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L’ottavo giorno chiude Teatri di Vetro, il primo e fuori stagione dei festival estivi

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limite/anticamera
Vincenzo Schino – limite/anticamera

Siamo alla fine. E io dalla fine comincio. Dal giorno dopo, il lunedì che è il primo giorno senza festival. The day after è sempre un po’ frastornante, in ogni caso. Anche di più quando apri la mail e ci trovi un messaggio di Francesca Venuto, ufficio stampa capo al Palladium, che ti dice “Caro Simone, sei finito sul Corsera”. Mi allega l’articolo PDF e dopo otto giorni di diario è davvero una cosa non raccontabile trovarne un piccolo omaggio a firma di chi, in queste folli cronache, mi precede da tanti anni: Franco Cordelli che l’altro giorno s’è sbagliato, che è venuto alla vetrina coreografica ma poi alla fine è rimasto più per il lotto 14 che lo spettacolo in sé, andando via dopo le quattro risate che ci siamo fatti quella sera, alla fine gliel’ho detto che m’avevano accusato di “cordellismo” e lui serio ma divertito: “è una colpa?”. Ci ho pensato un po’ per essere sicuro e rispondere che no, per quanto mi riguarda, non è che un onore. Così, per me, si chiude l’ottavo e ultimo giorno di Teatri di Vetro.

Ad aprirsi s’era aperto un po’ estivo, almeno a giudicare dal fascino della ragazza dell’ufficio stampa, l’altra, in abitino tubolare anni Sessanta e sandali vagamente alla schiava; aria di chiusura e di nuove aperture, mi dico con positivo senso della cose, ché si apre una stagione sempre fertile per il teatro, e questo non è stato che il primo, antistagione, dei festival estivi. Oggi, per concludere, gli spettacoli sono soltanto due, perché poi ci sarà la festa finale all’Angelo Mai, musica fino a notte. Ma sul palco tocca a Vincenzo Schino, regista di Opera cresciuto all’ombra della Valdoca che sta cercando di uscire al sole, e lo fa scontrandosi con un suo Limite. Lo spettacolo è uno studio da oltre un anno, e questa è una misura precisa del valore che gli riconosco: parlandoci qualche giorno fa mi diceva che non riesce a trovare una soluzione efficace per concluderlo e questo denota un impegno eccedente e, per me, determinante a stabilire la vocazione di un artista. Il lavoro ampiamente visivo ha una cupezza espressiva notevole, sullo sfondo non solo fisico ma anche concettuale l’arte pittorica, per un’opera a grandezza palco del pittore Pierluca Cetera, nell’animo un desiderio che ha insieme altezza di riferimenti e qualità del tocco; Schino si fa portatore di una estetica convincente con qualcosa di orwelliano e tendenze al Dogville di Von Trier, che tuttavia non è pienamente svolta e sul palco mi restano due forti immagini, due quadri, non legati insieme da un impianto drammaturgico completo: c’è un nodo fra i due quadri che resta insoluto e che dilapida il patrimonio dell’edificio eretto. Ma il talento c’è, e anche di spessore. Il pubblico in sala è poco, mi sa stanno già tutti all’Angelo Mai perché l’ultimo spettacolo, Crudo di Zeitgeist, lo fanno nel capannone di Caracalla. La scena si apre su tre donne nude, legate assieme come fosse una pira umana, su una distesa di terra semibattuta, un elicottero sorvola e perimetra i loro movimenti, provano ad alzarsi da uno stato larvale, liberarsi, librarsi sopra la tensione coatta, sopra il corpo che si mostra come cenno di esistenza, ma nell’atto di desistere. Stefano Taiuti pone l’accento su due temi forti: il tentativo e il fallimento, ascesa e caduta del genere umano, almeno mi sembra. Tuttavia a un certo punto l’estensione temporale si fa estenuazione e inizio a perdermi completamente, io con altri: un artista giovanissssssimo alla sinistra mi dice che questo tipo di danza gli fa perdere totale interesse al corpo femminile, cui pure è sempre interessato, il critico in palmare sulla destra propone le grazie che si rotolano sulla terra per l’edizione 2010 di Miss Petto Panato…capisco dunque che c’è una dilatazione in cui è difficile rimanere attenti, una lentezza eccessiva che affoga anche il valore che poteva portarsi. Quando poi esce allo scoperto il regista mi smuovo, ma considero anche che, dopo 45 minuti di affanno, una boccata d’aria va bene anche inquinata…perché è banale ricorrere a un tema anche interessante, l’avvento della moda e della chirurgia estetica che sconfigge l’origine naturale, terrena, dell’evoluzione, usando il tessuto liso e un po’ didascalico che propone nell’ordine: sfilata di moda attorno a un corpo in stato larvale che si vestirà di abiti civili, tratteggio sanguinante sotto le curve femminili per dire la chirurgia, Like a virgin di Madonna, uno dei pezzi più facilmente riconducibili a questo assioma. Usciamo, un po’ scossi, un po’ triti.

