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HomeArticoliDanzare l'affresco umano. Intervista a Marta Ciappina

Danzare l’affresco umano. Intervista a Marta Ciappina

Intervista a Marta Ciappina, danzatrice, coach, pedagoga, Premio Ubu 2023 come miglior performer.

Ci incontriamo nel giardino di un bar romano, un primo pomeriggio ormai assolato. Marta Ciappina, danzatrice, coach, pedagoga, Premio Ubu 2023 come miglior performer, è una creatura appartata per scelta. Eppure la sua presenza, in scena e fuori, è rilucente, nitida. Mi accoglie con un quaderno e una matita in mano, disegnerà a lungo durante la nostra conversazione, perché, dice “ho bisogno di vedere i segni e le parole sulla carta”. Necessità di precisione, tentativo di fermare con più mezzi qualcosa che è effimero, e che si ritrova nella sua poetica e nella sua multiforme pratica di artista. Appena arrivata dopo aver tenuto una lezione, partiamo proprio da questa necessità di trasmissione tra diversi linguaggi.

Marta Ciappina. Foto Andrea Macchia

Ritieni che ci siano dei codici più adatti di altri a raccontare la complessità della danza?

Come ricercatrice, la messa a fuoco del linguaggio è la mia dolce ossessione. Mi sono avvicinata alla scrittura per bisogni didattici. Ho iniziato a mettere a punto un lessico che procede per enunciati molto brevi e incisivi, quasi degli slogan e istruzioni da consegnare agli allievi, come un coagulo tra due registri linguistici molto diversi, che rispondono da una parte al tentativo di un’aderenza anatomica, dall’altra alla possibilità di creare delle fughe, facendo breccia non solo nei muscoli e nelle ossa ma anche nell’immaginazione degli allievi e delle allieve.
L’istruzione si appoggia sempre su un piano di concretezza anatomica, si adatta sul corpo, ma la seconda parte dell’enunciato è molto più immaginifica e metaforica. Per esempio, se chiedo che “lo sterno spicchi il volo”, quella richiesta impossibile vorrebbe portare a immaginare una forza verso l’alto. Si tratta di un azzardo linguistico, di una “fanta anatomia” che dichiaro fin dall’inizio.

Come si può trasmettere la danza?

Sto cercando di mettere alla prova una didattica che non includa al suo interno diversificazioni tra danzatori/danzatrici, attori/attrici. La trasmissione della scienza somatica è affidata al suono della mia voce, le istruzioni scorrono seguendo l’andamento di un dettato. La mia figura non si propone mai come un modello a cui aderire attraverso un processo di mimesi.

Fortunatamente in molti contesti si è superata la distinzione rigida tra danza e teatro, sebbene altrove sia faticoso farli percepire come una più ampia e ibrida possibilità espressiva. Tu spesso hai lavorato anche in lavori di “prosa”. Quali sono le strategie per superare i confini dei linguaggi?

Bisogna lavorare in maniera sistemica, e tutto parte dalla formazione. Per me questo tentativo è già in atto in diversi focolai, piccoli o grandi. Questa visione è nel piano didattico delle accademie europee, ma è già acquisita in diverse scuole di formazione italiane. Per esempio, nella scuola del Piccolo, dove insegno, questo già avviene: Carmelo Rifici, direttore didattico della scuola, ha pienamente compreso quanto sia dirimente la frequentazione del corpo nella quotidianità di un attore e di un’attrice. Tutti coloro che si diplomano lì sono dei mover sensazionali, hanno una consapevolezza corporea commovente. Non è uno scardinamento intellettuale che può essere fatto ex post, ma è un abbattimento che deve essere compiuto sul campo a partire dai primissimi anni di formazione.

Marta Ciappina. Foto di Michela Di Savino

E dal punto di vista di chi guarda?

