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L’immagine interiore e artificiale di El Conde de Torrefiel

Recensione. El Conde de Torrefiel visto al Festival d’Automne à Paris con  il nuovo spettacolo Una imagen interior

Foto C. Beauregard

La Grande Halle del Théâtre de la Villette è una sala scarna, oscura. Il palco è piazzato immediatamente di fronte alle gradinate, come dinanzi a uno schermo dal quale è impossibile distogliere lo sguardo. Al padiglione si accede per un corridoio apparentemente senza fine, che conduce all’entrata, piccola e sproporzionata rispetto al resto. L’edificio è imponente, simile nel suo scheletro al Covent Garden londinese; è straniante che questa architettura di vetro, colma di ristoranti e boutiques che rasentano il kitsch, possa contenere una sala aperta alla creazione teatrale contemporanea. Il sito su cui sorge il Théâtre ospitava in passato un antico mattatoio e un mercato di bestiame, abbattuto nel 1974 – di cui per l’appunto permane unicamente l’edificio della Grande Halle.

Foto Werner Strouven

El conde de Torrefiel, la compagnia fondata da Pablo Gisbert e Tanya Beyeler nel 2010 a Barcellona, si presenta a Parigi per la terza volta (dopo La Plaza e La posibilidad). L’ultimo lavoro di Gisbert-Beyeler, Una imagen interior, s’impernia sulla mise en abyme: la scena ricrea infatti un’esposizione museale, dove due uomini stanno issando una tela astratta, e dove successivamente entreranno i visitatori. Il tutto, mentre lo schermo che periodicamente cala ponendosi tra spettatore e scena, “parla” per i personaggi ma anche per il pubblico stesso, trascrivendone quelli che sono (i supposti) i pensieri («ora sarete scioccati, vi starete domandando quello che succede» ecc.). A proposito della tela, se all’inizio della pièce venga immediata l’associazione a un’opera pollockiana, alla fine dello spettacolo – quando la genesi della tela verrà ripetuta davanti al pubblico – la simmetria dei segni e delle forme permette un cambiamento di prospettiva: la tela assume la funzione di un’immagine di Rorschach, volendo suggerire a chi osserva di poter creare un’associazione libera. L’intera performance è spezzata in due, con l’intervento dello schermo a ritmare il passaggio tra le varie scene, e con i movimenti, i gesti, le simbologie, i personaggi e le loro linee di fuga sul palco. Infine, vi è il gioco di luci e suoni che “contiene” la scena. Non è un caso che, prima del debutto dello spettacolo, le maschere distribuiscano agli spettatori dei tappi antirumore: l’impianto audio della Grande Halle è difatti posizionato proprio di fronte alle gradinate, volto a stimolare – o piuttosto a sommergere – chi osserva schiacciandone in parte la funzione, impedendone il libero flusso di pensieri.

Foto El Conde de Torrefiel

Che cosa accade in scena? Che cosa si narra e perché in tale maniera? Il presupposto di Gisbert-Beyeler è palesemente la critica alla civiltà delle immagini, dell’industria culturale, della sovrastimolazione sensoriale e della conseguente anestesia che si propaga in coloro che fruiscono l’arte. Il mezzo tramite il quale i registi vogliono informare lo spettatore dell’apparato concettuale-teorico che fonda la performance è proprio lo schermo che interferisce continuamente per rivolgersi al pubblico. Quasi a impedir loro di “godersi” lo spettacolo perché il godimento a-critico è un sentimento sospetto, e forse supponendo che chi guarda non sia “aggiornato” sulla “società dello spettacolo“. Quando questo inizia, le casse risuonano di bassi profondissimi: il pannello cala, e la prima affermazione perentoria, nella sua banalità anche, è «siete a teatro». Nessuno si rivolge al pubblico se non i commenti dello schermo – un’allusione, forse alle audioguide dei musei. Di certo vi è che lo schermo è l’emblema della volontà del regista di poter utilizzare un dispositivo che è al contempo l’oggetto stesso della critica che costituisce l’idea di fondo della pièce.

Foto El Conde de Torrefiel

La costante delle cinque scene che si susseguono è la plastica di cui è interamente coperto il palco, volutamente appariscente (prima bianca poi rosa) e lucida. Con tutti i suoni che ne derivano, con il “sapore” che ne scaturisce, che rimanda a qualcosa di surrogato, come a un detersivo. La scelta di questo materiale è presto chiara: questa scena può assumere tutte le forme possibili proprio come la plastica, essa è un non-luogo – il supermercato, uno dei quadri in cui si ambienta la performance. Ma proprio questa insignificanza del materiale rende possibile ai registi detonarne le associazioni immediate al fine di provocare delle allucinazioni – com’è il caso, alla fine, quando i protagonisti si raccolgono attorno ad un falò evocante la potenza immaginifica dei sogni.

