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HomeArticoliTeatrosofia #25. Il piacere del teatro: Epicuro, Plutarco, i Cirenaici

Teatrosofia #25. Il piacere del teatro: Epicuro, Plutarco, i Cirenaici

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. In questo appuntamento, raccogliamo il pensiero di Epicuro, il platonico Plutarco e i Cirenaici intorno al piacere estetico.

 

Mosaico dalla Casa delle Maschere. Scena teatrale, un poeta seduto e un attore che regge una maschera comica. Metà del III secolo d.C. Musée archéologique de Sousse. Fonte: https://studiahumanitatispaideia.wordpress.com/tag/patrios-politeia/
Mosaico dalla Casa delle Maschere. Scena teatrale, un poeta seduto e un attore che regge una maschera comica. Metà del III secolo d.C. Musée archéologique de Sousse. Fonte: https://studiahumanitatispaideia.wordpress.com/tag/patrios-politeia/
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

Il credo e la condotta di un filosofo si manifestano anche dal suo comportamento a cena. A seconda di quanto e come egli mangi, beva, amoreggi e si diverta con gli altri, emerge infatti la sua vera personalità e i valori su cui egli ripone importanza. In un simposio dell’antichità, si sarebbe potuto pertanto riconoscere un Cirenaico dal suo cercare di trarre quanto più piacere possibile nel corso della serata, o un Platonico dai suoi tentativi di usare queste esperienze piacevoli per guidare i commensali alla bellezza morale, o un Epicureo dai suoi sforzi di usare cibo, bevande e compagnia con l’unico fine di liberarsi da dolori / turbamenti.
Ma tra i comportamenti rivelatori dell’anima di un filosofo antico a tavola, spiccava in particolare la scelta dei discorsi da affrontare tra una portata e l’altra. E questi potevano riguardare anche il teatro, o tematiche ad esso affini. Stando alla testimonianza del libro V delle Questioni conviviali di Plutarco, per esempio, sembra che un giorno il filosofo platonico discusse durante un simposio, insieme agli Epicurei capeggiati da Boeto, la questione seguente: perché noi proviamo fastidio al vedere una persona che soffre o è in preda a ira e paura, mentre gioiamo quando un attore imita una persona sofferente od oppressa da passioni negative, senza a sua volta esserlo?
La risposta degli Epicurei è che i due casi costituiscono due diverse risposte a due distinti stimoli percettivi, cioè dalla ricezione di due differenti specie di atomi. Non va dimenticato, infatti, che Epicuro descriveva la sensazione come un subire l’impatto di determinate forme atomiche sugli organi percettivi. Pertanto, nel caso della persona realmente sofferente, noi soffriamo a nostra volta perché i suoi pianti, le sue urla, i suoi lamenti rilasciano atomi che sconvolgono potentemente i nostri sensi. Viceversa, l’attore produce in noi gioia perché, imitando il dolore e le passioni dell’uomo infelice attraverso i bei gesti del suo corpo, il bel suono della sua voce, i colori sgargianti e accattivanti della scena, libera da sé atomi che solleticano la vista e l’udito degli spettatori.
Una tale spiegazione risulta però per Plutarco riduttiva. L’alternativa che egli propone si basa su una peculiare premessa antropologica. A suo dire, ogni uomo è per natura propenso ad apprezzare ciò che è costruito ad arte, più che gli avvenimenti, per così dire, nudi e immediati. La prova che egli fornisce è un parallelo con il comportamento dei bambini. Come infatti la natura induce questi a scegliere di avere una statuetta lavorata, piuttosto che un pezzo di pane o di argento, perché nei primi due oggetti si manifesta più arte e ragione che nei secondi, o ancora ad amare gli indovinelli intricati in luogo dei discorsi semplici, così essa spinge gli uomini ad ammirare la rappresentazione artistica di Giocasta morente, piuttosto che Giocasta che muore per davvero. Il punto è, insomma, che la persona sofferente ci procura naturalmente fastidio, perché nella sua sofferenza non c’è nulla di artistico, laddove invece l’attore che recita la sofferenza genera naturalmente gioia, in quanto ogni sua movenza o modulazione è improntata ad arte e intelletto.
