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Orestes in Mosul di Milo Rau. La funzione del mostrare

Siamo stati al Royal Dutch Théâtre (NT) di Gent per la prima assoluta di Orestes in Mosul, l’ultimo lavoro di Milo Rau. Recensione

«Quattro: l’adattamento letterale dei classici sul palco è proibito. Se un testo sorgente – sia esso letteratura, cinema o teatro – è utilizzato all’inizio del progetto, può occupare al massimo il 20 per cento del tempo di esecuzione finale».

foto di Fred Debrock

Dieci principi scandiscono il Manifesto di Gent, redatto da Milo Rau il 1 maggio 2018. All’ingresso del Royal Dutch Théâtre, a sinistra della prima scalinata che accoglie gli spettatori nell’androne del maestoso edificio fine Ottocento in stile fiammingo, il Manifesto si staglia su lamina dorata. Si tratta di un decalogo per rifondare il teatro, sul piano tecnico e su quello concettuale, in direzione del «realismo globale». Gli altri punti prescrivono altrettante regole che si possono, forse, sintetizzare in poche fondamentali indicazioni: uscire dal teatro, mostrare il processo, osservare il conflitto, cambiare il mondo.

foto di Fred Debrock

Eppure è il punto quattro, il più “filologico” tra tutti, ad attirare il mio sguardo, nei minuti che precedono la replica di Orestes in Mosul, a pochi giorni dal debutto fiammingo, in apertura di una lunga tournée che raggiungerà l’Italia, e il palcoscenico di Romaeuropa Festival, a settembre prossimo. Forse perché l’Orestea di Eschilo – trilogia sul tema della vendetta e della concatenazione del male, che si articola nelle tragedie Agamennone, Le Coefore e Le Eumenidi – è un «testo sorgente» dal portato colossale, e immaginare l’opera di selezione e risemantizzazione necessaria a condensarlo e trasportarlo a Mosul, sul confine devastato del Kurdistan iraqeno, impone di predisporsi a un’attenzione complessa. Inoltre, a pochi mesi dalla conclusione della Trilogia sulla rappresentazione (Five Easy Pieces, 2016; Le 120 giornate di Sodoma, 2017; The repetition, 2018), Milo Rau si misura con un’operazione che conserva ma riformula, di quell’esperienza, il dogma del mostrare (e affidare) allo spettatore lo spazio sensibile e oscuro che si espande tra l’azione performata in scena e quella restituita in video. Mi tornano in mente le parole che il regista svizzero ha consegnato a queste pagine alcuni mesi fa, a proposito di una matrice fortemente situazionista del suo lavoro: «A Gent mettere in scena dei classici è praticamente proibito […] non avrebbe senso, sarebbe solo un ulteriore adattamento […]. Ma portare un Čechov a Teheran può rappresentare un atto davvero rivoluzionario».

foto di Fred Debrock

Sto per osservare un lavoro che – è l’essay di Milo Rau consegnato all’ingresso a tutti gli spettatori a dichiararlo – produrrà una duplicazione dello spazio, fisico e simbolico, in una funzione diversa rispetto agli spettacoli incentrati sull’atto del rappresentare. Sul palcoscenico del Royal Dutch Théâtre si muoveranno sei attori ma l’intero ensemble ne conta ventitré: gli altri li vedremo solo in video, tra le rovine della capitale dell’ISIS. «A global economy also needs a global artistic solidarity, as problematic and questionable as it may be» («L’economia globale necessita anche di una globale solidarietà artistica, il più possibile problematica e discutibile»), scrive Milo Rau.
Siedo al centro della balconata del terzo ordine del teatro, quasi uno strapiombo che dà le vertigini: sulla scena, dominata dallo schermo spento, lo spazio è compartimentato dai moduli scuri di una struttura prefabbricata (sarà la mensa degli attori e la reggia di Agamennone), dalle tecnologie necessarie alla presa diretta e da qualche catasta lignea, macerie semplici ancora colorate da un po’ di verde. Le note di Mad World nella versione di Gary Jules accompagnano il tempo in cui gli spettatori prendono posto: mi sembra favoriscano un’atmosfera confidente, di preludio e di penombra, come se – al cospetto di queste tragedie che si consumano in un altrove, ipernarrato e per questo “simulacrale” e contraffatto, come nelle teorie di Baudrillard – ci muovessimo tutti nello stesso spazio opaco. «The dreams in which I’m dying are the best I’ve ever had», scandisce la canzone.

foto di Fred Debrock

Se in The repetition il focus era la riproducibilità del male, in Orestes in Mosul è la sua reiterazione: gli omicidi concatenati della saga degli Atridi si fanno simbolo, arcaico ma atemporale, di un fenomeno della storia umana, attualizzato di continuo attraverso le presenze (i corpi fisici e quelli proiettati sullo schermo) dei protagonisti ma anche, forse soprattutto, attraverso i panorami sovrannaturali di Mosul, e il racconto dei fatti. La drammaturgia e gli effetti di riverbero provocati dall’allestimento video (che, intersecando le immagini in presa diretta con il girato in Iraq, complica il confine tra spazio presente e spazio evocato) elaborano una relazione – quasi un’articolata scrittura scenica a distanza – tra il vissuto personale degli attori e le pieghe della tragedia.
Lo schema della trilogia viene conservato come un telaio – esile, ma chiaro e riconoscibile – che ordina lo svolgimento l’azione scenica. La drammaturgia di Stefan Bläske realizza la delicatissima sintesi tra il mantenimento degli snodi narrativi necessari e l’inserzione dei passaggi in video proiezione: gli spazi della devastazione – ospedali da campo, palazzi fatiscenti, dormitori – diventano il place setting cinematografico di altrettanti momenti della tragedia. Allo stesso tempo, pur nel nitore di questo impianto, la relazione tra luoghi fisici e luoghi testuali – e quindi tra elementi quasi “di reportage” e funzioni narrative – non risulta mai univoca. Al contrario viene stabilito un sistema di corrispondenze (il coro greco condensato nella presenza di un liutaio che pizzica le corde in mezzo ai cumuli di macerie, Ifigenia costretta a recitare velata, Atena vedova di un giustiziato da Al-Quaida, il bacio omosessuale tra Oreste e Pilade) che attiva un’esigenza di decodifica emozionale, e fortemente intuitiva, di un ampio sottotesto simbolico e politico. La recitazione degli interpreti si accorda, in equilibrio e in intensità, a questa sorvegliata operazione, riuscendo a costruire momenti di evocazione, anche molto vividi, che non risultano mai sovrascritti o fuori dal fuoco della tragedia classica, ma perfettamente organici a uno svolgimento organizzato su tanti livelli.

