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Sopravvivere su un pianeta infetto. Earthbound di Marta Cuscunà

Recensione. Earthbound di Marta Cuscunà, liberamente ispirato a “Staying with the trouble” di Donna Haraway prodotto da ERT Emilia-Romagna Teatro. Visto al Teatro Fabbri di Vignola.

Foto Guido Mencari

Nel saggio rivoluzionario di Donna Haraway Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (titolo originale Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, 2016) viene proposta, riprendendo e ampliando il pensiero di Latour, la definizione di Earthbound, i “Fedeli alla terra”, “coloro che raccontano le storie di Gaia”: geostorie che considerano attivi tutti gli organismi e gli attori terrestri e ripudiano l’antropocentrismo come strategia narrativa. Marta Cuscunà mette in scena, e alle estreme conseguenze, queste teorie nello spettacolo Earthbound, per l’appunto, prodotto nel 2021 da ERT Emilia-Romagna Teatro.

In una terra devastata dalla sovrappopolazione, dal cambiamento climatico, dalle radiazioni e dalle sostanze tossiche che infettano acqua e terra, una comunità di strani migranti abita quella che ai nostri occhi, sul palco del Teatro Fabbri di Vignola, appare come una biosfera che gira su sé stessa. Qui vivono gli Earthbound, che a questo stadio coincidono con l’invenzione narrativa di Haraway delle Camille: l’estremo tentativo di preservare, almeno geneticamente, la biodiversità e le specie a rischio d’estinzione incrociandone il genoma con quello umano; organismi simbiontici, innesti genetici nati ed evolutisi per abitare lo chthulucene, la nuova epoca che segue l’antropocene, il capitalocene e il piantagionocene. La strategia di queste comunità nate attorno al 2025 non è quella di abbandonare un pianeta infetto, bensì di imparare a conviverci, di rimanere “a contatto con il problema” e tentare, tramite appunto la simbiogenesi, di preservare e tramandare il patrimonio umano e non-umano.

Foto Guido Mencari

L’incontro tra le specie teorizzato dalla Haraway si rispecchia, nello spettacolo, nell’incontro tra l’animazione propria del teatro di figura e la robotica, sempre più complessa e sofisticata, delle Camille. Viene raggiunto, nelle creature simbiontiche di Paola Villani, un effetto di grande realismo, dovuto sia ai materiali utilizzati che alla precisione e delicatezza dei più piccoli movimenti, impeccabilmente governati dalla Cuscunà, in una scena, in realtà, fondamentalmente statica, e ciclica.

Sono passati 41 anni dall’ultimo ciclo riproduttivo delle Camille. Nelle comunità Earthbound, infatti, l’imperativo è “creare parentele, non bambini”, programmando la riproduzione in base alle risorse effettivamente disponibili. I nuovi nati sono rari e preziosi: concepiti tramite una delicata e non ancora infallibile fecondazione assistita, crescono in nuclei familiari allargati di almeno tre genitori, e vengono guidati nella crescita dalle Camille più anziane. Le risorse, razionate, programmate, adesso sembrano poter permettere un nuovo ciclo di nascite, nell’entusiasmo di queste strane creature. La terra tutta sembra chiedere di potersi riprodurre: le piante, ormai aride e sfinite dal tentativo di ripulire un’aria irrespirabile, tentano ogni metodo, perfino quello di fingersi e apparire come gli organi genitali di altre specie, per potersi riprodurre. Del resto, una nuova migrazione è vicina, tutte le Camille ne parlano.

Foto Guido Mencari

Ad accompagnare gli Earthbound nella resistenza e verso la conservazione della vita in un mondo radioattivo, distrutto, inabitabile, qui è proprio Gaia. Nelle teorie di Bruno Latour, Gaia non è né il globo, né madre Natura, ma qualcosa che prende le mosse dal danneggiamento e si fa protagonista nella forma di tutto ciò che l’essere umano ha reso instabile: l’aria, gli oceani, i ghiacciai, il clima… nella drammaturgia di Cuscunà essa diventa una complessa rete di intelligenze artificiali, con connessioni e dispositivi, sorte di Alexa all’ennesima potenza, dislocati in ogni biosfera Earthbound. La Gaia di questo insediamento è proprio Marta.

Intanto, ancora qualche colonia di esseri umani sopravvive e insiste nel ripetere quegli strani riti per soddisfare il proprio bisogno di comunità, come riunirsi al buio, in silenzio, nell’osservare. E osservano queste strane creature, che non sanno di essere osservate e ci raccontano di uno strano mondo, inizialmente incomprensibile, ma che poi si fa via via meno astratto, ci ricorda le problematiche di cui dobbiamo occuparci, il problema con cui dobbiamo sforzarci di rimanere a contatto, e ci mostra non una soluzione, forse, ma una strategia possibile e, adesso, affascinante. Una struttura drammaturgica costruita con sapienza e su svelamenti successivi prende forma nella tecnica attoriale dell’autrice e interprete, che in questo spettacolo – forse ancora più che in altri – trova la perfetta coincidenza tra personaggio e timbro della voce e alterna i timbri senza sosta in un dialogo serrato, con un virtuosismo che non smette di stupire; le tre (quattro con Gaia) creature di questa scena comunicano con noi tramite un’animazione complessa e alternata. Diversamente dagli altri spettacoli, però, questa volta il corpo dell’attrice/animatrice è spesso nascosto dietro le figure, e un po’ ci manca la dichiarazione esplicita, lo svelamento della magia e dell’animazione; sappiamo, ovviamente, del ruolo di Cuscunà in ogni minimo movimento, anche se ne vediamo soltanto la testa, che si illumina di blu e si erge quando a intervenire è Gaia.

