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Al via il festival di Teatro Akropolis, al centro la performatività

Testimonianze ricerca azioni è l’ormai storico festival ideato e organizzato a Genova da Teatro Akropolis. Arrivato alla 13° edizione si dispiega, fino al 13 novembre, su un programma in cui si alternano spettacoli, incontri, lezioni e proiezioni (come quelle del progetto cinematografico di Teatro Akropolis La parte maledetta).  Quest’anno inoltre il festival ritorna nella sua sede teatrale rinnovata. Abbiamo intervistato i due direttori artistici Clemente Tafuri e David Beronio.  Contenuto creato in media partnership.

Questa che sta cominciando è la 13° edizione del festival Testimonianze ricerca azioni, finalmente nello spazio ristrutturato, con quale pensiero avete lavorato sul rinnovamento dei luoghi?

DAVID BERONIO Lo spazio è stato ristrutturato con lo stesso pensiero con cui è stato concepito. Era un spazio che nella nostra idea di programmatori doveva andare incontro agli artisti, volevamo incontrare gli artisti, avevamo la necessità di vedere come lavoravano per incrociare le nostre pratiche con le loro. Per fare questo avevamo bisogno di una sala che potesse contenere il pubblico ma che fosse disponibile per il lavoro in sala; parliamo dunque della necessità di uno spazio ampio, non direttamente teatrale, ma che avesse anche la possibilità del performativo, della danza e in ultimo di un palco più classico, all’italiana. Tutto questo è diventato lo spazio attuale, con una gradinata telescopica progettata da una scenografo, Dino Serra, dunque con un lavoro legato alla visione artistica, alle necessità tecniche di una compagnia teatrale.

Che cosa significa fare direzione artistica oggi, nell’epoca dell’autorappresentazione? Voi ad esempio avete scritto “Forse, ora più che mai, è il momento di sfidare l’allucinazione di cui sembra essere preda il nostro tempo, che è quella di vedere sempre e soltanto il presente. È un’allucinazione pericolosa, fatta di istantaneità, fatta di immagini che incarnano ed esauriscono la realtà intera, fatta di iper-connessione e di iper-comunicazione.”

D. B. Sì e infatti abbiamo scelto una frase di Giorgio Colli: “il presente non esiste”. Dunque cerchiamo di sollevare ulteriormente questo problema e declinarlo nelle scelte artistiche, e questo vuol dire per noi non privilegiare certi filoni che spesso diventano i linguaggi del presente a discapito di codici che vengono percepiti come qualcosa di lontano. Per un’operazione di rimozione del secondo novecento teatrale alcuni codici sono stati allontanati, parlo ad esempio di Grotowski e Barba. Io non dico che bisogna fare il revival, ma avere uno spettro più ampio, che è quello che cerchiamo di fare programmando il circo, la danza, il teatro più vicino alla prosa o ai linguaggi sperimentali. All’interno di questa diversità si possono riconoscere delle direttive che rendono le scelte più omogenee. A noi interessano artisti che affrontano temi radicali e condivisi sollevati dalla scena, non importa lo stile con cui lo fanno, ma è la tensione verso il limite ad essere centrale. Questo è lo spirito con cui abbiamo lavorato anche sulla Parte maledetta, ovvero la possibilità di indagare questi temi filosofici e radicali attraverso il cinema, esplorandoli nelle poetiche degli artisti.

CLEMENTE TAFURI Le questioni filosofiche legate alla frase di Colli sono molte complesse e riguardano tra le altre cose il tema dell’inattualità, che evidentemente è un tema nietzschiano caro a Giorgio Colli. Per rifarci invece a un’attitudine più pubblicistica e legata al nostro tempo, la questione del presente che non esiste riguarda ciò che stiamo vivendo, ovvero un’epoca in cui tutto è mediato dalle forme di comunicazione, compresa l’arte. Forse il teatro allora può essere un momento che ci chiama a raccolta per capire questa crisi, per interrogarci su di essa; per un attimo possiamo intuire che quello che ci circonda non è esattamente quello che appare e l’arte ci chiama a questa responsabilità politica ed etica, come uomini, artisti e in questo caso come curatori.

