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Il teatro deve vivere in un mondo immaginifico. Incontro con Claudio Collovà

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Intervista all’attore a regista Claudio Collovà (anche direttore artistico di Segesta Teatro Festival) impegnato a Palermo nel progetto di ricerca  e formazione Area Madera

In foto Claudio Collovà. Ph Stefania Mazzaro

«Pensa, mio padre era un falegname». Si percepisce ancora, a Piazza Magione, un persistente residuo medievale. È nei suoi pressi che Claudio Collovà, assieme all’attrice e cantante Miriam Palma e alla danzatrice Alessandra Luberti, ha fondato Area Madera nei locali di una vecchia falegnameria – “madera” significa “legno”, in spagnolo. Questo luogo, «un posto meraviglioso, pieno di luce e di silenzio» è ancora una bottega. Ma qui non si creano più mobili o suppellettili. Qui si pratica l’arte dell’attore: «Io sto con venticinque ragazzi che stanno lavorando con me da mesi, e sto lavorando su qualcosa che vorrei nascesse, di cui sento l’urgenza di parlare. In tranquillità. Non c’è nessuno che ci dice “è finita”, non c’è nessuno che ci dice “dovete fare questo, dovete fare quello”, non c’è un pubblico che ci aspetta. Stiamo imparando a vivere questo mondo che sta nascendo e sta affiorando, lentamente». La mia visita ad Area Madera è stata successiva a una conversazione avvenuta qualche giorno prima. In quella occasione il regista e attore palermitano aveva dialogato con noi sulla sua idea di teatro, legata a quel sentire poetico e pittorico della scena e del dramma riscontrabile nelle sue regie nazionali e internazionali; tra le altre ricordiamo Miraggi Corsari da Pasolini, Fratelli di Carmelo Samonà, La caduta degli angeli dai Drammi celtici di W.B. Yeats, Hamlet Album de Familie da Müller e Shakespeare, rappresentato a Bucarest e in Italia in lingua rumena per il Teatrul Mic (Piccolo Teatro), uno studio sul Woyzeck di Büchner al Wihelma Theater di Stoccarda, poi prodotto a Budapest in lingua magiara con il Maladype Szene al Thalia Teater. Di seguito la nostra discussione.

Cassandra di Christa Wolf, prod. INDA, 2019. Foto di Franca Centaro

In una recente intervista, hai sostenuto che fare teatro fosse una scelta assoluta e necessaria. Mi vorresti spiegare cosa intendevi?

Perché, l’alternativa quale sarebbe, l’intrattenimento? Senza nessun afflato e relazione emotiva con l’oggetto della tua ricerca? La ricerca costa fatica, e far nascere un percorso costa anche in termini di tempo tanta fatica. Estrema necessità ed estrema dedizione al proprio percorso e alla propria ricerca significano onestà, cioè che riconosci e definisci i tuoi riferimenti in maniera molto chiara, escludendo tutto il resto. Un po’ come dice Rilke, bisogna imparare a vedere. Se tu impari a vedere, selezioni già col tuo sguardo quello da cui tu sei interessato, ma non soltanto: quello a cui sei emotivamente attratto senza rimedio. Altrimenti cominci a essere disonesto e la disonestà nella creazione artistica è un problema che può far male.

Ogni qualvolta levo gli occhi dal libro da Rilke, prod. Orestiadi, 2014. Foto di Nino Annaloro

I tuoi riferimenti sono eterogenei: letteratura, arti figurative, danza. In che modo la loro commistione, per te, diventa teatro?

