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La grande magia secondo Gabriele Russo. Tra realtà, fede e illusione

La grande magia è il testo del 1948 di Eduardo De Filippo che ha debuttato lo scorso ottobre al Teatro Bellini di Napoli e che arriva ora su altri palcoscenici nazionali per la regia di Gabriele Russo con protagonisti Natalino Balasso e Michele Di Mauro. Recensione

Foto Flavia Tartaglia

«Fu un coro. Un coro di disapprovazione.  […] Io avevo visto un paese sconvolto dalla guerra. Avevo visto che qualche cosa doveva cambiare. Eravamo tutti pieni di speranze, per una nuova giustizia sociale. Eravamo tutti pieni di fervore, per quello che poteva significare la nostra vita a venire. E, infatti, io collocai al centro della commedia i due personaggi, Calogero Di Spelta e Otto Marvuglia. Calogero Di Spelta, in questa commedia, ne La grande magia, è il borghese. Il borghese legato alle sue tradizioni, intimamente legato al conformismo: è un uomo che non vuole guardarsi assolutamente intorno, non vuole sapere di quello che succede». Dice così Eduardo De Filippo nell’introduzione all’edizione televisiva dell’opera nel 1964, è lui stesso a spiegarlo, seduto alla scrivania, in giacca e cravatta, dietro una libreria di grossi volumi a riprodurre l’interno classico di uno studio. Il titolo detto con un respiro come prima cosa, la mano sinistra con l’anello d’oro che si volge in avanti a plasmare la semantica gestuale, in un moto di ricerca di relazione esplicativa eppure arresa e che torna ad afferrare il mento, stringendolo tra il pollice e l’indice, le pause lunghe tra una frase e l’altra, gli occhi – in cui la lucidità dei riflessi all’iride pare quasi malinconica –  a fissare il vuoto, a tratti, a cercare i pensieri e farli concetti, a districarli tra le maglie della memoria e quelle della cronaca rielaborata dal processo di costruzione della poetica, a enunciare, nel prodromo, alcuni nuclei che riguardano quella che «è la commedia che forse mi sta più a cuore e che mi ha dato più dolore», per sottrarla all’evenemenzialità che ne decretò un’accoglienza difficile e consegnarla all’organicità di un processo drammaturgico forse sin troppo maturo per il suo tempo.

Se all’estero a partire dalla seconda metà degli anni Settanta La grande magia ha conosciuto diverse interpretazioni e letture, in Germania, Spagna, in Inghilterra, in Russia o in Francia – dove uno degli ultimi allestimenti nel dicembre del 2022 ha abitato il palcoscenico del Théâtre de la Ville per la regia di Emmanuel Demarcy-Mota – , in Italia resta insuperata e quasi unica quella di Giorgio Strehler del 1985, che la volle come terzo capitolo della “Trilogia dell’Illusione” insieme  a La tempesta di Shakespeare e L’illusion comique di Corneille, mentre è del 2013 quella di Luca De Filippo. L’operazione di Gabriele Russo decide quindi oggi di portare in scena un testo dell’autore napoletano tra i meno conosciuti e rappresentati nelle stagioni nazionali, che ha debuttato sul palcoscenico del Teatro Bellini nella seconda metà di ottobre e sino agli inizi di novembre, con le musiche e il progetto sonoro di Antonio Della Ragione, le scene di Roberto Crea e con Natalino Balasso e Michele di Mauro nel ruolo dei protagonisti. Della vicenda e del testo originale nulla si perde.

Foto Flavia Tartaglia

Calogero Di Spelta e sua moglie Marta vivono uniti in matrimonio la disunione di un legame smunto, consunto da silenzi e non detti, imploso sull’insoddisfazione e le tensioni disattese. Lui è irrigidito dalla mediocrità dell’insicurezza che lo porta ad essere geloso di lei, che non può fare a meno di trovare nel fotografo Mariano D’Albino il viatico di fuga da una dimensione così monolitica nella sua ordinarietà apparente da risultarle insopportabile. Nel giardino all’inglese dell’albergo Metropole se ne sono accorti tutti e ne fanno oggetto di conversazione, tra una partita di carte e l’altra. Sarà l’arrivo del professor Otto Marvuglia, illusionista il cui nome richiama già per assonanza il disordine di un garbuglio a un orecchio meridionale – ripresa degenerativa, evoluzione oscura e postuma del mago Sik Sik – , a innescare il meccanismo su cui si regge un gioco osmotico tra la verità dell’illusione e la finzione della vita, fra la concretezza di ciò che non si può e non si vuole vedere e la trascendenza delle cose più tangibili, tra la realtà della rappresentazione e la rappresentazione della realtà. Durante il suo spettacolo serale Marta entra in un sarcofago che la vorrebbe far sparire solo per qualche minuto e che invece, approfittando della circostanza e all’insaputa di Otto, la vedrà prendere il largo con l’amante per quattro anni. Per eludere le pressioni di Calogero che ne reclama la riapparizione, il professor Marvuglia, profeta del “terzo occhio, l’occhio del pensiero”, gli consegna una scatola in cui la moglie sarebbe rinchiusa e da cui solo la sua fede la potrà far uscire. Il povero borghese, quest’uomo comune, così granitico nella sua piccolezza e così labile nella moltitudine che figura e che lo abita, si trova perciò di fronte a un dilemma di sostenibilità dei fatti e del mondo che si trascinerà e lo condurrà sino al diniego finale.