L’ultimo capitolo dell’Orestea, Le Eumenidi, narra dell’assoluzione di Oreste da parte del tribunale dell’Areopago per l’assassinio di sua madre Clitennestra ed è anche il centro concettuale del lavoro di Milo Rau: i prelievi dalla pagina di Eschilo risultano leggermente più espansi ma, soprattutto, la riflessione sul futuro della civiltà, consegnata dalla tragedia, è lo spazio elettivo per l’espressione di un pensiero, politico e registico, segnato dal desiderio di operatività. In Eschilo si tratta del momento conclusivo di una successione di efferatezze e vendette, dell’atto attraverso il quale le istituzioni della polis ripristinano, in una cornice assembleare una concordia razionale e il valore della giustizia sopra quello della vendetta. Lo scenario di Mosul – liberata nel 2017 dal califfato jihadista ma demolita dai bombardamenti, ancora segnata dai checkpoint, continuamente ferita da nuovi attentati e tappezzata di campi profughi – si fa immagine perdurante e dolorosa, limpida perché odierna, dell’ambiguità dei concetti stessi di razionalità e democrazia. Alla cesura netta, posta da Eschilo tra i primi due capitoli e il terzo, non corrisponde dunque, nel sistema scenico creato da Rau, altro che una soglia, ancora problematica, oscura, popolata di fantasmi (Agamennone e Cassandra che si aggirano tra le rovine), eppure futuribile, in quanto passibile di evoluzione, e in quanto oggetto di una riflessione partecipata. Come recita il primo punto del Manifesto: «L’obiettivo non è quello di rappresentare il reale, ma di rendere reale la rappresentazione stessa».

foto di Fred Debrock

Orestes in Mosul, come altri spettacoli di Milo Rau, rompe il patto di vaghezza e dis-percezione che soggiace alle modalità che quasi sempre governano la trasmissione delle informazioni. E lo fa abbassando un gradiente, togliendo alla comunicazione ogni spettacolarità deformata e riaffermando con purezza (non la purezza di un livello non mediato, ma quella di una macchina che funziona al millimetro) il proprio compito: occuparsi di mostrare le cose come stanno.
Sembra un paradosso – che si gioca sulla soglia “polisemica” del concetto di sensazionale: evocativo di meraviglia, ma anche corrotto da una programmaticità iperbolica – ma questa discesa, che conduce al cuore dei sentimenti umani più profondi, purifica lo sguardo, espelle le scorie di quel pensiero sovrarticolato che, invece di essere sonda nella complessità del reale, rischia di diventare metronomo, inutilmente controverso, della propria sensibilità colpevole.
Forse la responsabilità di un intellettuale nei confronti della realtà, il suo impegno a cambiare il mondo, può davvero tradursi in questo: nell’offrirci uno spazio, sacrale e rituale, dove possiamo riconfigurarci come comunità, attraverso l’esercizio – doloroso ma radicale, e calmo – di abitare il nostro tempo e la nostra zona d’ombra.

Ilaria Rossini

ORESTES IN MOSUL
regia Milo Rau
drammaturgia Stefan Bläske
testo Milo Rau & ensemble
con Marijke Pinoy, Duraid Abbas Ghaieb, Elsie de Brauw, Bert Luppes, ​Susana AbdulMajid, Risto Kubar, Johan Leysen
attori in video Baraa Ali, Khitam Idress, Khalid Rawi
musicisti in video Zaidun Haitham, Suleik Salim Al-Khabbaz, Firas Atraqchi, Saif Al-Taee, Nabeel Atraqchi
coro in video Mustafa Dargham, Rayan Shihab Ahmed, Ahmed Abdul Razzaq Hussein, Abdallah Nawfal, Younis Anad Gabori, Hatal Al-Hianey, Hassan Taha, Mohamed Saalim
film Daniel Demoustier, Moritz von Dungern
scene ruimtevaarders
costumi An De Mol
luci Dennis Diels
direttore di scena Marijn Vlaeminck
tecnica video Stijn Pauwels
direzione tecnica luci Dennis Diels, Geert De Rodder
montaggio Joris Vertenten
composizione musicale e arrangiamenti Saskia Venegas Aernoudt
tecnico del suono Dimitri Devos
creazione sovratitoli Eline Banken
sovratitoli Noemi Suarez Sanchez, Katelijne Laevens
assistente alla regia Katelijne Laevens
direttore tecnico Jeroen Vanhoutte
stilista Micheline D’Hertoge, Nancy Colman
stagisti in drammaturgia Eline Banken, Liam Rees
stagisti in assistenza alla regia Bo Alfaro Decreton
direttore di produzione Noemi Suarez Sanchez
coproduttori Romaeuropa Festival, Schauspielhaus Bochum, Tandem Scène Nationale
con il supporto di The Belgian Tax Shelter

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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