Ora c’è da concludere, ma come si fa? Qui bisognerebbe avere un martelletto in mano per frantumare questi teatri di vetro…raccoglierne qualche frammento e ricominciare il giorno dopo. Io non ho armi fuori che questo spazio, queste frasi, questa penna. Se qualcuno, soltanto per una volta, ha sorriso leggendolo, o s’è trovato a riflettere su qualche parola lanciata nel vento, il mio lavoro ne godrà per il futuro. Un’ultima immagine, ripensando l’articolo cordelliano che parla di due Simone: l’uno (io) e l’altro, di queste pagine protagonista già nelle puntate precedenti, in mise alla Derrick; ieri sera prima di andare via dal Palladium direzione Angelo Mai m’ha detto Ma dove sta sto posto?, io dico All’altezza di Caracalla, giù verso l’incrocio per l’Appia Antica…Ah sì sì…hai ragione…e se ne va in motorino. Quando mi metto in moto io vado più veloce, poco prima delle Mura Ardeatine lo raggiungo, lo affianco, gli dico Vienimi appresso, ti ci porto io. E così è stato, perché certi posti bisogni andarci insieme, un Simone e l’altro, una generazione e l’altra.

Simone Nebbia

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2 COMMENTS

  1. salve,
    cosa anomala la possibilità di rispondere ad una critica sul proprio lavoro quella offerta dal presente sito.
    dopo molto dubitare sull’eventualità,mi decido oggi a una piccola riflessione sul senso del lavoro da lei svolto in quanto critico in occasione del mio spettacolo CRUDO.
    che l’operazione non le sia piaciuta mi sembra evidente, tuttavia sulle ragioni di questo mi sorge qualche dubbio, soprattutto perchè ne ha dato nel suo articolo motivazioni alquanto superficiali.
    cominciamo dalla lunghezza estenuante della prima scena, e dalla altrettanto estenuante lentezza della danza che ha luogo nella medesima..innanzitutto mi chiedo che esperienza lei abbia della danza butoh, codice espressivo scelto per parlare di guerra e violenza sul corpo, al quale lei non fà alcun riferimento.
    poi mi permetto di dire che la durata, giustamente da lei definita estenuante, rientra in una scelta voluta e consapevole, quella di mettere, lei come gli altri spettatori, di fronte alla durezza di questa violenza, alla sua drammatica reiterazione in tutti gli scenari dove ha luogo costantemente, ben al di là del tempo plausibile di sopportazione di uno spettatore impossibilitato a cambiare semplicemente canale.
    tuttavia , se il suo era uno sguardo sinceramente disponibile a capire ( mi scusi ma un pò ne dubito), e non le è arrivato il senso da me voluto, ho poco da lamentarmi, mea culpa.
    tornando alle scelte ( ovviamente criticabili, ma le assicuro non ingenue)ha giustamente sottolineato
    un orientamento in direzione dei cliché più banali di questa società: bene, me ne assumo la responsabilità, denuncio la banalità del modo in cui viviamo, la sua bassezza, la sua nevrosi e la sua violenza, e lo faccio al primo grado, con una iperbole grottesca che tuttavia le sembra identica alla realtà…a molti, questo ha fatto riflettere.
    quanto alla lotta fra “..corpo naturale e società”, davvero lei è così abituato ed assuefatto alle regole di questa società che un corpo nudo ed agonizzante al centro di una sfilata di moda, di abiti di una volgarità inquietante, non la fa pensare ad altro?
    avrebbe avuto ragione a darmi del moralista, ma proprio così mi pare andare il mondo.
    mi lasciano invece perplesso i riferimenti sessuali contenuti nel suo scritto..spiacente per il suo “giovanissimo” vicino, ma non era titillare i suoi ormoni il nostro intento, e se il critico seduto alla sua destra non trovava niente di meglio da fare che battute da bar sulle tette delle danzatrici, forse dovrebbe riconsiderare il suo ruolo di critico.
    ruolo il quale consiste nel capire, decifrare, riportare, guidando il pubblico e gli artisti ad una maggiore riflessione e profondità.
    dunque, se come lei si augura, la sua attività è volta al far riflettere, impieghi gli strumenti che lei ha, se ne ha, e lo faccia.
    se mai , per sua disgrazia, le accadrà di vedere ancora un mio lavoro, mi stronchi, la prego, ma lo faccia con cognizione di causa.
    cordialmente. stefano taiuti.

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