Per rinvigorire in apparenza il suo discorso, Plutarco poi richiama poco oltre la concezione dei Cirenaici, i quali affermano che il piacere dell’atto imitativo non coinvolge i sensi, bensì la mente. Infatti, questi filosofi ritengono che piacere e dolore nascano in virtù di un giudizio che il soggetto formula su quanto vede/ascolta. Se dunque la mente dello spettatore giudica che un attore imita bene un corvo che gracchia insistentemente, o che un’attrice recita bene la morte di Giocasta, allora egli avrà un’esperienza piacevole, nonostante in genere il gracchiare costante e la morte di una donna risultino spiacevoli. Come dicevo, tale discorso viene tuttavia solo “in apparenza” incontro a Plutarco. Diversamente dal Platonico i Cirenaici non invocano il concetto di natura, né ritengono che la cosa imitata è in sé piacevole – in fondo, un giudizio negativo sul lavoro degli attori procurerebbe sofferenza nello spettatore, quand’anche fosse costruito a massima arte. L’epistemologia cirenaica prevede, inoltre, che non si può sapere se l’oggetto esterno esista o no, oppure se presenti la qualità della piacevolezza o meno: l’unica cosa conoscibile sono le affezioni che il nostro intelletto dichiara di aver provato in una data circostanza. Pertanto, l’esperienza estetica è frutto esclusivo dell’attività solipsistica dello spettatore, che giudica piacevole o doloroso quanto gli pare di assistere.
Sulla scia di questa questione sollevata da Boeto e Plutarco, ne potremmo aggiungere altre due. Da un lato, come si deve descrivere il fatto teatrale? Dall’altro, il piacere avvertito dalla rappresentazione mimetica va considerato eticamente rilevante, o solo uno svago superfluo? Anche in questo caso, le risposte variano a seconda che si sia un Epicureo, un seguace di Plutarco, o un Cirenaico.
Un discepolo di Epicuro – come Diogene di Enoanda – direbbe che il piacere del teatro non contribuisce alla felicità, perché non toglie le paure e i turbamenti da cui vogliamo essere liberi, come invece fa lo studio della natura. Tuttavia, come attestano le Disputazioni Tuscolane di Cicerone, egli potrebbe considerarlo un godimento aggiunto, da coltivare senza pericolo quando si ha ormai la fondata speranza di essere liberi da dolori e turbamenti. Quanto al fatto teatrale, esso dovrebbe essere descritto come un patire qualcosa dal teatro stesso, che essendo avvertito per un impatto di atomi è un aggregato atomico reale. Si potrebbe perciò definire il piacere estetico come un «essere ‘teatrati’, negli occhi e nelle orecchie, dagli atomi del teatro situato fuori di noi».
Plutarco riterrebbe invece il fatto teatrale come eticamente rilevante. Dopo tutto, esso ci aiuta a conoscere chi noi siamo, ovvero che cosa siamo naturalmente portati ad apprezzare e a cercare, inducendoci così ad appropriarci della nostra vera identità. Come riporta l’introduzione stessa al libro V delle Questioni conviviali di Plutarco, il teatro è dunque un processo di conoscenza. E poiché esso è piacevole per natura, allora il fatto teatrale va considerato come un fatto naturale che si manifesta attraverso l’arte. Il piacere estetico potrà essere così definito come il «farmi ‘teatrare’ dalla natura con la mediazione degli artisti, che imitano e rappresentano gli avvenimenti in modo inconsueto».
Infine, i Cirenaici riterrebbero che il teatro contribuisca alla felicità, perché è una delle tante esperienze piacevoli che si ricerca per massimizzare il più possibile il proprio piacere. Ma da un punto di vista formale, il fatto teatrale non va considerato né come la percezione passiva di un oggetto reale, né un come processo di conoscenza di sé, bensì come un’attività giudicante su qualcosa che potrebbe anche non esistere. Il piacere estetico sarebbe così definito dai Cirenaici con «l’essermi ‘teatrato’ giudicando con la mente il lavoro di un attore che mi pare di aver visto recitare».
Chi tra Epicuro, Plutarco e i Cirenaici ha più ragione? Oppure, nessuno di loro può dare una risposta definitiva, cosicché noi dobbiamo andare in cerca di altre soluzioni? Questa quarta pista mi sembra la più sensata, soprattutto perché – ma non posso provarlo in questa sede – tutte le proposte pervenute da tali filosofi hanno dei punti deboli e partono da premesse non sempre dimostrate. Forse si potrebbe tentare di superare l’impasse organizzando un simposio, dove discutendo del teatro avremmo peraltro modo di godere e filosofare insieme.