Non sono molto interessato al teatro scritto, al teatro con i personaggi a sinistra e le battute a destra. A meno che non si tratti di Shakespeare o di rari altri casi, che hanno a che fare col mondo artigianale del teatro, non ne sono attratto perché mi diverte poco. In un romanzo il paesaggio viene descritto come nel cinema, è uguale. Il cinema te lo fa vedere, la letteratura te lo fa vedere: non c’è differenza alcuna. Il teatro “scritto” non te lo fa vedere, o meglio, te lo fa vedere solo in un’ottica funzionale. La letteratura ti lascia la libertà di indagare, di immaginare, di prelevare anche dialoghi non scritti ma che tu desumi dal testo. Per quanto riguarda la pittura, poi, è in grado di creare uno stato di sospensione e di contemplazione pazzesco. Penso a Hopper, Bacon, Goya, ma anche a Bosch: moltissimo mio lavoro è basato su Bosch. Ci sono pittori che hanno un immaginario molto più forte del tuo, e si tratta non di riprodurli in scena, ma di capire come siano arrivati a quelle soluzioni. Ad esempio Fratelli era tutto costruito sull’immagine di disequilibrio degli uomini di Bacon seduti o in piedi. Naturalmente non esiste mai un solo riferimento, ma possono essere tanti e correlati tra di loro. Quando diventano i tuoi materiali è bellissimo. Molto più bello che lavorare a un copione teatrale, già dato da qualcun altro. Ma stare sulle mille pagine di Joyce o Céline (qui la recensione) significa che per un anno tu vivi, stai in quel mondo lì. Non è una cosa che prepari in poco tempo.

Woyzeck di Buchner, prod. Maladype Szene Budapest, 2008. Foto di Laszlo Janeck

Dunque ricerchi anzitutto un’immagine evocativa. Un’impressione poetica

Ho un rapporto col mio materiale che è emotivo, mai intellettuale. Succede che non sei tu che scegli ed escludi, ma è inevitabile per te imbatterti, anzi inevitabilmente ti imbatti, nei tuoi riferimenti, quasi sono loro a venire da te. Per alcuni scrittori che sono stati oggetto della mia ricerca, come Eliot e la sua Terra Desolata, è stato il loro immaginario a farmene poi conoscere il pensiero. C’è una poesia immaginativa, o forse più una poesia che basa la sua forza sulle immagini, e non è di tutti i poeti. Eliot è come Tiresia, testimonia le cose che avvengono nei paesaggi urbani. Quando lui dice “Una gran folla fluiva sopra London Bridge, così tanta che io mai avrei creduto che morte tanta n’avesse disfatta” è un’immagine forte, è l’uscita degli operai dalla città di Metropolis. Le connessioni tra le cose sono infinite, ma non mi vengono, credimi, per erudizione, mi vengono perché sono stato concentrato solo su alcune cose e non su tutto. L’onestà è tutta in questo procedere. Per me ciò comporta il rifiuto della mimesi. Le rappresentazioni che replicano la realtà mi annoiano, perché pongono il pubblico davanti all’artificio di una narrazione fittizia. La realtà è già fuori, basta uscire di casa per vedere una realtà sicuramente più forte. Il cinema può fare questo, deve fare questo. Ma il teatro deve vivere in un mondo parallelo più immaginifico. Dunque l’attore è chiamato a compiere un lavoro anche molto forte su di sé, come dicevano i maestri inascoltati del Novecento: non deve simulare la realtà esterna. Deve essere in quello spazio scenico, in quel luogo. C’è qualcosa di strano in questi esseri che vivono sulla scena.

Hamlet, Album de Familie, da Shakespeare, prod. Teatrul Mic Bucarest. Foto di Claudio Collovà

In che modo conduci l’attore in questa condizione?