Nel senso di poter consegnare delle chiavi di accesso a chi assiste, in modo che spalanchi lo sguardo e non faccia distinzioni? Questo è più complesso. Credo sia giusto che esistano delle cornici all’interno delle quali i professionisti possano posizionarsi. Però i sincretismi poetici diventano evidenti in molti spettacoli. Gli anni, lo spettacolo che Marco D’Agostin ha scritto per me è la sintesi degli ultimi frammenti di questa nostra conversazione: il corpo entra nel racconto e il racconto entra nel corpo senza riuscire a distinguere se ci sia un’origine o una foce comune.

Dov’è che per te un movimento inizia a definirsi come movimento danzato, quasi un grado zero?

Da un gesto totalmente affidato al caso, il movimento comincia a disciplinarsi – questa è una manovra concreta dei danzatori e delle danzatrici ma non solo – e si identifica in tre fasi costitutive: la genesi, la proiezione e l’epilogo. La qualifica di queste tre fasi mette a punto l’enunciato. Nella migrazione di un gesto affidato al destino, che ha una dignità e una bellezza che devono essere celebrate, a una scrittura che non è più virtù dell’ebbro abbandono, ma che è consapevole: così nasce per me il movimento danzato.

Foto Claudia Pajewski

Tra invenzione pura e tecnica, tra codici narrativi e astratti: qual è l’equilibro che deve o può assumere chi danza?

Ti parlo dalla prospettiva dell’interprete che deve negoziare con la poetica dell’autore o dell’autrice, le cui scelte sono sempre interconnesse. C’è una quota creativa sconfinata che il performer mette a disposizione, ma che è guidata, mediata, suggestionata dall’inventiva di chi crea. La visione di chi danza non deve mai prendere il sopravvento, il suo nobile compito è quello di realizzare l’idea di qualcun altro. La genesi di questo processo si annida nell’intuizione primigenia del creatore/creatrice che pungola l’intuizione del performer e l’esito dell’incontro tra intuizioni è il codice che si viene a forgiare con sempre maggiore precisione nel tempo. Il coreografo o la coreografa definiscono la propria specificità, la propria poetica, il proprio panorama anche grazie a una frequentazione assidua con determinati interpreti.

Come scegli i progetti a cui aderire?

Non sempre si può scegliere, soprattutto agli inizi di un percorso. Adesso, dopo anni, ho una rete di contatti che mi permette non tanto di scegliere quanto di dialogare con gli autori e le autrici. Quelli con Marco D’Agostin, Alessandro Sciarroni, Michele Di Stefano sono incontri che, per durata, hanno le sembianze di una relazione amorosa. Credo che a un certo punto si tratti di una chiamata vicendevole. Comprendo a posteriori che percorso sto tracciando, quando già è emerso, non credo che le mie siano tappe scandite da un processo squisitamente razionale. Ci sono delle poetiche alle quali non potrò mai aderire e altre di cui subisco il fascino e quindi è a loro che mi rivolgo. Cerco cornici familiari, pur con tutte le criticità che implica quella dimensione, ma credo che sia una condizione molto vivace, un luogo di estrema libertà. La familiarità con un autore mi permette di mollare del tutto gli ormeggi. Il giorno dopo l’Ubu, di ritorno da Bologna ho confessato a Marco (D’Agostin, ndr) una sottile infelicità, come se con quel riconoscimento si fosse concluso un capitolo, e da quel momento ho iniziato lentamente a sognare una festa di addio alle scene. L’Ubu è arrivato per Gli anni, ma di quello stesso periodo è anche Op.22 n.2 di Alessandro Sciarroni: entrambi, con lo stesso peso specifico, sono stati dei punti di non ritorno che hanno richiesto uno scavo così minuzioso tanto da non riuscire a immaginare un altro lavoro in grado di chiamarmi in causa con queste profondità. Però poi ho rovesciato il pensiero e ho pensato che si può rimanere in superficie e danzare il mio funerale!