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Abbiamo discusso tu ed io su questi discorsi ad Atene, quando l’attore comico Stratone (uomo molto rinomato) era al massimo del suo prestigio, quando cenavamo presso l’epicureo Boeto e insieme a molti altri della sua setta. Come era naturale tra persone che hanno vocazione alla ricerca, la menzione della commedia ci ha portato a discutere sul perché veniamo afflitti e infastiditi nell’ascoltare le voci di persone arrabbiate, addolorate o impaurite, mentre gioiamo all’assistere a coloro che recitano queste passioni e imitano le voci come le disposizioni di coloro che sono afflitti. Gli altri ospiti erano sostanzialmente unanimi nel dire che, dato che l’attore è superiore e distaccato dal personaggio sofferente che impersona perché non soffre a sua volta, la sensazione di ciò procura in noi piacere e allegria. Benché le discussioni estetiche non fossero esattamente il mio forte, dissi che in realtà noi uomini – che siamo per natura razionali e amanti di ciò che è prodotto con arte – ci rallegriamo e ci stupiamo spontaneamente per ciò che è realizzato razionalmente ed artisticamente. Al pari dell’ape che insegue e ricerca tutta quella materia che si trova a contenere del miele, essendo amante della dolcezza, così l’uomo – essendo amante dell’arte e del bello – è incline ad approvare e amare conformemente a natura tutte quelle cose che partecipano di ragione e intelletto. Se dunque a un bambino mettiamo davanti un pezzo di pane e nello stesso tempo una riproduzione in terracotta di un cane o di un bue, egli verrà più attirato dalla seconda. O ancora, se in una mano gli porgiamo un pezzo di argento grezzo e nell’altra gli avviciniamo un animaletto argentato, o una coppa fatta della stessa materia, sceglierà le seconde, perché tradiscono maggiore artisticità e razionalità. Per la stessa ragione, anche i bambini molto piccoli gioiscono di più al sentire i discorsi enigmatici, e si nota che tra i fanciulli sono più apprezzate le cose complicate e difficili. Ciò che è complesso e intricato attira senza ammaestramento la natura umana, perché è cosa a lei propria. Ora, colui che è afflitto veramente da ira o sofferenza si mostra in preda a passioni e movimenti comuni, mentre grazie all’imitazione queste stesse cose si manifestano con una certa elaboratezza e persuasività; sicché, noi proviamo piacere verso queste ultime e avversione verso le prime [cioè le passioni non rielaborate]. È sgradevole vedere un uomo malato, o che esala l’ultimo respiro. Ma vediamo con piacere e ammiriamo il dipinto di Filottete, così come la statua di Giocasta, al cui volto si dice sia stato mischiato ad arte dell’argento, di modo che il bronzo dà come l’impressione di un volto di un essere umano che sta per mancare e morire. Ma quanto detto, o Epicurei, anche per i Cireanici costituisce un grande argomento contro di voi, perché dicono che il piacere non dipende dalla vista e dall’udito, ma dalla mente che riflette sulle cose udite e viste. Difatti, il costante gracchiare di un corvo o il continuo muggire di una mucca è spiacevole e fastidioso; però chi imita bene questi rumori rallegra [l’ascoltatore]. Non c’è poi niente di gradevole nel vedere uomini in consunzione, e tuttavia guardiamo con piacere dipinti e statue che rappresentano uomini in consunzione, perché la mente è attratta dalle cose imitate per pulsione propria. (…) È allora massimamente evidente che le cose che si mostrano allo stesso modo ai sensi non influiscono allo stesso modo sull’anima, laddove non si giudica con l’opinione che la cosa cui si assiste è stata elaborata razionalmente e meticolosamente (Plutarco, Questioni conviviali, libro V, passo 673c2-674c9)

Affermo che la vana paura della morte e quella verso gli dèi, che colpiscono molti di noi, e la gioia che ha vero valore si genera non dai teatri […] nei bagni, coi profumi o con gli unguenti, che noi abbiamo lasciato alle masse, ma attraverso la scienza della natura (Diogene di Enoanda, fr. 2 Smith, colonna 3.4-14)

Non saprei proprio come intendere quel bene, se eliminassi quei piaceri che derivano dai canti, per mezzo dell’udito, se eliminassi anche quei piacevoli moti che vengono percepiti tramite gli occhi, a partire dalle belle forme, o comunque tutti gli altri piaceri che, nell’intera persona umana, sorgono grazie a qualsiasi senso. Né, in verità, si può dire che tra i beni si trovi soltanto la letizia dello spirito. Infatti, è così che so che la mente si allieta: nella speranza di tutti quei piaceri che ho elencato sopra, possa accadere che la nostra natura, una volta impadronitasi di essi, rimanga priva di dolore (Cicerone, Disputazioni Tuscolane, libro III, § 18.41 = fr. 67 Usener)

Cosicché, anche i simposi hanno fornito l’occasione per mimi, pantomime e la recitazione di scene da Menandro, non perché queste rappresentazioni «rimuovono i dolori del corpo», né perché producono «lievi e soffusi movimenti nella carne». È perché in ciascuno il naturale amore per il teatro e il desiderio di conoscere la propria anima cerca la propria gratificazione e diletto, tutte le volte che è libero dalla cura del corpo e ha tempo libero (Plutarco, Questioni conviviali, libro V, introduzione, passo 673b1-8)

[La traduzione dei passi del libro V delle Questioni conviviali di Plutarco e del frammento di Diogene di Enoanda è mia. Il passo di Cicerone è invece tratto e tradotto da Ilaria Ramelli (a cura di), Epicurea. Testi di Epicuro e testimonianze epicuree nella raccolta di Hermann Usener, presentazione di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2007]

Enrico Piergiacomi
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