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Balletto di Roma. Attualizzare il mito

Il Balletto di Roma inaugura il triennio con una nuova direzione artistica e con Bolero Trip – Tic, trittico al femminile sulle coreografie di Giorgia Nardin, Chiara Frigo e Francesca Pennini, in scena al Teatro Vascello. Recensione

Foto Balletto di Roma

Il nuovo corso del Balletto di Roma, che inaugura il triennio 2018/2020, si apre all’insegna della nomina alla direzione artistica di Francesca Magnini, danzatrice, ricercatrice e docente a contratto di Archivi e Musei Digitali per lo Spettacolo dal vivo alla Laurea Magistrale del Dipartimento di Storia dell’Arte e Spettacolo de ‘La Sapienza’ di Roma. Succedendosi all’operato di Roberto Casarotto, Magnini dichiara in una recente intervista di essere intenzionata innanzitutto ad approfondire il legame con il sapere accademico in quanto «la connessione con l’Università non è qualcosa che sta in superficie ma sta alla base. È qualcosa di nuovo ed è direttamente legato alla mia persona, alla mia doppia attività di danzatrice ma anche di studiosa, ricercatrice». Tra gli obiettivi principali di avvio risulta inoltre centrale la volontà di ristrutturare il comparto di contemporaneo attraverso il ruolo di coaching da parte di Emio Greco e Pieter C. Scholten chiamati, a detta della neo direttrice, innanzitutto perché i moduli che hanno creato in questi anni sono particolarmente interessanti da applicare come sistemi di training per il danzatore contemporaneo affiancandoli a una formazione di tipo accademico.

Foto Balletto di Roma

Traiettorie progettuali che rintracciamo fuse insieme in Bolero Trip – Tic «un trittico al femminile per i classici del Novecento» prodotto dalla scuola romana e andato in scena al Teatro Vascello. Tre quadri coreografati da Giorgia Nardin, Chiara Frigo e Francesca Pennini che, a partire da diverse e autonome ricerche, imprimono il loro segno mettendo in discussione il mito, all’epoca rivoluzionario dei Ballets Russes, calandolo nella contemporaneità.
Nonostante sia possibile riconoscere in ciascuna suite una spiccata e contraddistinta autorialità, i tre momenti sembrano costituire un’unica e coerente indagine sulla dialettica codice/tradizione. Nell’uso drammaturgico delle celebri partiture sonore di Claude Debussy e Maurice Ravel, Nardin, Frigo e Pennini sembrano partire proprio dalla centralità del linguaggio musicale dalla quale poi ripensare, attualizzandolo, il linguaggio coreografico. Tuttavia allo spettatore, più o meno preparato su nozioni di tipo storiografico, la ricerca non apparirà risolta in una danza celebrativa del repertorio, al contrario le tre partiture restituiscono l’eco di una traccia ormai indiscussa e per questo classicamente imperitura ma forte della sua idea, contrapposta, di presente.

L’Après-midi d’un Faune (Resilienza) sulla musica di Debussy secondo Giorgia Nardin è affidato nella silente ouverture alla fisicità calamitante e perfetta, nella sua dispiegata esposizione, di Francesco Saverio Cavaliere. «Il Fauno guarda e si lascia guardare» e in esso vi rintracciamo tanto la levità del movimento, sospeso, puntinato, discreto quanto il suo aspetto più terrigno, basso e impregnato di sensualità panica. La traiettoria del suo sguardo si riverbera in tutto il corpo, nella sua flessuosità dapprima controllata (in un’eco ritmica della coreografia originale nijinskyiana) che acquisisce sempre più dinamicità all’ingresso della componente sonora – evocata inizialmente dalle voci dei danzatori – e musicale. Ritroviamo soprattutto nelle partiture di gruppo (eseguite da Monika Lepisto, Luca Pannacci, Valentina Pierini, Eleonora Pifferi, Eleonora Peperoni, Raffaele Schicchitano, Jayson Syrette) quell’aspetto precipuo dello stile di Nardin più dedito alla fisicità e all’aspetto performativo. Nardin dichiara dunque un’autonomia compositiva che si sgancia dal richiamo all’arte figurativa ellenica classica, dalla spigolosità dei lenti movimenti, dalla concezione bidimensionale della scena originaria. Nel riprendere la vicenda del fauno intrigato e poi abbandonato dalle ninfe (ispirato al poema di Mallarmé), la coreografa ammorbidisce (o, verrebbe da dire, rende più liquida) quella connotazione erotica che tanto scandalizzò alla prima parigina e che nel finale della versione del Balletto di Roma sembra spostarsi nel rosso infuocato delle luci di contro, ripreso come trait-d’union anche nell’ultima coreografia.

