Intervista a Tanya Beyeler, regista e drammaturga di El Conde de Torrefiel. La compagnia di Barcellona è presente a Roma con un focus dedicato all’interno del festival Short Theatre 2024.
Incontro Tanya Beyeler in una video call di mezza mattina, in questi giorni El Conde de Torrefiel è a Roma per il focus Prisma 2024. Qui una serie di opere, installazioni, talk, masterclass e spettacoli della compagnia fondata del 2010 da Pablo Gisbert e Tanya Beyeler sono disseminati nel programma di Short Theatre curato da Piersandra Di Matteo (a questo link la recensione dell’opera partecipativa Se respira en el jardin como en un bosque vista al teatro Cometa Off). Tanya mi spiega che il giorno successivo comincerà l’allestimento del più atteso tra i loro lavori ULTRAFICCIÓN NR. 1 / FRACCIONES DE TIEMPO, un montaggio che, viste le condizioni tecniche dello spettacolo e l’uso delle proiezioni all’aperto, necessita di un lavoro notturno. Nella nostra conversazione parliamo delle origini della compagnia, dei giovani artisti e dello spettatore, entità verso cui Beyeler e Gisbert rivolgono incessantemente il proprio sguardo e la propria ricerca.
Sei nata a Lugano, in Svizzera, a un certo punto te ne sei andata in Spagna e hai fondato insieme a Pablo Gisbert una compagnia teatrale che poi è diventata, tra quelle d’avanguardia, una delle più importanti a livello internazionale. Com’è successo?
Mia madre è spagnola. Dunque c’era una necessità di tornare a quell’origine che lei aveva lasciato. Sono partita e a Barcellona ho iniziato a studiare teatro. Era il 2001, Pablo l’ho conosciuto nel 2008 perché ci siamo ritrovati a lavorare per la stessa compagnia, che era la Veronal di Marcos Morau. Pablo e Marcos vengono dalla stessa cittadina, dallo stesso paese. Sono molto amici.
Avete collaborato anche per Firmamento di recente…
C’è un testo di Pablo. Mai è da anni che non collaboriamo con la Veronal, non per mancanza di voglia, ma per mancanza di tempo perché Marcos va a una velocità di creazione strepitosa. E noi abbiamo un’agenda molto intensa che non ci permette in questo momento di collaborare, ma stiamo parlando comunque di carriere artistiche iniziate insieme, veniamo dallo stesso posto e c’è un legame molto intimo. Immaginiamo che in un futuro ci si possa ritrovare e fare qualcosa insieme.
Per tornare alla nostra origine: nel 2008 ci siamo ritrovati, io e Pablo, nel lavoro di fine corso di Marcos all’università. Marcos da subito ha iniziato a puntare professionalmente e abbiamo lavorato con lui fino al 2015. Già nel 2010 io e Pablo, che venivamo da una formazione piuttosto teatrale, avevamo deciso di dar vita al progetto de El Conde de Torrefiel, che in qualche modo era un progetto che Pablo già aveva quando era studente di teatro e che utilizzava per portare in scena piccoli lavori in luoghi alternativi della città.
Da dove arriva il nome El Conde de Torrefiel?
Torrefiel è un quartiere di Valencia, ma il Conde di Torrefiel è anche un titolo nobiliare, della zona da dove viene Pablo, a 15 chilometri da dove abitiamo noi. C’è il castello del Conde di Torrefiel, ed è il nome della strada dove lui è nato.
Con Pau Palacios di Agrupación abbiamo parlato dei primi 10-15 anni degli anni 2000, quando a Barcellona nascevano numerose compagnie, tanti artisti che poi sarebbero diventati importanti. Qual è la situazione adesso lì? Ora, almeno da fuori, non sembra esserci la stessa vitalità.
Ora è più difficile per i giovani; dappertutto, non solo a Barcellona, perché c’è stato un processo di industrializzazione dell’arte, quella contemporanea e anche di quella d’avanguardia. Inoltre si avverte anche la mancanza di spazi di sperimentazione ed è veramente una questione strutturale. Le politiche culturali attuali sono in relazione con le politiche e il pensiero politico del tempo, dunque se adesso ogni impostazione è orientata verso l’economia del profitto, un’economia dei tempi corti, dei tempi stretti, del risultato immediato, ovviamente questo emerge anche a livello culturale. I giovani hanno bisogno di spazi, dunque nel momento in cui tutti gli spazi sono capitalizzati, monetizzati e bisogna pagare per tutto, diventa molto difficile creare con totale libertà, senza la pressione del tempo.
