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Daniele Timpano ricerca Aldovivo dentro l’immagine di Aldomorto

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Aldomorto - Tragedia
Aldomorto – Tragedia

La prima cosa che s’incontra, entrando nella sala dove Daniele Timpano sta per portare in scena Aldomorto – Tragedia, è un foglio al posto dove ci si siederà. Un volantino che reca una prima pagina de la Repubblica, ridotta per necessità e ingiallita per il tempo. Il titolo in alto porta la scritta: “Ore contate per Moro”, e subito la nostra mente va – chi c’era e chi invece, più giovane, non ancora – a rintracciare un periodo storico nella memoria espositiva della sua comunicazione, anche senza leggere la data che infatti, così offuscata, non si percepisce. Al centro una delle immagini mediaticamente più forti e significative dell’ultimo Novecento italiano: Aldo Moro sotto la bandiera rossa e la stella a cinque punte con la scritta Brigate Rosse. Nulla sconvolgerebbe se non fosse che, al posto del presidente DC sequestrato il 16 marzo e ucciso il 9 maggio 1978, c’è il viso di Daniele Timpano. Tutto ciò è determinante per l’intero spettacolo: il suo monologo cerca di raccontare una storia, non raccontandola mai; Timpano è consapevole – mutuo dalle parole di Celestini in Scemo di guerra – che “i fatti succedono, ma nessuno li può raccontare”, sa quanto se ne perda d’umanità là dove la storia, atteggiandosi a leggenda, troppo spesso quell’umanità tradisce. Per questo la sua indagine inizia da un maestoso falso storico, perché ne avverte il carattere posticcio in una narrazione che sarebbe sempre e comunque di seconda mano, quindi corrotta, insanata frattura tra avvenimento e rappresentazione.

L’intento di ricostruzione puntuale, secondo il proprio metodo espressivo, è per Timpano una scelta già nota da altri lavori (per tutti Dux in scatola). La raccolta di materiali, cui dovere fedeltà, è uno degli elementi cardinali della sua creazione, sensibilmente di più rispetto ad altri artisti; il suo carattere performativo poi ne interroga le incongruenze sul suo corpo in scena, ne rintraccia figure diventate icone e sbiadite nella nebbia comunicativa che ne avvolge piccole verità, ravvisa fatti complessi che il tempo ha reso non altro di piatte, svilite notizie, si domanda infine perché accettiamo aldomorto senza mai fare sforzo di conoscere quello ch’era aldovivo. Qui è il nucleo dello spettacolo: non fa narrazione Timpano perché sa che non è possibile, così cerca di fare la cosa più sincera che può, riportare davanti agli occhi – nostri e propri – una materia troppo facilmente accettata come una fiction; lo fa con leggerezza e amorosa partecipazione al mezzo scelto – il teatro – che non maschera come altri sotto il segno del giudizio, ma ne mantiene il carattere di intima lealtà.

Con lo stesso sentimento Timpano si fa portatore del privato aldovivo, facendo parlare il figlio attraverso di lui, che riporta a quella dimensione umana travisata dalla perentorietà dell’immagine: di aldomorto sappiamo ogni spettinatura di capelli grigi, ogni fossetta rimasta sul volto di un uomo ucciso, ma cosa sappiamo di aldovivo? Ma soprattutto ci interessa qualcosa? No, non è interessante, anche se forse dell’intera vicenda è l’unica parte raccontabile.

Daniele Timpano "interpreta" Renato Curcio - foto di Futura Tittaferrante
Daniele Timpano “interpreta” Renato Curcio – foto di Futura Tittaferrante

In questo gioco è ben chiaro il continuo entrare e uscire che c’è tra il personaggio e l’attore Timpano (che qui addirittura interpreta con tanto di parrucca o maschera due personaggi effettivi), attraverso la storia come un personaggio delle fiabe, disperso nei meandri di un periodo storico che fa da cesura netta fra due epoche, lui ci porta il suo passo leggero, quasi aleatorio, ma forse il solo possibile, quello in grado di rendere una storia “davvero vera” – per tanta fiction –, almeno plausibile.