Foto Balletto di Roma

“Nomade” è la posizione autoriale di Chiara Frigo che partendo anche lei dalle note di Claude Debussy della Suite Bergamasque – composizione in quattro movimenti che comprende anche il celebre Clair de lune ispirato alla poesia di Paul Verlaine – elabora Stormy. Nella riflessione in bilico tra una forma apollinea e dionisiaca, imperniata attorno al tema del migrare e della ricerca di un altrove, Frigo colloca i danzatori (Francesco Saverio Cavaliere, Roberta De Simone, Monika Lepisto, Luca Pannacci, Valentina Pierini, Eleonora Pifferi, Eleonora Peperoni, Raffaele Schicchitano, Jayson Syrette) – dai costumi un po’ patchwork, un po’ gipsy – all’interno di una sorta di labirinto-rete governato dal Minotauro nel quale essi imporranno la loro tensione alla libertà. In contrasto con la dolcezza e l’atmosfera suggestiva della Suite interviene, a favore della regia della coreografa, l’elaborazione sonora di Mauro Casappa, che distorce le musiche originarie, immettendo effetti di delay, ripetizioni in loop, campionamenti, affidandone la resa anche ad altri strumenti o a versioni in sordina. Tuttavia le due drammaturgie, sonora e coreutica, scelgono due percorsi differenti che, volutamente, non sempre coincidono ma si giustappongono. La gestualità è espressione di una comunità in viaggio: corse, assoli, pas de deux, fusi organicamente a comporre nugoli di corpi che si muovono in scena rivendicando, occupando uno spazio, vitale. Dapprima incerti e poi fieri della loro volontà, i danzatori salteranno oltre una rete da tennis spodestando il mostro, gesto simbolico rappresentato dal movimento di un’interprete che toglie con nettezza la maschera di toro al danzatore. Nonostante la forza della tematica, la coreografia sembra decentrarsi verso una struttura più stemperata nella conclusione, forse in qualche modo “arrendendosi” alla suggestione sonora del Claire de lune.

foto Balletto di Roma

«Il Bolero di Ravel ha tutte le caratteristiche dell’apocalisse Zombie»: decisa, irriverente è la coreografia, l’ultima nell’ordine di presentazione, di Francesca Pennini. Leggings fosforescenti, felpe con cappuccio e chewing-gum sono gli abiti/oggetti scenici di questa generazione di eterni teenagers isolati, addormentati nel tepore da confusione social. La partitura coreografica è però sorretta da una vibrante potenza, dapprima celata, trattenuta e poi pronta a palesarsi nei movimenti corali dei danzatori (Paolo Barbonaglia, Francesco Saverio Cavaliere, Roberta De Simone, Monika Lepisto, Luca Pannacci, Valentina Pierini, Eleonora Pifferi, Eleonora Peperoni, Raffaele Schicchitano, Jayson Syrette). Guardando il pubblico negli occhi, la tribù incede con gravità ferina e «cannibale»: il bacino ruotato sinuosamente, il braccio alzato con la mano spalancata; gli interpreti avanzano compatti con le bocche aperte e digrignando i denti; solo uno sembra estraniarsi da tale orda colorata, chiuso nella sua danza solipsistica, morbida nel poggiarsi sugli arti inferiori a disegnare pirouettes distrattamente accennate; ma anche questa gestualità “a parte” finirà tuttavia per essere inglobata, e contagiata, dalla massa. Quella stessa massa che di spalle alla platea chiuderà il quadro contemplando, e nel farlo contemplerà se stessa, il sole rosso di luce apparso sul fondo a ricordare, forse chissà, la celebre installazione The Weather Project con la quale l’artista Olafur Eliasson indaga i concetti di esperienza, mediazione e rappresentazione. Proprio questa del Bolero di Ravel, lontana da stilizzazioni estetiche, è restituita attraverso una plasticità evidentissima, in grado di caricare la forma inondandola di forza istintuale, in un equilibrio tra singolarità e comunità che rende quella di Pennini la più riuscita delle tre opere.

Lucia Medri, Viviana Raciti

Teatro Vascello, Roma – marzo 2018

L’APRÈS – MIDI D’UN FAUNE (RESILIENZA)

Coreografia: Giorgia Nardin
Collaborazione alla Drammaturgia: Gaia Clotilde Chernetich
Luci: Emanuele De Maria
Costumi: Daniela Iaffei
Musica: Prélude à L’après-midi d’un faune – Claude Debussy (esecuzione di Doriot Anthony Dwyer, Boston Symphony Orchestra & Micheal Tilson Thomas)
Co-produzione: Associazione Culturale VAN
Interpreti: Francesco Saverio Cavaliere, Monika Lepisto, Luca Pannacci, Valentina Pierini, Eleonora Pifferi, Eleonora Peperoni, Raffaele Schicchitanoo, Jayson Syrette.

STORMY

Coreografia: Chaiara Frigo
Drammaturgia: Riccardo de Torrebruna
Elaborazioni Sonore: Mauro Casappa
Musiche: Claude Debussy
Consulenza artistica: Amy Bell
Luci: Moritz Zavan Stoeckle
Interpreti: Francesco Saverio Cavaliere, Roberta De Simone, Monika Lepisto, Luca Pannacci, Valentina Pierini, Eleonora Pifferi, Eleonora Peperoni, Raffaele Schicchitanoo, Jayson Syrette.

BOLERO – THE HEAD DOWN TRIBE

Regia e coreografia: Francesca Pennini
Drammaturgia: Angelo Pedroni
Musica: Maurice Ravel
Luci: Emanuele De Maria
Costumi: Maria Colaneri, Daniela Iaffei
Interpreti: Paolo Barbonaglia, Francesco Saverio Cavaliere, Roberta De Simone, Monika Lepisto, Luca Pannacci, Valentina Pierini, Eleonora Pifferi, Eleonora Peperoni, Raffaele Schicchitanoo, Jayson Syrette.

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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