Le urgenze della produzione non aiutano la creazione artistica, che invece necessita una processualità molto lenta, molto delicata. I giovani si sentono sotto costante stress, specialmente nelle grandi città dove gli affitti sono carissimi, mangiare è caro, per avere una vita sociale bisogna pagare tutto. Ai miei tempi io uscivo senza un soldo di casa e mi divertivo tantissimo, adesso tutto ha un costo. Dunque non penso che sia un problema dei giovani artisti, ma proprio un problema strutturale a livello sociale.
D’altronde hai descritto quello che è successo anche in Italia, nelle grandi città come Roma, dove fino a qualche anno fa esistevano centri culturali e centri sociali che permettevano di sperimentare a costi molto bassi, e ora sono pochissimi. L’assenza di politiche culturali mirate ha creato il deserto.
Non voglio essere ingiusta però, bisogna anche aggiungere che Barcellona è una delle poche città spagnole che ha delle strutture istituzionali, soprattutto a livello municipale. Vengono offerti degli spazi con delle buone condizioni: comodi, accessibili, abbastanza democratici, sono spazi di creazione. Poi ci sono le residenze, i bandi, i premi, gli aiuti per i progetti di ricerca, cose che in altre città spagnole non ci sono. Mi sembra che i progetti dei giovani funzionano quando riescono a unirsi, a farsi collettivi. Ultimamente invece la fascia tra i 30 e i 40 si sta spostando nelle città più periferiche, o addirittura in campagna, dove stanno attivando delle realtà artistiche fuori dai centri urbani o metropolitani. Questo ha generato risultati molto interessanti, come dei progetti con una vocazione territoriale, in collaborazione con le comunità locali ma con la vocazione dei linguaggi del contemporaneo, attraverso nuove forme del pensiero, in dialogo tra passato e futuro.
Poi ci sono i cambiamenti epocali della società: il rapporto con la realtà e con l’auto-narrazione ha raggiunto un punto che prima era impensabile. E questo, secondo te, può influenzare poi la creazione artistica, soprattutto da parte dei giovani?
Secondo me lo sta già facendo. Il linguaggio è già cambiato, anche il linguaggio fisico, a causa della relazione con gli schermi. Il nostro modo di prendere un bus, di prendere una metro, di relazionarci con qualcuno a un tavolo è cambiato con l’uso dei dispositivi. E questo è un mondo che solo le nuove generazioni potranno dominare, anche dal punto di vista dei linguaggi artistici. Non è un compito della nostra generazione tradurre queste questioni dal punto di vista artistico, incorporarle nelle narrazioni, negli artefatti teatrali. I nostri sono forse piccoli spunti, ma è un lavoro che verrà fatto dalle nuove generazioni e per questo bisogna ascoltarle.
In ULTRAFICCIÓN NR. 1 / FRACCIONES DE TIEMPO (in scena 13 e 14 settembre a Short Theatre) una delle prime frasi che si leggono nelle scritte proiettate è la seguente: “Ciò che vedrete e ascolterete qui è reale. I luoghi e le persone sono reali. Nulla è stato inventato”. Qual è il vostro rapporto artistico con la realtà? Quale relazione cercate, tramite il vostro teatro, con la realtà?
Siamo professionisti della fiction, professionisti dell’artefatto, professionisti della rappresentazione e dunque ne conosciamo i meccanismi. Gli strumenti dello spettacolo si sono democratizzati, anche per mezzo dei social, come dicevamo prima: ognuno è performer della propria vita, la rappresenta su questo palcoscenico che è lo schermo e il proprio account; tu performi la tua vita, sei tu a decidere l’estetica, la narrazione. D’altronde, la politica è sempre più “drammaturgica”, ogni cosa è controllata e diretta dal punto di vista della comunicazione. Il teatro è il tempio della creazione, è la prima espressione umana della rappresentazione, è il primo gesto dell’umano per narrarsi, per rappresentarsi e noi artisti non possiamo non riflettere sulla dualità tra realtà e finzione, dato che viviamo in una realtà in cui il progresso è arrivato a un livello tale per cui si sono innescati tanti processi artificiali.
