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Dalla nona conferenza di Women Playwright International: il teatro declinato al femminile. 2/3

Gli attori (sul palco) e, a destra, Marcia Johnson (Canada)

È d’altronde emblematico che drammaturghe esperte e talentuose come Patrizia Lo Monaco e Ana Candida de Carvalho Carneiro (brasiliana di origine e italiana di adozione), entrambe presenti al convegno, siano così scarsamente note al pubblico italiano. La lettura del testo di de Carvalho Carneiro è seguita da un sincero e ammirato applauso, e viene da chiedersi come mai Babele, un dramma ritenuto valido e convincente a livello internazionale, non sia ancora stato prodotto in Italia, nonostante si sia recentemente aggiudicato la vittoria del premio Hystrio «Scritture di Scena». Qualche risposta viene suggerita da Bruna Braidotti, attrice e drammaturga, fondatrice della Compagnia di Arti e Mestieri di Pordenone e organizzatrice della rassegna “La scena delle donne”, che da quasi trent’anni si prodiga per attivare una rete di teatri, compagnie, artiste, che pongono al centro della propria attività creativa la donna, il femminile e soprattutto la loro rappresentazione: «Cerco di creare occasioni di confronto sulla rappresentazione delle donne», spiega Braidotti «da quando, agli inizi della mia formazione teatrale studiando Commedia dell’arte a Venezia, mi sono resa conto che la maggior parte dei ruoli in teatro sono maschili mentre la maggioranza degli aspiranti attori è femminile. Un’incongruenza che mi ha fatto riflettere sul fatto che le donne hanno bisogno di rappresentarsi, di salire sul palco, di essere visibili, e che nello stesso tempo incontrano molti ostacoli a cominciare dal fatto che la drammaturgia è scritta prevalentemente da uomini, per registi uomini che dirigono per lo più attori maschi». Basta infatti scorrere uno dei tanti cartelloni dei Teatri Stabili (e non solo) italiani per rendersi conto che i nomi femminili in corrispondenza delle diciture “scritto da” e “diretto da” di certo non abbondano. «Ma la questione è anche e forse soprattutto politica», prosegue Braidotti «In Italia ad avere scarsa visibilità e influenza non sono infatti soltanto le donne che rappresentano il mondo per raccontarlo e interpretarlo (le artiste), ma anche coloro che lo rappresentano per governarlo (politiche, dirigenti).» Basta dare una seconda rapida scorsa ai cartelloni di cui sopra per rendersi conto che gli spazi teatrali gestiti, diretti e amministrati da donne nel nostro Paese sono delle vere e proprie rarità. E se il teatro è specchio dell’umano e della società, che conclusione se ne trae? Una società, un mondo, un’umanità filtrati prevalentemente da occhi maschili non rischiano forse di apparirci distorti, sfocati o quantomeno parziali? «Una delle mancanze che stanno alla base del non riconoscimento delle donne», spiega Braidotti «è anche la mancanza di “maestre” a cui far risalire la propria tradizione culturale, elemento dell’appartenenza sociale e fonte di identità.» A quale artista, infatti, è stato universalmente e unanimemente attribuito il titolo di Maestra in Italia? Chi viene riconosciuta e salutata con questo appellativo, proponendosi come variante femminile dei numerosi e noti Maestri maschi? Quante sono, in Italia, le donne che scrivono per il teatro? Pare sia piuttosto difficile scoprirlo, dato che un funzionario della SIAE, su richiesta di Braidotti, si è rifiutato di fornire i dati quantitativi ufficiali degli iscritti alla sezione DOR adducendo la necessità di tutelarne la privacy.

Di tutto questo si è discusso a Stoccolma, dove nell’ambito di un incontro sul tema dell’uguaglianza di genere, la delegata inglese Sam Hall ha spiegato come la partita delle pari opportunità sia ancora tutta da giocare anche nel democraticissimo epolitically correct Regno Unito. «Sono laureata in drammaturgia. All’università il 90% dei miei compagni del corso di studi erano donne», spiega Hall. «Una volta entrata nel mondo del lavoro, mi sono resa conto che la proporzione era esattamente invertita e mi sono chiesta il perché. La risposta è molto complessa e va ricercata in ambiti diversi, ma riassumendo si può dire che gli uomini sono universalmente accettati in quanto creatori d’arte da molto più tempo, hanno una lunghissima tradizione a cui fare riferimento, quindi ogni donna che raggiunge un certo successo in ambito artistico viene percepita come “una donna in un mondo di uomini”. Solo il 17% delle novità teatrali che ogni anno vengono rappresentate sui palcoscenici britannici sono scritte da donne, però il 52% delle popolazione e il 65% del pubblico teatrale è composto da donne, un’incongruenza che fa riflettere.» È stato così che nel 2009 ha deciso di dare vita alla 17% campaign, organizzazione volta a promuovere il lavoro delle drammaturghe che operano sul territorio britannico.

Le cose non vanno meglio in Svezia, nazione notoriamente progressista e all’avanguardia in tema di pari opportunità; qui, una proposta di legge che obbligava i teatri a produrre almeno il 10% di novità scritte da donne è stata bocciata, invocando una tesi che si regge su un’argomentazione piuttosto discutibile: per assicurare l’eccellenza della programmazione artistica bisogna appellarsi a criteri che abbiano a che vedere solo ed esclusivamente con l’arte, non si può tenere in considerazione la razza, l’orientamento sessuale e tantomeno il sesso dell’artista. L’arte è superiore alla politica? Ne è estranea? Ma non è forse anche un modo e un luogo privilegiato dove riflettere le diversità, dove potersi specchiare e riconoscere, dove tenere conto dell’altro e poter abbracciare prospettive inedite? Cosa significa, e che ripercussioni ha a livello sociale, politico e artistico, escludere lo sguardo femminile dal teatro? E le scelte vengono davvero sempre operate in virtù di criteri qualitativi? La Dottoressa Yael Feiler ha cercato la risposta a queste domande nell’ambito del progetto di ricerca Choosing and Excluding (Scegliere ed escludere), dal quale è emerso che in Svezia le reticenze e le difficoltà nell’applicare le leggi sulle pari opportunità in ambito teatrale sono legate al fatto che i politici sono restii a immischiarsi in decisioni di natura artistica; temono quella che percepiscono come una pericolosa invasione di campo in un ambito che, affermano, non è di loro competenza, e stentano a includere nella nozione di «qualità» il concetto di «uguaglianza». Tale reticenza da parte dei politici svedesi offre spunti di riflessione se paragonata alla realtà italiana, dove l’ingerenza di una politica corrotta e avida che ha finito col ripiegarsi su sé stessa piuttosto che occuparsi delle problematiche e degli interessi della popolazione, sarebbe più che benvenuta in questo senso.

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