E questa fatica non c’entra con il sistema danza italiano attuale?

Sento di essere in una posizione privilegiata, perché mi trovo ai margini di quel sistema… collocazione che ho scelto sempre io e che ritengo nobilissima, perché mi permette di potermi stagliare verso l’alto. Chiaramente analizzo, osservo, ho un mio pensiero critico, ma ho deciso di non farmi strangolare dalle complessità, che sono enormi e che sento, ma di riflesso. Sono sempre più scarni i luoghi, i festival in cui presentare i propri spettacoli. Nel mio piccolissimo alveo ho visto dimezzarsi le date delle produzioni nel giro di quattro anni.

Marta Ciappina. Foto di Michelle Davis

La danza è per te adatta a raccontare il contemporaneo?

Il corpo è un ottimo medium per raccontare l’attualità. Le compagnie di danza di due o più componenti sono già delle micro comunità. Ancora prima della performance già la sala prove restituisce e racconta fortemente la contemporaneità. Per me non è solo un luogo di passaggio, di formazione, di creazione dello spettacolo, ma un luogo vivo, è già uno spaccato dell’attualità nelle relazioni tra corpi, tra umani. Poi la danza può raccontare l’attualità affacciandosi a temi politici, civili: non credo che debba diagnosticare l’attualità, ma esserne il sintomo.
Ho notato che tutte le volte in cui c’è un pensiero curatoriale, in cui siano state pensate delle attività satellite prima, dopo, attorno allo spettacolo, la cittadinanza si senta fortemente richiamata. Credo bisogni riflettere attorno al tema della noia, all’incapacità di avere pazienza, la questione legata al cellulare dovrebbe essere trattata al pari delle sigarette in sala. Però delle mirate politiche culturali, anche molto piccole, possono bussare alle porte della cittadinanza che allora si sente chiamata in causa. Penso per esempio al progetto di Michele Altamura a Terlizzi (Vivaio – Coltivare teatro in città, ndr), dove vengono organizzati dei pullman per gli spettatori, che li accompagnano e che permettono di avere le pupille già allenate allo spettacolo; così quindi lo spettacolo scivola bene, si crea un’alleanza tra chi vede e chi agisce.

Ricordi uno spettacolo che ti ha segnato come artista e come spettatrice?

Ti rispondo andando molto lontano e penso allo spettacolo che poi mi ha permesso di mettere a fuoco l’educazione che volevo affrontare come danzatrice, quando ho compreso che volevo seguire il modello Trisha Brown: uno spettacolo di Ariella Vidach a Milano, in una rassegna sull’Adda. Lei è stata tra le prime ad introdurre il digitale nella danza, dopo Lucia Latour.
Era uno spettacolo sui pagliacci: lei, tutta pitturata di bianco con il petto scoperto e dei pantaloncini a palloncino, cominciò a scrivere una tessitura di movimenti assolutamente impeccabile, che si distinguevano con un nitore lampante. Io, che già avevo una vocazione maniacale per il dettaglio, ho compreso che volevo diventare quel tipo di danzatrice, almeno per quanto riguardava l’alfabeto che volevo indagare, ma che ancora non avevo pienamente focalizzato. A partire da quello spettacolo sono riuscita a tracciare la trama dei miei anni di formazione, ho compreso che avrei voluto avere una formazione americana. Volevo mettere a punto quel tipo di mobilità e ho capito quali erano i luoghi in cui volevo studiare. Ero appassionatissima di tecnica Graham ma poi mi sono resa conto che la sua grammatica non avrebbe potuto forgiare dei corpi attuali, e dunque ho dovuto “tradirla” mio malgrado. Adesso, in quanto danzatrice, pedagoga e coach, posso dirti che quello che mi appassiona è il cambio di lenti nell’osservazione; indossare quelle giuste in base al contesto, o non usarle per nulla, come talvolta è richiesto quando si è interpreti.

Viviana Raciti

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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