Foto Flavia Tartaglia

All’ingresso in sala la prima sensazione è di un’immersione, l’impatto è quello acustico con quanto si può definire una vera e propria drammaturgia sonora: un tappeto melodico continuo ha il colore sinistro di una vacuità metaforica, la cui ridondanza è interrotta regolarmente da qualche battuta di pianoforte. Il sipario è già alzato sulla scena, a incorniciare una dimensione geometrica di verde-turchese in cui le piante significano il giardino dell’albergo e contornano le linee di una passerella metallica, sopraelevata da una rampa di sette gradini a sinistra divisi in due rampe corte ad angolo retto e una più lunga di otto gradini a destra, il cui riverbero prospettico è una panchina di ferro bianco in prossimità dell’arco di proscenio. Al fondo un pannello di velatino definisce oppure occulta, a seconda dei momenti, un ulteriore piano di ingresso e uscita: è il limen di attraversamento tra la verità di ciò che si cela e l’illusione di ciò che si scopre, la vita della fede e la morte della realtà. Questo quadro armonico di colori lucidi e vividi, anche nelle vesti dei personaggi, apre la prima crepa all’ingresso di Marvuglia e del suo carrozzone, costumi e struttura lignea di una bruna mistificazione la cui confusione e il cui trascinamento porterà progressivamente, nello svolgersi dei tre atti, l’asse cromatico dell’allestimento intero a spostarsi verso i toni del beige prima e del grigio poi; come per il disegno delle luci che vira dalla luce naturale a quella calda, sino al chiarore diafano di un bianco ottico che si incanala nel cerchio ambrato di un unico faro nella conclusione, puntato sulla platea a ricordare allo spettatore che è sua quella ferita, quell’offesa all’occhio, quella difficoltà di vista o meglio di visione, quella cecità credente e illusa, quella difesa orba che forse all’epoca di composizione del testo ne decretò il rigetto, l’insuccesso.

Il testo viene scritto dopo Filumena Marturano, Questi Fantasmi e Le bugie con le gambe lunghe e prima de Le voci di dentro, nel 1948. La prima messinscena (alcuni la datano per l’anno successivo al Mercadante di Napoli, ma se ne ricordano quattro repliche a Trieste nello stesso anno di composizione, in concomitanza con il malore di Titina che aveva fatto saltare le repliche di Filumena), resterà anche l’ultima da parte dell’autore, sino alla registrazione per la Rai. Critica e pubblico si trovano all’epoca concordi nell’accusa di stranezza, nel derubricarla come “un’opera sbagliata”, incongruente, e nel ravvisarvi evidenti tratti pirandelliani. Il 15 marzo 1950 Eduardo spiega nel numero 105 de Il Dramma: «Questo ho voluto dire, che la vita è un gioco, e questo gioco ha bisogno di essere sorretto dall’illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede. Ed ho voluto dire che ogni destino è legato al filo di altri destini in un gioco eterno: un gran gioco del quale non ci è dato di scorgere se non parti irrilevanti». A ben guardare, per quanto distonica potesse o possa ancora sembrare, La grande magia intercetta prima di altre, se non prima di tutte le altre, istanze non solo poetiche che appartengono e pertengono al massimo al teatro dell’assurdo (che esploderà nella decade successiva) più di quanto possano avere a che fare con il “pirandellismo”. Ancora l’autore nella registrazione di cui sopra: «Beh, pensai che un passo lo avevo già fatto e che finalmente potevo creare una frattura, non dico definitiva, ma abbastanza significativa, per quello che poteva essere un nuovo teatro, un nuovo linguaggio, da proporre al pubblico. Mi guardai un poco intorno, come faccio sempre, e affrontai questo soggetto, un po’ scabroso se vogliamo, un assurdo, che procede per simbolismi, certo.» La frattura di cui parla corrisponde a una slogatura epocale di senso, tra l’uomo, il tempo immanente, la sua storicizzazione e il progressivo svuotamento della percezione del sé in relazione ad entrambi. La dice, così misteriosa e così chiara, troppo presto, tanto in anticipo da farla diventare una slogatura con il pubblico cui probabilmente, soprattutto dopo le reazioni ai suoi lavori del primo dopoguerra, non era preparato. 

