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Luminaria: la bellezza algida della luce nella sesta edizione di Digitalife

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Digitalife. Sesta edizione all’insegna della luce. Fino al 6 dicembre 2015 al MACRO Testaccio

 

Boite noire. Foto di Martin Messier
Boite noire. Foto di Martin Messier

Da gennaio a dicembre, dal Regno Unito all’India, dalla Cina agli Stati Uniti, dal Brasile alla Spagna. Da un capo all’altro del pianeta per dodici mesi, convegni, workshop, masterclass, ma anche mostre, installazioni, photo contest per celebrare la luce. Sì, perché il 2015, come proclamato dall’Assemblea Nazionale delle Nazioni Unite, è l’International year of light and light-based tecnologies. E se l’iniziativa globale punta soprattutto ad accrescere la consapevolezza su come la luce, e le tecnologie su di essa basate, possano promuovere lo sviluppo sostenibile, e a fornire soluzioni alle sfide in materia di energia, istruzione, agricoltura e salute, la cultura non è certo esente, come lo dimostrano i tanti eventi in programma. Diverse le iniziative nel nostro paese: solo per fare qualche esempio, a L’Aquila ogni sera, fino al 25 ottobre, il centro storico si illumina con installazioni site-specific, per porre l’accento sulla ricostruzione post terremoto. O ancora a Capri fino al 3 dicembre c’è un festival all’aperto, con artisti internazionali chiamati a raccontare – con la luce – i luoghi e le storie dell’isola.
E nella capitale, la Fondazione Romaeuropa, sempre attenta alle nuove tecnologie e alle loro possibilità di dialogo con l’arte, dà vita alla sesta edizione di Digitalife, dal titolo Luminaria, visitabile alla Pelanda – Macro Testaccio fino al 6 dicembre.
Troviamo istallazioni luminose, sonore, interattive, multimediali, video e sculture cinetiche, realizzate da designer, artisti del suono e della luce, videomaker, in larga parte provenienti dal Quebéc, grazie alla nuova collaborazione con Elektra – Festival d’arte digitale di Montréal.
Sono bui gli ambienti, tende nere dividono una sala dall’altra, coprendo le ampie vetrate, in modo che le opere non entrino in conflitto tra loro, e che il fruitore abbia un proprio spazio di visione e di assimilazione.
Lavora sull’idea di musica concreta, prodotta cioè con gli oggetti del quotidiano, Martin Messier, che per Digitalife propone Boîte noire: dentro una teca di vetro fasci di luce si muovono in orizzontale, in verticale, in diagonale. Sono oscillazioni sonore trasformate in raggi luminosi, che incontrando il fumo contenuto nella teca, acquistano corposità e, in alcuni momenti, forme che ci paiono note. Talvolta sembra delinearsi una finestra, o una vela rigonfia per il vento, o, ancora, le linee di un elettrocardiogramma. Se il dispositivo multimediale di Messier ci attrae anche per la capacità di immaginazione che ci stimola, ha una fascinazione più geometrica, e più rigorosa, il lavoro di Nicolas Bernier, che con Frequencies (light quanta) propone una riflessione sul quanto, il valore minimo misurabile dell’energia. Cento lastre di plexiglass, montate una di seguito all’altra, investite da un fascio luminoso, rivelano “informazioni” che ai nostri occhi arrivano come rettangoli, cerchi, onde, triangoli.

Inferno. Foto di Gregory Bohnenblust
Inferno. Foto di Gregory Bohnenblust

Bernier permette di girare intorno al suo tunnel, posizionato al centro della sala, mentre Alexandra Demetieva chiede di entrare nella sua installazione, Breathless, formata da tre sculture luminose. Mentre due di queste proiettano alcune parole che si trovano frequentemente in rete, parole legate al concetto di paura e di desiderio (amore, successo, terrore, alluvione, sono solo alcune di quelle che scorrono sui display), la terza interagisce con l’ambiente. A far brillare le gabbie cilindriche, non è solo la frequenza delle parole (più sono ripetute più la scultura diventa luminosa), ma può essere anche il nostro respiro. Soffiando sull’anemometro, infatti, alteriamo l’illuminazione della gabbia.
E se in questo caso siamo noi ad agire, nell’installazione di Bill Vorn e Louis-Philippe Demers siamo invece mossi da mani altrui. Nella sala troviamo esoscheletri da indossare, del peso di circa 20 chili, un’imbracatura che, azionata dai due artisti, induce a una serie di movimenti nell’oscurità (ricordiamo che noi abbiamo partecipato alla performance del 9/10 ottobre, che prevedeva il coinvolgimento del pubblico, ciò che si può vedere per l’intera durata della mostra è, invece, l’installazione robotica).
Se il titolo d’ispirazione dantesca, Inferno, allude al concetto di punizione, c’è anche un aspetto avveniristico, si pensa a un mondo futuristico, popolato di macchine, in cui l’uomo, e il suo corpo, non hanno alcuna utilità, se non quella di essere manipolati.

Fuji. Foto di David Hanko
Fuji. Foto di David Hanko

E, in conclusione di questo personalissimo percorso, che non vuole rendere conto di tutte le opere esposte, l’installazione più poetica, quella di Joanie Lemercier, capace di infondere un senso di pace. Il paesaggio che ci troviamo di fronte, disegnato a mano, è quello del Monte Fuji (che dà il titolo all’opera). Sul landscape sono proiettate alcune immagini, la luna, le nuvole, le canne di bambù, i vapori del vulcano. Visioni che rimandano alla leggenda giapponese di Kaguya-hime, alla storia di una principessa venuta dalla luna. Un finale fiabesco, per un lavoro che intreccia manualità e multimedialità, trascinando in una dimensione più sognante e più emotiva. E regalandoci un calore, che la bellezza algida delle altre opere ci aveva, in parte, negato.

Rossella Porcheddu
Twitter @Ross_Porcheddu

LUMINARIA
Luce e nuove tecnologie in mostra
La Pelanda/Macro Testaccio
dal 10 ottobre al 6 dicembre

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