Foto Daniele Borghello

Alla scena principale e dialogica delle tre Camille si sommano momenti di rotazione della biosfera e momenti di contatto tra Gaia e le poche piante pioniere che ancora sopravvivono nel territorio, e che vengono monitorate costantemente dal sistema di intelligenze artificiali per dedurre lo stato evolutivo dell’aria e dei terreni. Un unico alberello, secco, abita la scena dello spettacolo: un interlocutore silenzioso, confidente sincero, per la nostra Gaia. Mentre le sfumature del giorno colorano il fondale bianco intravediamo un’altra figura nella biosfera che gira: è Camille 1, il primo Earthbound, il primo innesto con una farfalla monarca – ormai antiquato, obsoleto – che dorme e giace nella penombra.

Inizialmente, il punto di arrivo dello spettacolo appare quasi scontato: l’individualismo distrutto a favore di una grande e unica comunità di viventi; la rivoluzione di esseri simbionti in totale connessione tra di loro e la natura nel tentativo estremo ma inevitabile di rimanere a contatto, con la terra e con il problema. Tuttavia, un dubbio si insinua lentamente proprio dove non si sarebbe aspettato: è Gaia a dare i primi segni di “malfunzionamento”. Tra le connessioni di un sistema di intelligenze sofisticato, ormai autonome e intenzionate al migliorarsi sempre più nella propria capacità di servire e accompagnare gli Earthbound, inizia a infiltrarsi uno strano virus, un bug: è il sogno. Il sogno della riproduzione, della realizzazione al di fuori di sé.

Foto Guido Mencari

La vicenda si scioglie in un testo talvolta complesso, fatto anche di tante parole sconosciute, ma che nella semplicità dialogica riesce a far seguire le proprie tracce e a trasmettere con chiarezza questa visione utopica e distopica insieme (a noi spettatori, nel buio, non può che apparire così) di un futuro attuale e lontanissimo. Contribuisce a questo l’interfacciarsi continuo con la presenza degli spettatori, che vengono appellati, più che interpellati, come silenziosi e forse inconsapevoli osservatori.

Il dubbio inizia a serpeggiare in ciò che fino a poco prima ammiravamo con aria trasognata, che quasi ci aveva convinto nonostante le sue stranezze. Un piccolo, sottile dubbio si insinua tra noi e quello strano futuro, che nelle parole della Haraway spesso rimane astratta narrazione, ma che si attualizza in forma credibile. La migrazione, l’ennesima migrazione si avvicina. La fecondazione assistita fallisce, per l’ultima volta. Le tracce della memoria si perdono. Ma forse c’è qualcosa, anche oltre gli Earthbound, che carponi riscopre la propria capacità di sognare. La propria necessità di lasciare una traccia più visibile, di espandersi attraverso l’amore. Quella, è Gaia.

Angela Forti

Teatro Fabbri, Vignola – 1 marzo 2022

liberamente ispirato a “Staying with the trouble” di Donna Haraway (© 2016, Duke University Press)
di e con Marta Cuscunà
scena Paola Villani
assistente alla regia Marco Rogante
progettazione animatronica Paola Villani
realizzazione animatronica Paola Villani e Marco Rogante
scultura creature animatroniche João Rapaz, Janaína Drummond, Mariana Fonseca, Rodrigo Pereira, Catarina Santiago, Francisco Tomàs
(Oldskull FX-Lisbona)
dramaturg Giacomo Raffaelli
disegno del suono Michele Braga
disegno delle luci Claudio “Poldo” Parrino

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Angela Forti
Angela Forti
Angela Forti, di La Spezia, 1998. Nel 2021 si laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo presso La Sapienza Università di Roma, con un percorso di studi incentrato sulle arti performative contemporanee. Frequenta il master in Innovation and Organization of Culture and the Arts all’università di Bologna. Nel 2019 consegue il diploma Animateria, corso di formazione per operatore esperto nelle tecniche e nei linguaggi del teatro di figura. Studia pianoforte e teoria musicale, prima al Conservatorio G. Puccini di La Spezia, poi al Santa Cecilia di Roma. Inizia a occuparsi di critica musicale per il Conservatorio Puccini, con il Maestro Giovanni Tasso; all'università inizia il percorso nella critica teatrale con i laboratori tenuti da Sergio Lo Gatto e Simone Nebbia e scrivendo, poi, per le riviste Paneacquaculture, Le Nottole di Minerva, Animatazine, La Falena. Scrive per Teatro e Critica da luglio 2019. Fa parte della compagnia Hombre Collettivo, che si occupa di teatro visuale e teatro d’oggetti/di figura (Casa Nostra 2021, Alle Armi 2023).

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