Foto Flavia Tartaglia

L’allestimento di Russo la restituisce attraverso una scelta registica che nella discrezione e nell’ortodossia del rispetto drammaturgico (ivi inteso in senso ampio e non meramente legato alla parola) non manca di voler apportare una chiave di lettura, la sua, che cerca la propria valenza in una dimensione quasi atemporale, che diviene contemporanea per un principio diacronico di eterno ritorno dell’uguale, valido per la storia quanto per l’approccio ai classici. Parimenti questa via non azzera, ma conferma, se non addirittura potenzia la connotazione magnetica e ombrosa dell’opera. La direzione di Russo, che da Strehler mutua l’idea di adoperare interpreti di provenienze geografiche e quindi inflessioni differenti, sottolinea i passaggi asfittici della traslazione di senso che innerva l’intera vicenda e lo fa in una architettura abbastanza equilibrata. Così è per la concezione visiva che si offre non solo come costruzione di spazio e luce, ma anche quale piano di scrittura del segno scenico, tanto nel gesto, quanto nelle singole azioni. L’esempio più esplicativo è quello della gabbietta che Marvuglia utilizza per far sparire l’uccellino durante lo spettacolo di magia e che in casa sua, nel secondo atto, svelerà a Calogero l’uccisione dell’animaletto, ridotto a una “poltiglia di ossicine, sangue e piume” nello scatto di chiusura tra fondo e doppio fondo. La prigione senza fuga è nella mente del protagonista, nelle sinapsi e nei pattern dell’uomo comune che pure non se ne avvede, nella sua ricerca logica e nella sua resa illusa, sembra dirci Russo, anche oggi, ancora oggi, se la gabbia finisce in testa a Calogero e la canna della pistola a celarne il rumore punta invece alla sua tempia. Parimenti vale per l’impianto sonoro che affianca alle sottolineature melodiche la costruzione di un’atmosfera organica a quella della parola, intesa come sostanza verbale e di senso. Una perplessità resta sulla disomogenea qualità della presenza interpretativa, che pare centrata su un’aderenza tra personaggio e lavoro attoriale per alcuni –  ne è un esempio puntualissimo Gennaro Di Biase – , ma disarticolata in esacerbazioni di “temperatura” per altre parti, quasi a compensare uno scollamento tra interprete, interpretazione e interpretato, che potrebbe necessitare di un ulteriore rodaggio performativo o di un più profondo lavoro di ricerca e modellamento.

«Non badiamo alla favola, […] questo adulterio puramente casuale è un pretesto per dire certe determinate cose. […] E il mio povero Calogero Di Spelta, con la sua scatola in cui aveva chiuso la sua fede, la scatola che gli aveva consegnato Otto Marvuglia, il prestigiatore, il propagandista dell’illusione… Il povero Calogero rimane solo […] con questa scatola in cui ci deve essere il suo passato, il suo presente e il suo futuro […]».

Marianna Masselli

Napoli, Teatro Bellini, novembre 2024

LA GRANDE MAGIA

di Eduardo De Filippo

regia Gabriele Russo

con

Natalino Balasso nel ruolo di Calogero Di Spelta

Michele Di Mauro nel ruolo di Otto Marvuglia

e con

Veronica D’Elia – Amelia Recchia

Gennaro Di Biase – Mariano D’Albino e Brigadiere di P.S.

Christian di Domenico – Arturo Recchia e Gregorio Di Spelta

Maria Laila Fernandez – Signora Marino e Rosa Di Spelta

Alessio Piazza – Gervasio e Oreste Intrugli (genero Di Spelta)

Sabrina Scuccimarra – Zaira (moglie di Marvuglia)

Manuel Severino – Cameriere dell’albergo Metropole e Gennaro Fucecchia

Alice Spisa – Marta Di Spelta e Roberto Magliano

Anna Rita Vitolo – Signora Zampa e Matilde (madre Di Spelta)

scene Roberto Crea

luci Pasquale Mari

costumi Giuseppe Avallone

musiche e progetto sonoro Antonio Della Ragione

foto Flavia Tartaglia

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Biondo Palermo, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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