Nella presentazione che i registi hanno fatto per l’anteprima dello spettacolo al Festival d’Avignon, si parla di ultrafiction come metodo di lavoro della loro creazione. Con questo termine essi intendono «accumulazione di finzioni: sociali, culturali, politiche e geografiche che compongono l’habitat dell’animale umano». Essi dichiarano inoltre di volere suscitare nello spettatore un certo «malessere», e di permettergli, al contempo, di «osservare la costruzione dell’artificialità». Bisogna domandarsi: riescono nell’intento?

Foto El Conde de Torrefiel

Ora, se da un lato qualcuno afferma che questo spettacolo non voglia consegnare alcuna morale, che voglia situarsi in una zona neutra della comunicazione, noi sappiamo che oggi – proprio alla luce delle condizioni che lo spettacolo premette (la nostra dimensione di ipertrofia culturale) – nessun discorso può pretendere di salvaguardare una certa purezza di intenti. Certo, l’invasione e la seduzione di questo schermo che, nella performance, proietta continuamente frasi fatte e pensieri immediatamente digeribili è esso stesso, ambiguamente, un grido contro la commestibilizzazione del pensiero. Eppure, si rischia da un lato di esigere uno spettatore iper-emancipato per il quale forse una tale critica è inutile o pleonastica, in quanto già capace di riconoscere i piani di immanenza dialettica dei singoli dispositivi utilizzati dal regista; dall’altro, lo spettatore “comune” è invece tempestato da stimoli per i quali non è calcolato alcun tempo di riflessione possibile.

Artin Bassiri

Tutti gli articoli su El Conde de Torrefiel

Dicembre 2022, La Villette – Grande Halle – Le Festival d’Automne à Paris

Il trailer dello spettacolo Una imagen interior

Una imagen interior

Design and creation, El Conde de Torrefiel.
Creative and performance collaboration: Gloria March Chulvi, Julian Hackenberg, Mauro Molina, David Mallols, Anaïs Doménech, Carmen Collado
Staging and stage work, Tanya Beyeler, Pablo Gisbert
Text, Pablo Gisbert
Translation, Marion Cousin (french), Nika Blazer (english)
Stage design, Maria Alejandre, Estel Cristià
Lights, Manoly Rubio García
Sound, Rebecca Praga, Uriel Ireland
Building of the set, Los Reyes del Mambo, Isaac Torres, Miguel Pellejero
Sculpture, Mireia Donat Melús
Robot creation, José Brotons Plà
Technical direction et coordination, Isaac Torres
Sound and video manager, Uriel Ireland
Light manager on tour, Roberto Baldinelli, Guillem Bonfill, Isaac Torres, Uriel Ireland
Administration and production, Haizea Arrizabalaga

Produced by Cielo Drive SL
Broadcast by Caravan Production
Co-produced by Wiener Festwochen; Festival d’Avignon; Kunstenfestivaldesarts (Brussels); Centro de Cultura Contemporánea Conde Duque (Madrid); Festival Grec (Barcelona); Teatro Piemonte Europa / Festival delle colline Torinesi (Turin); Le Grütli – Centre de production et de diffusion des Arts vivants (Geneva); Points communs, Nouvelle scène nationale de Cergy-Pontoise et du Val d’Oise; La Villette (Paris); Festival d’Automne à Paris
With support from ICEC – Generalitat de Catalunya; TEM Teatre Musical de Valencia; Centro Párraga (Murcia)
Co-directed by La Villette (Paris); Festival d’Automne à Paris for productions at La Villette (Paris)

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Artin Bassiri
Artin Bassiri
Artin Bassiri Tabrizi (1992) ha studiato filosofia all’EHESS di Parigi (Master in Arts et langages). Dal 2021 è iscritto in un Dottorato di ricerca presso l’ACCRA di Strasburgo sotto la tutela di Stefan Kristensen. È al contempo diplomato in pianoforte al Conservatorio di Perugia, e ha svolto un periodo di ricerca tramite il progetto Daedalus: l’artista da giovane a Firenze, sotto la tutela di Alexander Lonquich e Cristina Barbuti. È stato segretario artistico del pianista Roberto Prosseda. Ha tradotto il libro di Boris Berman, Notes from the pianist’s bench per Curci. Collabora con le riviste Quinte Parallele, Gli Spietati, Philosophy Kitchen. I suoi temi di ricerca intrecciano la psicanalisi, l’estetica musicale e visuale e la letteratura. Insegna attualmente filosofia in un liceo parigino.

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