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A Settimo Torinese, la classe operaia va in paradiso

Una gigantesca fucina in acciaio da cui scendono a cascata fili, tubi e brandelli di copertone: così è ritratto, tra tecnologia e fantascienza, il mondo della fabbrica nella bella scenografia di Maria Spazzi. È qui che si svolgerà il viaggio conoscitivo di un giovane in prova presso la stabilimento Pirelli di Settimo Torinese; e con lui, naturalmente, viaggerà il pubblico.

Serena Sinigaglia, che firma la regia e la drammaturgia, marca il suo allestimento con un contrasto: quello tra un testo iper-realista composto da testimonianze di operai e una messa in scena che si svolgerà in un codice ben più astratto e scanzonato. La cifra stilistica della regista è ben riconoscibile: una decisa coralità, una recitazione energica e allegramente sopra le righe, una predisposizione a creare immagini efficaci, una freschezza capace di raggiungere gli spettatori e di attivare con loro una comunicazione immediata. Questa inclinazione, ben affinata negli anni, le ha permesso di rimettere letteralmente in vita classici come Aristofane, Euripide, Shakespeare, ma pare adattarsi meno alla materia di per sé attuale e impoetica della fabbrica. A chi ha seguito il percorso dell’Atir saranno tornati in mente allestimenti come “1989 Crolli” o “Come il cammello in una grondaia” nei quali venivano affrontati con il medesimo piglio particolari momenti storici: spettacoli che hanno segnato tappe importanti della compagnia, ma che non hanno raggiunto la maturità artistica conquistata appieno altrove.

Si ride, si segue senza mai un momento di noia, si godono i ben orchestrati momenti corali; tuttavia il risultato è uno spettacolo che piacevolmente racconta e descrive, ma non interpreta. Ben venga dunque per i molti giovani presenti in sala che – mentre visibilmente si divertono – acquisiscono qualcosa di prezioso; ben venga anche per chi di fabbrica, di storia del lavoro e di Settimo Torinese ha sentito parlare poco. Ma ci si sarebbe aspettati – specie in tempi come questi – un passaggio in più da una regista così attenta alle piaghe del contemporaneo: dello stabilimento viene invece dipinto un quadro ironico, allegro, quasi in chiave cartoon. L’immagine che emerge dalle testimonianze degli operai – raccolte dalla dott.ssa Roberta Garruccio e messe in drammaturgia dalla stessa Sinigaglia – è quella di un luogo di lavoro quasi in stile Olivetti, dove a prevalere è la dimensione umana, dove si fanno battute razziste ma in fondo si rispetta tutti, dove le lotte degli anni ’70 vengono ricordate con allegria intonando “Contessa”, dove il capoturno è esigente ma simpatico, come un Gatto Silvestro facilmente disinnescabile.

Forse un debutto al Piccolo Teatro – in collaborazione con Fondazione Pirelli – non era l’occasione giusta per parlare di tutela dei lavoratori, degli effetti della produzione di pneumatici sulla salute degli operai o per indagare il trattamento di Pirelli degli infortuni. E certo una prospettiva da teatro d’inchiesta in questo caso neanche interessava: fin dalle note di regia, Serena Sinigaglia dichiara di aver tolto ogni riferimento specifico per dipingere piuttosto un affresco corale. L’allestimento mette infatti in luce alcuni macrotemi, quasi archetipi contemporanei: i sistemi produttivi che cambiano, il lavoro come valore, il conflitto, il passaggio di saperi e la continuità tra giovani e vecchi. L’affresco certamente emerge, disegnato con “leggerezza e fantasia” (così Sinigaglia), ma il dubbio resta a monte: è giusto limitarsi a sorridere di questi temi?

Maddalena Giovannelli

in scena fino al 19 febbraio
Piccolo Teatro Studio
Milano

Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Stratagemmi

Settimo
La fabbrica e il lavoro
drammaturgia e regia Serena Sinigaglia
scene Maria Spazzi
costumi Federica Ponissi
luci Alessandro Verazzi
musiche Sandra Zoccolan
con Ivan Alovisio, Giorgio Bongiovanni, Fausto Caroli, Andrea Collavino, Aram Kian, Franco Sangermano, Beatrice Schiros, Francesco Villano, Maurizio Zacchigna
assistenti alla drammaturgia Giorgio Finamore, Omar Nedjari
assistente alla regia Omar Nedjari
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
in collaborazione con Fondazione Pirelli

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1 COMMENT

  1. “Ridere di questi temi”. A fine spettacolo io piangevo; la mia amica, neo laureata, pure. In uno spettacolo teatrale, oggi, credo che l’importante sia un’operazione maieutica: rendere consapevole lo spettatore di ciò che già sa, di ciò che intimamente lo lega al tema toccato dalla messinscena. Non è più tempo di registi che insegnano, di drammaturgie autoreferenziali che iniziano e finiscono in sé stesse. Per troppo tempo il pubblico si è trovato ad assistere a spettacoli mirabili e tecnicamente ineccepibili, ricchi di idee, informazioni, dettagli ma, appunto per questo, che erigevano un muro (quasi paragonabile a quello dello schermo televisivo) tra loro e chi assisteva in sala. Al pubblico di oggi non serve andare a teatro “per capire” il regista, la drammaturgia, la storia… a noi, credo, serve “essere capiti”. Serve una mano tesa dal palco, un ponte su cui regista, testo e attori, attraversano ogni barriera giungendo a noi, prendendoci per mano e portandoci di là. Di la dove? Di là dove ci sono le emozioni, le idee, le passioni, le informazioni che abbiamo dimenticato in un angolo di noi stessi. Il coro è questo. Serena, non lavora se non per questa operazione maieutica, appunto, che risvegli nelle persone (qualsiasi sia la loro formazione, cultura e provenienza) ciò che avevano dimenticato di sapere, di aver vissuto. “Cazzo, io sono pronto” è vero. L’ho vissuto anche io che in fabbrica non ci lavoro, che sto per laurearmi e che ho davanti, soprattutto nel mondo di oggi, l’ignoto, il salto nel vuoto. Ma cazzo, sono pronta. Le notizie che mi bombardano ogni giorno, le sigle dei tg all’ora di pranzo, l’immagine fondamentalmente nebulosa quanto ridicola che tutti noi abbiamo del “mercato”. Non è forse questo, che lo spettacolo ci pone davanti? Non è forse lo stesso per un professore, per un critico teatrale quanto per mia nonna o mio fratello di tredici anni? Davanti a “Settimo” ci sentiamo “compresi” nel doppio senso del termine: capiti e tenuti in considerazione. “Sì, è vero! Anch’io ho questa idea, anch’io ho provato questa emozione. Anche per me vale lo stesso..” non ho fatto che pensare. Non è lo spettacolo che “ride di questi temi”, è la società intera che lo fa e la SInigaglia ce lo rende ben chiaro. Settimo non è un punto di arrivo, è l’imput, lo spunto di riflessione da cui ognuno di noi, chiamato in causa personalmente, deve partire per offrire il proprio piccolo grande contributo al miglioramento della società. Cazzo, io sono pronta. E voi?

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