Come descriveresti il linguaggio a cui siete arrivati in ULTRAFICCIÓN: la relazione così forte che cercate con lo spettatore, l’assenza del performativo incarnato in un attore o in un performer. Pensate al vostro lavoro ancora in termini teatrali?
Assolutamente sì, in quanto rispettiamo le convenzioni nonostante cerchiamo di spostare i limiti. La cornice di lavoro è sempre data dalle condizioni teatrali, noi lavoriamo molto con la parola, poi ovviamente utilizziamo strumenti e dinamiche della danza o del cinema o delle arti visive, ma tutto avviene sempre dentro la cornice delle condizioni teatrali. ULTRAFICCIÓN è forse l’espressione massima di un’idea su cui lavoriamo sin dall’inizio, per la quale il vero palcoscenico è la testa dello spettatore e dunque tutto accade, tutto prende un senso finale, solo in colui che assiste. Lavoriamo per generare la possibilità di uno sguardo interiore (un nostro spettacolo del 2022 si chiamava Un’immagine interiore), parliamo della possibilità di un’implosione. Dunque, nonostante il teatro sia un atto condiviso, la percezione è un processo interiore e il risultato è individuale, personale. Per questo utilizziamo un testo proiettato, perché richiamiamo così l’esperienza della lettura dei libri. Ognuno legge con la propria voce e dunque in qualche modo questo rappresenta già un processo individuale, in quanto non c’è la mediazione di un attore con la propria voce, la propria sensibilità e il proprio corpo. Naturalmente noi dirigiamo il messaggio attraverso la musica e la composizione scenica ma la vera scena per noi non è sul palco, è nella mente.
Ti faccio un’ultima domanda proprio a proposito del nostro essere spettatori e spettatrici: quali sono stati gli spettacoli per te (e in generale per El Conde) fondamentali, cioè quelle opere che vi hanno influenzato e impressionato in qualche modo.
Ricordo per esempio uno spettacolo che mi aveva colpito tanto e che sono andata a vedere quattro volte quando avevo 19 anni, era Hamlet di Peter Brook, fu un’esperienza estetica molto potente per me. Poi ci fu uno spettacolo di Daniel Veronese a Buenos Aires: il suo modo di fare teatro, di muovere gli attori, di attivare il testo mi era sembrato incredibile; Rodrigo Garcia è stato fondamentale, specialmente per Pablo, per il modo di scrivere in scena, di lavorare con gli attori. Poi non possiamo non citare Romeo Castellucci, che ha scritto un pezzo fondamentale nella storia del teatro. Ricordo nel 2007 la première di Hey Girl, la mia prima esperienza con il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio.
Poi c’è da dire che abbiamo lavorato per circa 4 anni, dal 2008, come maschere, al Mercat de les Flors. Lì abbiamo visto di tutto, tantissimo, ho visto Kontakthof di Pina Bausch, ed è stato incredibile, erano gli anni in cui i grandi nomi avevano grandi capacità creative e i budget erano a servizio della creazione. Questo livello altissimo, di spettacoli internazionali provenienti da tutto il mondo è stato per noi una scuola importantissima per capire proprio come funziona la relazione con lo spettatore. Ricordo uno spettacolo di Israel Galvan che ci ha lasciato pietrificati, era uno spettacolo di flamenco e forse non era neanche perfetto, ma l’energia che veniva convocata sulla scena era unica, comparabile a quella sprigionata durante un concerto dei Sex Pistols negli anni ‘70. Parlo di qualcosa di veramente speciale, è una sorta di magia del palcoscenico, non accade spesso, ma quando accade è un’emozione veramente forte e l’obiettivo dunque per noi è quello di generare emozioni così intense o esperienze così astratte che possano spostare il pubblico dalla quotidianità.
Hai citato una serie di artiste e artisti in grado di creare immaginario anche se con poetiche e modalità diverse tra loro…
Ognuno ha il proprio linguaggio, i suoi modi, le sue forme e strategie, il proprio temperamento, però c’è una cosa che accomuna tutte queste esperienze: una questione energetica, si tratta di qualcosa che accade nella presenza, è qualcosa di unico, non ha una forma, è un fatto.
Andrea Pocosgnich