Mettere l’attore nella condizione giusta, significa creare per lui un luogo che può essere anche accidentato. Non un luogo di comfort, ma un luogo di stress. Il lavoro parte sempre dal silenzio. Penso che le parole non siano il motore, ma arrivano quando il silenzio è diventato espressivo. L’attore sa che deve attendere, che non deve arrivare a conclusioni ovvie, ma deve avere la pazienza di crescere lentamente. È necessario che gli attori siano disposti ad abbandonare anche ciò che sanno. Ogni regia è un processo pedagogico nel senso più bello del termine, è una trasmissione reciproca di esperienze. All’inizio hai davanti una tela bianca, sulla quale cominci con cautela a tacciare i primi segni. Poi questi segni cominciano a prendere sempre più spazio e forma. Il teatro per me non è fatto di idee: un’idea escogitata a casa non ha senso durante il lavoro. Preferisco lavorare nella nebbia, non nella certezza. Per questo non ho mai detto a un attore come dire qualcosa. Piuttosto lo metto nella condizione di doverlo fare in quel determinato modo. Mi piace parlare di “viaggio” con gli attori, un viaggio che si intraprende senza sapere quale sia la meta da raggiungere. Poi c’è anche un’altra cosa: il personaggio desunto dal romanzo è un personaggio che dice delle parole, fa delle azioni. Io sono molto interessato al fatto che l’attore faccia quelle azioni in modo chiaro e dica quelle parole in modo altrettanto chiaro. E che, lentamente, questo attore ne senta anche una sorta di influenza emotiva. Ciò che fai, ciò che dici, a un certo punto crea attorno alle cose un senso più profondo. Questo non significa che l’attore è andato verso il personaggio, ma è proprio il contrario: è il personaggio che si è avvicinato all’attore, perché questo compie le sue stesse azioni, ne dice le stesse parole.

Fratelli di Carmelo Samonà – prod. Teatro Biondo, 2018. Foto di Nino Annaloro

Insisti molto sull’esigenza della lentezza, sulla necessità dell’avere tempo…

Noi adesso chiamiamo “maestri” artisti che in passato hanno potuto lavorare con altri tempi di produzione. La possibilità di lavorare in un ambiente tuo, per lungo tempo, è un fatto importante; ciò ha sicuramente aiutato Pina Bausch, Kantor con il suo ensemble e tanti altri. Tutti i grandi maestri hanno usato tempi che non sono quelli delle attuali produzioni di ventuno, ventotto giorni. Io preferisco guadagnare meno e avere più tempo. Se i costi si abbassassero, nel sistema teatrale italiano, si potrebbero allungare i tempi per studiare più in profondità le cose. Attualmente casa mia è Area Madera, un posto meraviglioso, un posto che abbiamo protetto dal teatro dove si fa teatro. È un luogo di serenità e di felicità, destinato a futuri artisti orientati verso la creazione. È bellissimo lavorare con chi vuole creare. Queste sono isole felici. Le isole meno felici sono il mondo circostante, legato al sistema teatrale. Tutto quel mondo là non riesco ad amarlo tanto, però esiste, pesante, pressante. Lo stato invece dovrebbe darci dei soldi e lasciarci in pace. [Sorride, fino a ridere] Ci dà un bel po’ di soldi e ci dice: ci vediamo l’anno prossimo.

Viaggio al termine della notte di Cèline – prod. Teatro Biondo 2022. Foto di Rori Palazzo

Lentamente, sulle note di Silence is sexy degli Einstürzende Neubauten, attori e attrici fendono lo spazio di Area Madera in un flusso di cui variano, per contagio, intensità e direzione. «Aiutate lo spazio!» dice loro Collovà «guardate, poverino, in quel punto non respira». Osserviamo come dal vuoto e dalla stasi gli interpreti imparino il moto e la voce. Il valore del silenzio, «questo elemento importantissimo», Collovà lo ha appreso da Antonio Neiwiller : «Da Antonio ho imparato che il silenzio è parola, è testo. Ogni azione non verbale è testo», ci aveva detto. Ora sono i suoi allievi e le sue allieve ad imparare da lui lo spessore quasi tattile del vuoto, introducendovi a piccoli passi i versi di Rilke. Nel tempo, col tempo, imparano tutti insieme ad andare incontro, in uno slancio di devozione e fiducia, alla parola e alla sua necessità. È così che forse nasce la poesia, ed è in questo sincero abbandono che scoprono al contempo l’onestà dell’attore e del poeta.

Tiziana Bonsignore

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