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Teatrosofia #16. La Repubblica platonica e l’arte mimetica

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. In questo appuntamento nasce l’utopia della Repubblica di Platone.

In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

turner
William Turner, The Rise of Carthaginian Empire, 1815

La sconfitta inflitta da Callicle a Socrate nel Gorgia non costituisce l’ultima parola di Platone sulla questione politica. Persa la battaglia, il filosofo reagisce con un progetto più ambizioso e di ampio respiro. Gli individui come Callicle pensano che sia giusto e bello prevaricare i più deboli, perché così sono indotti a pensare dalla struttura sociale in cui sono inseriti. Ad esempio, i poeti insegnano a uomini e donne sin da bambini che gli dèi stessi amano commettere ingiustizia, recitando i poemi omerici che rappresentano la divinità mentre compie atti ingiusti, che allora diventa un paradigma di vita esemplare, ovvero da imitare. Di conseguenza, per cambiare le cose, occorrerà modificare alla radice la società e rifondare l’educazione dei giovani, attraverso la creazione di favole edificanti intorno al divino e il continuo invito a ritenere preferibile la giustizia all’ingiustizia. Nasce in tal modo l’«utopia» della Repubblica, che sarà delineata in dieci, densissimi libri.
È noto che il dialogo vagheggia una riforma sociale, che prevede l’ottemperanza di alcuni punti programmatici: la strutturazione della città in tre classi («lavoratori», difensori, governanti); l’invito a svolgere un’unica attività, cioè quella a cui ogni cittadino è più propenso per natura («a ciascuno le cose proprie»); l’abolizione della proprietà privata e l’istituzione della comunione delle donne e degli uomini; la consegna del potere ai filosofi, che conoscendo l’idea del Buono possono insegnare come diffondere il bene nella città. Meno noto è invece come Platone articoli questo programma politico con un confronto costante con il teatro e l’arte dell’attore.

atene
Carl Graeb, View of Athens, olio su tela 1853

L’argomentazione a favore del secondo precetto è la più esplicita in tal senso. Nel libro III, Platone rappresenta Socrate che dialoga con Adimanto e cerca di indurlo a convenire che nessuno può raggiungere la piena padronanza di due o più occupazioni, dunque che è necessario che i cittadini svolgano una sola attività per tutta la vita, in questo contesto specifico che i guardiani facciano solo i guardiani e non anche gli imprenditori, gli insegnanti, e via dicendo. Uno degli argomenti forniti prevede appunto il confronto con l’arte mimetica. Nessun imitatore riesce a eccellere in due pratiche imitative distinte: il poeta comico non raggiungerà mai i livelli del poeta tragico, oppure il rapsodo che recita i versi omerici non eguaglierà mai l’attore che recita un testo drammatico, e viceversa. E se il discorso vale per ambiti di competenza affini, a maggior ragione dovrà valere per discipline completamente differenti e che riposano su principi teorico-pratici diversi.
Si può certamente discutere sulla plausibilità del discorso di Platone sull’imitazione. Lo stesso filosofo sembra anzi apertamente auto-contraddirsi, poiché sostiene nel finale del Simposio che chi abbia l’arte mimetica sa comporre sia la tragedia che la commedia. Gli studiosi hanno offerto i più disparati tentativi di soluzione del problema, ma mi pare che tre siano quelli maggiormente persuasivi.

Il primo è che Platone semplifica la questione nella Repubblica per esigenze politiche. Egli deve mentire per persuadere ad accettare il principio dell’«a ciascuno le cose proprie». Se ciò è vero, si ha un legittimo motivo per diffidare dei tentativi di fondazione politica a partire da criteri estetici.
Il secondo tentativo è supporre che il Simposio parli dell’imitazione in generale, mentre la Repubblica delle sue specializzazioni. Platone direbbe, in sostanza, che chi apprende l’arte mimetica sa comporre tragedia e commedia, o recitare versi omerici e testi drammatici, ma poi deve scegliere in cosa eccellere e su cosa concentrarsi per tutta la vita. Ogni drammaturgo e attore sa fare in potenza tutto, però può poi tradurre in atto ai massimi livelli solo una delle tante branche mimetiche. La terza soluzione consiste infine nell’ipotizzare che il finale del Simposio alluda a uno speciale genere di imitazione: la scrittura del dialogo filosofico, che si avvale di mezzi sia comici che tragici per indurre il suo lettore a sposare una certa tesi. Se infatti si legge una qualunque opera di Platone, si riscontra che quest’ultimo concepisce un dialogo come un testo che mischia serietà e riso, arrivando spesso a una sintesi dolceamara delle due. Ne è il caso più lampante il racconto della morte di Socrate del Fedone, dove al commovente atteggiamento del filosofo, che va incontro alla fine senza paura accettando l’idea che l’anima sia immortale, fanno da contrasto le domande cretine del discepolo Critone. La Repubblica e il Simposio sarebbero in tal senso incommensurabili, perché prendono di mira due contrastanti obiettivi estetici ed etici.

