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La bisbetica domata di Andrea Chiodi. Ciao, maschio!

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Al Teatro Metastasio di Prato abbiamo visto La bisbetica domata di Shakespeare diretto da Andrea Chiodi, un adattamento crudele e intelligente per un cast di soli uomini. Recensione.

foto Masiar Pasquali

«L’uomo ch’è tuo marito è il tuo signore, il tuo custode, la tua stessa vita, il tuo capo, il tuo re. […] Piegate dunque la vostra alterezza, ché tanto non vi servirebbe a niente, e mettete le mani sotto i piedi del vostro sposo». Basterebbero queste poche righe, tratte dal monologo finale con cui Caterina rimprovera per la loro superbia Bianca e una ricca vedova, per comprendere quanto qualsiasi messinscena odierna de La bisbetica domata rischi di essere tacciata di anacronismo, se non addirittura di colpevole ambiguità.
La rappresentazione della violenza paternalistica, del dominio fallocentrico, della sottomissione del corpo e dell’anima di una donna si pone infatti, di fronte alla platea contemporanea, sul labile confine tra denuncia e perpetuazione, tra filologica riproposizione di un classico della drammaturgia e cristallizzazione di una lotta che vede l’uomo, ora e sempre, trionfare. Dalla Carmen di Bizet andata in scena nel gennaio 2018 al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino per la regia di Leo Muscato nella quale la gitana non muore per mano di Don José, ma si ribella e spara al suo carnefice, e di cui è possibile leggere l’approfondito attraversamento di Lorenzo Alunni fino alle aspre polemiche che nel 2016 hanno coinvolto il National Theatre di Londra e Ivo van Hove per il suo adattamento di Hedda Gabler di Ibsen  le cui morbose soluzioni sono state oggetto di un’invettiva di Natasha Tripney su The Stage – la questione dell’opportunità e delle modalità con cui tradurre in performance una qualsivoglia dinamica di abuso sta attraversando, con inesausta costanza, i palcoscenici europei.

foto Masiar Pasquali

Proprio la celebre commedia shakespeariana sembra essere, in questo senso, un’opera ancipite: se da un lato un’acritica adesione scenica al modello patriarcale narrato rischierebbe infatti di rivelarsi contraddittoria e latrice di interpretazioni impreviste, dall’altro i suoi toni satirici si presterebbero con facilità a un approccio genuinamente femminista e gender oriented. Coprodotta da LuganoInScena con LAC Lugano Arte e Cultura e Teatro Carcano, La bisbetica domata diretta da Andrea Chiodi si pone con intelligenza alla confluenza di prospettive differenti: lungi dal costituirne una versione à la page, dove le istanze contingenti verrebbero forse introiettate al prezzo di una loro decontestualizzazione, questo adattamento riverbera la riflessione sulle dinamiche tra i sessi in un discorso sul maschile, sui suoi stilemi e sulle sue aporie, e tuttavia non rinuncia all’ironia, alla leggerezza, a una rifrazione della spesso sottovalutata metateatralità del testo shakespeariano.

foto Masiar Pasquali

Come già nella versione diretta nel 2004 da Antonio Latella, questa Bisbetica domata  sontuosamente tradotta da Angela Demattè  è infatti in prima istanza la storia di Sly, in italiano Smalizia: l’ubriacone al quale viene fatto credere di essere un ricco signore e per il piacere del quale è messa in scena da un gruppo di attori girovaghi la vicenda della ribelle Caterina e del subdolo Petruccio. Tale cornice, ennesima variazione del topos shakespeariano del teatro-nel-teatro, sembra contenere in nuce l’essenza stessa del dramma: quella di un’umiliazione perpetrata nei confronti di un debole, di una macchinazione volta a deriderlo, di una mistificazione nel quale il gioco delle parti è realizzato grazie alle abissali disparità di censo, di cultura, di ruolo sociale. Il feroce processo di “addomesticamento” della riottosa Caterina come reciterebbe il titolo originale della commedia, The Taming of the Shrew – è reso possibile, addirittura auspicabile, dalla condizione femminile dell’epoca: a esso guarderà con ammirazione il beone Sly una volta risvegliatosi nei propri abiti lisi, sperando di poter applicare in famiglia quanto appreso grazie alla pièce vista, o forse soltanto sognata.

foto Masiar Pasquali

È così su un sogno che si apre il sipario del Teatro Metastasio: uno spazio vuoto e geometrico, il cui intenso cromatismo verde e azzurro è esaltato dal disegno luci di Marco Grisa. Dal fondale emergono progressivamente, celate da un velatino traslucido, le figure di un gruppo di lord e dei loro servi: in abiti d’epoca, si stagliano immobili e bidimensionali su un paesaggio idilliaco, proiezione video di una qualsiasi veduta pittorica. In proscenio, una donna suona con eleganza un violino, il volto celato da una maschera con le fattezze di una volpe, mentre distintamente percepibili giungono i rumori di un rituale antico: la preda della caccia, al contempo muliebre e bestiale, cerca di sfuggire invano a una muta di cani, a un vociare maschile ed esaltato. Sly, addormentatosi ubriaco, sarà adesso l’oggetto dello scherno dei cacciatori, e lo spettatore privilegiato di una commedia che si vorrebbe, tragicamente, educativa.