Qual è il riflesso sulla realtà? Qual è allora il pensiero sul reale?

C. T. La performatività è un pensiero sul reale, profondamente legato alla realtà; invece è meno legato alla realtà il racconto della realtà, perché è una mediazione e intrinsecamente ha una dimensione morale, educativa. La performatività, passando attraverso altri codici, che non siano necessariamente quelli della parola, ci permette di aderire maggiormente a qualcosa che accade. E in programma quest’anno ci sono delle esperienze artistiche in cui questa riflessione è portata alle estreme conseguenze, la danza butoh è un po’ il correlativo di questo pensiero. Una delle vocazioni del butoh è la messa in crisi dell’individuo e del tempo che vive.

Gli incontri teorici, le proiezioni de La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro, gli spettacoli: ci sono dei fili che tengono tutto insieme, che tematicamente o linguisticamente tornano nella programmazione?

D. B. Abbiamo cominciato con un approfondimento sul teatro di figura, con il professor Alfonso Cipolla dell’Università di Torino, poi ci sarà Teatro Medico Ipnotico per rimanere nell’ambito della scena di figura… ci sono insomma dei temi e dei linguaggi che si ripetono, come per la danza butoh. Però anche in questo caso non è un vero e proprio filo rosso tematico. Io parlerei di un filo rosso poetico che riguarda la volontà di andare oltre ciò che si vede sulla scena, da qui il bisogno di incontrare gli altri, alcuni esperti, per creare un piano ulteriore per la crescita del pubblico e degli stessi artisti. È questo tipo di ragnatela di relazioni che ci interessa tessere ogni anno, e farla poi depositare anche grazie al lavoro editoriale.

C. T. Se dovessimo trovare un filo rosso potrebbe essere quello relativo alla performatività. Ovvero, una chiamata all’artista a dare una testimonianza della propria esperienza, questo ci guida nella scelta degli spettacoli e delle performance; cerchiamo di individuare qualcosa che esponga l’artista e la sua ricerca, anche nel momento della massima finzione e rappresentazione che è appunto la messa in scena.

Era del 2020, in piena pandemia, un’edizione del festival fatta di incontri online, in streaming. Cosa rimane di quell’esperienza?

D. B. È stata un’esperienza emergenziale in cui provavamo a riportare la nostra idea di festival senza gli spettacoli con il pubblico. A quell’epoca Teatro Akropolis era chiuso per i lavori dunque parliamo di un festival diffuso: io e Clemente andavamo nei teatri chiusi al pubblico, ma eravamo da soli e incontravamo online artisti e critici con cui intavolare dei discorsi, non si trattava dunque di fare spettacolo in streaming. Anzi, La parte maledetta nasce come risposta anche a quella necessità, ci siamo resi conto che se doveva esserci un supporto video al teatro allora doveva parlare il linguaggio del cinema, non volevamo un surrogato della scena da fare online.

La parte maledetta intesa anche come il distillato del lavoro dell’artista. Sembra che la sfida di questo ciclo di film sia quella di raccontare il teatro senza raccontare il teatro. Come siete arrivati a questo filone?

C. T. Ci interessava, e ci interessa, stare accanto agli artisti nel momento in cui distillano qualcosa che ha a che fare sì con la loro poetica ma che poi ha a che fare anche con la crisi. Massimiliano Civica (protagonista di uno dei film) a un certo punto ci dice che il teatro è sempre una finzione, è sempre un evento morto (da lì viene l’idea della tassidermia del film), però possono esistere momenti in cui veder comparire lampi di conoscenza, verità, di qualcosa di più profondo e non è detto che accada in scena, può accadere anche durante una prova o in una replica sperduta: e allora, qual è il valore di tutto il resto? Che fine fa tutto il senso che c’è dietro? Non c’è una risposta, però ci interessa, tra le altre cose, la messa in luce di questa crisi.

Redazione

Geova, 26 ottobre – 13 novembre 2022

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