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“Tanto meno dunque potrà dedicarsi ad un’occupazione degna di nota e al tempo stesso imitare molte cose con abilità mimetica, se è vero che uno stesso poeta non è capace di praticare bene i due tipi di imitazione che sembrano esser vicini tra loro, cioè di comporre insieme tragedie e commedie. Non le chiamavi poco fa entrambe imitazioni?”. “Io sì: e dici il vero, una stessa persona non ne è capace”. “E neppure di fare insieme il rapsodo e l’attore”. “Vero”. “Ma vedi, neanche gli stessi attori recitano sia commedie sia tragedie; eppure si tratta sempre di imitazioni, o no?”. “Imitazioni”. “E mi pare, Adimanto, che la natura dell’uomo sia frazionata in spiccioli ancora più piccoli di questi, sì che è incapace di imitare bene molte cose o di fare quelle cose stesse che le imitazioni appunto copiano”. “Verissimo” egli disse. “Se dunque vogliamo salvaguardare la premessa del discorso, che i nostri difensori, esentati da ogni altro servizio, debbano essere rigorosi artefici della libertà della città senza dedicarsi ad alcun’altra occupazione che non conduca ad essa, allora niente altro dovrebbero fare né imitare (Repubblica, libro III, 395a-c)

Socrate li costringeva a convenire che è dello stesso uomo l’essere capace di creare commedia e tragedia e chi è tragediografo per arte è anche commediografo (Simposio 223d)

Ebbe appena finito che Critone gli chiese: «Hai da darci qualche disposizione, Socrate, sui tuoi ragazzi o cosa possiamo fare per te, che ti sia maggiormente gradita?». «Non ho nulla di nuovo da dirvi,» rispose, «se non quello che vi ho sempre detto: abbiate cura di voi stessi e così farete cosa gradita a me e a voi, anche se ora non mi dovete promettere nulla; se, invece, vi lascerete andare, se non sarete disposti a seguire, per così dire, le tracce di quanto s’è detto, non solo ora ma anche per il passato, se pure adesso venite a farmi molte e solenni promesse, non concluderete un bel niente». «Ce la metteremo tutta a far come tu dici,» assicurò. «Ma per i tuoi funerali, che dobbiam fare?». «Ma fate come volete, sempre che riusciate ad afferrarmi e che io non vi sfugga».
Sorrise serenamente e volgendo gli occhi verso di noi, soggiunse: «Non mi riesce, amici, di persuadere Critone che il vero Socrate sono proprio io, questo che, ora, vi sta parlando, che sta mettendo in buon ordine, per benino, i suo pensieri; invece, egli crede che io sia già un altro, quello che tra poco vedrà cadavere e perciò mi chiede cosa fare per i miei funerali. E tutto il lungo discorso che vi ho fatto, che cioè, dopo che ho bevuto il veleno, io non me ne starò più con voi ma me ne andrò, via di qui, verso la felicità dei beati, mi pare proprio che per lui sia stato inutile, fatto solo per consolare voi e, a un tempo, un po’ anche me stesso. Fatevi voi, ora, garanti di me verso Critone, ma del contrario di ciò che in mio nome egli garantì ai giudici, che cioè non sarei fuggito; voi, invece, assicurategli che io non rimarrò qui dopo morto ma che me ne partirò, così che Critone potrà sopportare più facilmente la cosa e non dolersi troppo per me vedendo bruciare o seppellire il mio corpo, come se stessi soffrendo chissà quali atroci tormenti e non dire, magari, durante i funerali che è il suo Socrate che egli espone, che sta portando via e che va a seppellire. Devi, infatti, sapere, mio caro Critone, che parlare in modo scorretto, non solo è brutto di per sé ma danneggia anche le anime. Suvvia, non avere, di queste preoccupazioni, quindi e di’, piuttosto, che è solo il mio corpo che seppellisci e perciò fa come credi, come meglio vuole l’usanza».
[…] Egli, allora, andò un po’ su e giù per la stanza, poi disse che si sentiva le gambe farsi pesanti e cosi si stese supino come gli aveva detto l’uomo del veleno il quale, intanto, toccandolo dì quando in quando, gli esaminava le gambe e i piedi e a un tratto, premette forte un piede chiedendogli se gli facesse male. Rispose di no. Dopo un po’ gli toccò le gambe, giù in basso e poi, risalendo man mano, sempre più in su, facendoci vedere come si raffreddasse e si andasse irrigidendo. Poi, continuando a toccarlo: «Quando gli giungerà al cuore,» disse, «allora, sarà finita». Egli era già freddo, fino all’addome, quando si scoprì (s’era, infatti, coperto) e queste furono le sue ultime parole: «Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo, non ve ne dimenticate».
«Certo,» assicurò Critone, «ma vedi se hai qualche altra cosa da dire».
Ma lui non rispose. Dopo un po’ ebbe un sussulto. L’uomo lo scoprì: aveva gli occhi fissi. Vedendolo, Critone gli chiuse le labbra e gli occhi.
Questa, Echecrate, la fine del nostro amico, un uomo che fu il migliore, possiamo ben dirlo, fra quanti, del suo tempo, abbiamo conosciuto e, senza paragone, il più saggio e il più giusto (Fedone, 115b-116a + 117e-118a)

[Si consiglia, per conoscere la Repubblica, l’eccellente edizione in sette volumi con commentario di Mario Vegetti (a cura di), Platone. La Repubblica, 7 voll., Napoli, Bibliopolis, 1998-2007. La traduzione del passo del libro III del dialogo è tratta dal vol. 2. Per il Simposio, cito invece l’edizione di Matteo Nucci (a cura di), Platone. Simposio, Torino, Einaudi, 2009. Infine, i due passi del finale del Fedone provengono da Enrico Maltese (a cura), Platone. Tutte le opere (vol. 1), Roma, N&C, 1998, con la traduzione di Gino Giardini]

Enrico Piergiacomi
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