (Daniele Paloni, Francesca Astrei, Veronica Rivolta e Luca Carbone) punta tutto sulla naturalezza, attraverso un tema che rischierebbe facilmente di prestare il fianco alla retorica o a rassicuranti sdolcinatezze. Eppure il testo resiste pur nella sua immediatezza quotidiana, anzi tocca momenti divertenti e alti, la riflessione sulla morte è prima sottotraccia e poi esplicita, senza peli: poche ore prima dell’operazione Rob vorrebbe fuggire tanta è la paura e una notte aveva tentato anche di trovare conforto - senza riuscirci - nella preghiera; quel 50% di possibilità di salvarsi è una spada di Damocle sui suoi pensieri. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Fortezza Est. Scritto e diretto da Federico Malvaldi Con Daniele Paloni, Francesca Astrei, Veronica Rivolta e Luca Carbone Costumi di Marta Montanelli Suono di Leonardo Raspolli Assistente alla regia Alice Casagrande Una produzione Compagnia Mauri Sturno In collaborazione con Remuda Teatro E.T.S.

ANNA CAPPELLI (di A. Ruccello, regia R. Chiocca)

Al Cometa Off la platea spiovente, che permette un’ottima visuale all’intero pubblico, finisce molto vicina alla scena: siamo lì, pronti a scrutare ogni minimo segnale, ogni espressione attorale, ché tutto si amplifica in quello spazio. La Anna Cappelli di Giada Prandi entra ed esce da uno spazio quadrato reso tridimensionalmente attraverso un semplice telaio bianco, idea esteticamente funzionale ma meno efficace dal punto di vista drammaturgico dato che l’attrice vi rimarrà chiusa chiusa solo nel finale, in una sorta di prigione immaginaria, soluzione tra l’altro un un po’ telefonata rispetto al finale post omicidiario. E qui d’altronde sta il problema dello spettacolo: il testo di Annibale Ruccello è un classico della drammaturgia in grado di scandagliare le profondità dell’animo di una giovane donna durante il boom economico. Siamo nei ‘60, Anna lavora, è indipendente ma deve comunque avere a che fare con i tabù sociali che la vorrebbero sposata e non convivente con il suo Tonino, il percorso drammaturgico però è semplice: Anna si innamora, va a convivere con un ragioniere conosciuto in ufficio e viene poi lasciata dall’uomo, l’azione sanguinaria finale va letta non come una vendetta ma come una volontà di possessione sovrumana sull’uomo con cui condivideva l’amore. Nella visione registica di Renato Chiocca però è già tutto amplificato, Giada Prandi usa una voce poco più alta della sua voce naturale (per poi abbassarla all'improvviso in alcuni momenti), in gran parte monotona, che racconta di una certa ingenuità del personaggio, e poi però gli occhi sbarrati a evidenziare gli eccessi di follia con quel “mio, mio, mio…” a sottolineare le ossessioni di possessione. Da una parte l’interpretazione soffre di una certa esteriorità e dall’altra anticipa da subito la follia rendendo tutto meno interessante, tutto già prestabilito (si guardi al contrario la recente lettura di Tolcachir e Picello) e stereotipato, come nel finale in cui Anna si scaraventa sul corpo di tonino per mangiarlo, ma a terra non c'è nulla.  (Andrea Pocosgnich).

Visto al Teatro Cometa Off. Con Giada Prandi Di Annibale Ruccello Regia di Renato Chiocca Scena : Massimo Palumbo –Costumi : Anna Coluccia Luci : Gianluca Cappelletti – Musiche Originali : Stefano Switala Tecnico luci : Luca Carnevale

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