foto Masiar Pasquali

Ma l’immaginario estetico tardo-cinquecentesco, così evidente nel prologo, subisce una torsione postmoderna e dissacrante nelle modalità con cui Chiodi affronta la vicenda principale: se la drammaturgia ripercorre fedelmente il testo originale, le interpolazioni musicali  Caterina e Magic Moments di Perry Como, intonate dal cast e gli accessori che macchiano con suggestioni contemporanee i costumi d’epoca, disegnati da Ilaria Ariemme, ibridano l’azione squadernandone sensi attuali e ulteriori. È soprattutto il ricorso a uno straordinario ensemble di soli uomini la scelta che esalta la riflessione sui generi e sulle dinamiche che, oggi come allora, li investono e li determinano; non soltanto corretta riproposizione delle compagnie monosessuali elisabettiane, l’assenza di attrici nei ruoli di Caterina e della sorella Bianca è qui esito di un acuto sguardo capace di mettere in luce, accanto alle violazioni subite da una donna, quel sofisticato apparato di gestualità e simboli con i quali il maschio costruisce la propria, fragile, identità.
Ugo Fiore, Igor Horvat, Christian La Rosa, Walter Rizzuto e Massimiliano Zampetti hanno gli stemmi tipici delle squadre di calcio cuciti sulle giacche, movenze enfaticamente virili, l’attitudine di una banda di ragazzi chiassosa ed esaltata: una versione parodistica ed esagerata di una compagine la cui violenza sembra un modo di puntellare ego fin troppo indifesi. Su tutti si erge il Petruccio interpretato così come lo Sly da un perfetto Angelo Di Genio: smargiasso e seduttivo, sbruffone e tagliente, capace di affamare Caterina, di costringerla a nutrirsi da una ciotola per cani, di umiliarla il giorno delle nozze, e ciò nonostante di apparire quasi insignificante al cospetto della debordante bisbetica a cui dà corpo e voce Tindaro Granata.

foto Masiar Pasquali

Caterina indossa un gonnellone scuro, una t-shirt sulla quale campeggia lo slogan girls support girls, mostra fiera la testa rasata, quasi a cancellare qualsiasi traccia di quella stereotipata, muta femminilità incarnata da Bianca, che Rocco Schira porta in scena in abiti lussuosi e trucco da drag queen. Granata si muove scomposto, abita lo spazio con bislacche corse e rovinose cadute, porta le mani sul cranio e pronuncia con distacco svagato e impertinente ora le volgarità con cui si rivolge alla sorella, ora quelle professioni di indipendenza e autonomia che dovrà infine abiurare: la sua memorabile Caterina per la quale è stato candidato al premio Ubu 2018 non ha nulla dell’istrionismo rabbioso di Elizabeth Taylor nella versione cinematografica diretta da Franco Zeffirelli, quanto piuttosto una sfacciata indifferenza, una noncuranza divertita con la quale si fa beffe di imposizioni e di ordini. C’è, negli scambi che contrappongono Di Genio e Granata, una chimica peculiare e irripetibile, la risultante di un lavoro che non è soltanto tecnico ma primariamente empatico, e che fa assomigliare i loro sferzanti dialoghi a quelli di una coppia della golden age di Hollywood: dove il trionfo del maschio sembra piuttosto una gentile, e spassosa, concessione della donna.

Alessandro Iachino

Teatro Metastasio, Prato ‑ febbraio 2019

LA BISBETICA DOMATA
di William Shakespeare
adattamento e traduzione Angela Demattè
regia Andrea Chiodi
con (in ordine alfabetico) Angelo Di Genio, Ugo Fiore, Tindaro Granata, Igor Horvat, Christian La Rosa, Walter Rizzuto, Rocco Schira e Massimiliano Zampetti
scene Matteo Patrucco
costumi Ilaria Ariemme
musiche originali Zeno Gabaglio
disegno luci Marco Grisa
movement coach Marta Ciappina
sarta di scena Andrea Portioli
assistente regia Margherita Saltamacchia
produzione LuganoInScena
in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Carcano, Centro d’Arte Contemporanea di Milano

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Alessandro Iachino
Alessandro Iachino
Alessandro Iachino dopo la maturità scientifica si laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2007 lavora stabilmente per fondazioni lirico-sinfoniche e centri di produzione teatrale, occupandosi di promozione e comunicazione. Nel novembre 2014 partecipa al workshop di visione e scrittura critica TeatroeCriticaLAB tenuto da Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich nell’ambito della IX edizione di ZOOM Festival, al termine del quale inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica. Ha partecipato inoltre al laboratorio Social Media Strategies for Drama Review, diretto da Andrea Porcheddu e Anna Pérez Pagès per Biennale College ‑ Teatro 2015, e ha collaborato con Roberta Ferraresi alla conduzione del workshop di critica della Biennale College ‑ Teatro 2017. È stato membro della commissione di esperti del progetto (In)Generazione promosso da Fondazione Fabbrica Europa, ed è tutor del progetto Casateatro a cura di Murmuris e Unicoop Firenze.

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