Lo spettacolo gode dunque di una ricerca particolarmente appuntita e di una purezza d’intento, la struttura caotica misura proprio la credibilità di quanto diamo per scontato al proposito della materia in questione; non è forse giusto estrapolare un momento cardine in un lavoro così, ma la presenza della famosa Renault 4 rossa telecomandata e il monologo di Renato Curcio sono grandi punti di forza; soltanto da segnalare è l’eccessiva lunghezza (se ne coglie l’intento e la bontà in molto meno tempo) e un finale farraginoso che merita approfondimento e fluidità (fuori anche dall’errore tecnico che in questa occasione l’ha compromesso). Timpano dunque torna nella storia; all’apparenza se ne dichiara ogni volta sconfitto nell’equidistanza, ma la sua indagine rigenera un pensiero atrofizzato, in lui e in chi ascolta. Merito a lui, dunque, di caricarsi tutta sulle spalle questa storia che “è qui davanti a voi. È rimasta così com’è”. Non resta che affondarci, o almeno rendersi conto di quanto, affondati, lo siamo già.

Simone Nebbia

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

5 COMMENTS

  1. Bel pezzo per un bellissimo spettacolo. Quella che tu chiami “purezza d’intento” secondo me ha fatto, rispetto ai precedenti di Timpano, un bel passo in più: come se la consueta antinarrazione stavolta sia uscita dalla maschera di sé stessa. Sì, perché “l’intima lealtà” del teatro non è per niente scontata, secondo me, e spesso si può essere falsi anche al di là dell’assenza di giudizio. Quel “Tragedia” del titolo credo sia anche la tragedia di un artista che decide stavolta di esporsi come altrettanto non aveva mai fatto: prendi la scena in cui tituba sulla lettera da leggere o meno, ad esempio. Stavolta l’ironia non è stata solo una maschera di biacca sul volto dell’iconoclasta designato, ma uno strumento per lasciar emergere, dietro il fallimento della narrazione, un residuo, un sentimento che permette l’apertura alla condivisione. A proposito di tragico…devo tornare a tradurre Seneca, però se vi va: http://www.teatroteatro.it/recensioni_dettaglio.aspx?uart=3178

  2. Devo dire che il commento di Michele Ortore è fantastico. Grazie. Parole molto belle e, dietro l’aspetto lusinghiero che ovviamente mi lusinga, devo dire proprio interessanti e pien di spunti, anche per me.
    Preciso, naturalmente, che quando parla (anzi, parli), di maschera di biacca e iconoclastia, parli in realtà di effetti su di te della mia “opera” precedente (dux? risorgimento?) o di quel che risulta di essa da fuori, dei risultati, insomma, dello spettacolo per come lo vedete da fuori, per come mi è riuscito o per come sembra agli altri sia riuscito, di là dalle mie intenzioni, che sono sempre state e sono molto simili a quelle che sottendono Aldo morto. Insomma, nessuno dei lavori precedenti, distacco cinico/ironico a parte, ha inteso essere iconoclasta per essere iconoclasta, o non tentare un’apertura alla condivisione. Certo, nel tempo, certe linee di percorso probabilmente si sono approfondite, e in questo caso il tema del lavoro, oltre che una difficoltà, è un grosso aiuto. Credo che insieme ad ecce robot (cui non a caso è legato da una serie di riferimenti e, anche, di citazioni interne) questo sia il lavoro dove è stato più facile trovare una corda sentimentale, una vicinanza calda alla materia, un pathos che sfuggisse la retorica. Ma il discorso è lungo e senz’altro lo sto mal facendo e senz’altro lo faccio meglio negli spettacoli che nei post di commento!
    Comunque davvero grazie del commento, e grazie anche a Simone del pezzo: di qualcosina mi piacerebbe parlare con te, prima o poi (che magari non sono d’accordo), di qualcos’altro mi sarebbe piaciuto che tu invece avessi parlato, tentando di entrar nel merito, ad esempio della scena di Curcio dici che è bella ma non tenti di dire di che parla e quale sia il suo senso, ma in ogni caso sia davvero un bel pezzo. Buon lavoro a tutti, dt

  3. eccomi di nuovo. ho letto il pezzo su teatroteatro.it di Michele Ortore: davvero lucido, attento, sensibile. Scritto anche molto bene. Per nulla supponente, persino un po’ affettuoso, ciononostante appunto lucido. Davvero complimenti. Te li faccio qui perché non mi va di iscrivermi per farli direttamente sul sito di teatroteatro.it 🙂

  4. Arrivo con ritardo a ringraziare Michele dell’attenzione che sempre mette sia nella lettura sia nel lanciare un dibattito attorno a certe materie su cui scrive, e bene. Arrivo con ritardo anche per ringraziare Daniele Timpano dell’apprezzamento sul mio pezzo e per avermi suggerito come eventualmente scrivere il prossimo 😉
    Ripeto però che il nostro mestiere, o la mia vaga qualità, è di attraversamento e testimonianza, non si riesce a dar conto di tutto. Quello lo farà lo spettacolo.

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