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HomeArticoliTeatrosofia #76. Onomacrito orfico. Il teatro manipola la verità

Teatrosofia #76. Onomacrito orfico. Il teatro manipola la verità

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Il numero 76 evidenzia alcune ombre sugli usi del teatro nel mondo antico.

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO CHE nel n° 76 fa emergere come il teatro potesse essere utilizzato come strumento per celare o manipolare la verità.

Sacerdotessa di Delfi. John Collier. 1891

Non sempre il teatro ambisce a procurare effetti positivi nel pubblico, come trasmettere amore e interesse per la conoscenza, o manifestare forze che accrescono la vitalità dello spettatore, o invitare a una presa di posizione politica. È accaduto e accade, anzi, che esso fosse usato per ottenere scopi esattamente contrari a questi: mentire e nascondere la verità, manipolare e violentare. Proprio perché il teatro ha in sé delle luci, esso può proiettare anche ombre e pericoli.

Una prima attestazione storica di queste ripercussioni ombrose è rappresentata dal racconto sul filosofo e indovino orfico Onomacrito, ricordato nel libro VII delle Storie di Erodoto. Stando allo storico, questo personaggio avrebbe raccolto gli oracoli in versi di Museo e, quando si recò presso la corte di Serse I re di Persia, tentò di accaparrarsi il suo favore pronosticandogli il successo nel suo proposito di invadere la Grecia, attraverso la recitazione di alcune di queste poesie oracolari. Onomacrito non adottò, però, una politica di sincerità e trasparenza. Se uno degli oracoli di Museo preannunciava qualcosa di negativo, come la disfatta navale a Salamina, egli ne ometteva la menzione e illudeva così Perse che la sua spedizione contro la Grecia sarebbe risultata vittoriosa. A tale operazione già di per sé illecita, va aggiunto che altre fonti antiche – tra cui lo stesso libro VII delle Storie di Erodoto e il dialogo Perché la Pizia non dà più oracoli in versi? di Plutarco  – menzionano come Onomacrito fosse solito manipolare il contenuto dei testi oracolari, aggiungendo o togliendo versi a suo piacere, oppure dando loro una coloritura ancora più “teatrale” e magniloquente.

La pratica di Onomacrito non costituiva un’eccezione. Restando al dialogo di Plutarco, abbiamo notizia che molti altri poeti o filosofi oracolari solevano interpolare versi nuovi negli oracoli antichi, tra cui l’orfico Prodico e l’epico Cinetone. E il pubblico si aspettava, in generale, che le rivelazioni del dio o di un suo ministro (come Museo) fossero ammantate di poesia, affinché risultasse davvero provata la loro origine divina. Il riferimento al carattere tragico e “teatrale” degli oracoli recitati da Onomacrito non risulta essere, pertanto, un accenno solo a un fatto stilistico. Esso mostra come questo filosofo orfico e i suoi simili cercassero di perpetrare, per suo tramite, un atto di manipolazione comunicativa. Onomacrito abbelliva e “teatralizzava” Museo per rendere la sua menzogna più efficace, per ammantarla di autorità divina.

Non è allora un caso che, sempre nel dialogo Perché la Pizia non dà più oracoli in versi?, Plutarco attacchi spesso l’aspettativa irrazionale che un verso oracolare può essere divinamente ispirato / sapiente solo se manifesta una qualità teatrale. Attraverso il personaggio di Teone, infatti, il filosofo platonico cerca di mostrare che la divinità trasmette sempre la conoscenza del futuro agli umani, mentre la sua modalità espressiva (vale a dire, se poetica o non) dipende dall’avatar mortale che decide di usare. Gli dèi ricorrono di frequente, per esempio, a cornacchie, aironi e altri volatili per dare segni premonitori all’umanità. Ma dato che gli uccelli sono appunto sprovvisti della capacità di ragionare, sarebbe assurdo aspettarsi che essi anticipino l’avvenire con ragionamenti chiari e logici, invece che con suoni e movimenti delle ali. Allo stesso modo, il fatto che una Pizia reciti o no i versi oracolari in poesia o prosa non dipende dalla divinità, ma dalla donna stessa. Se ella ha talento poetico, allora anticiperà il futuro con versi bellissimi e sapienti. Se invece è rozza e alla buona, dirà la verità con linguaggio disadorno e forse anche rustico. Non ci si deve allora aspettare che la Pizia sia come la maschera teatrale di un dio/attore, in altri termini sia uno strumento che amplifica la voce che proviene direttamente dalla divinità. Gli dèi innescano solo l’invasamento della donna che la dota di sapere profetico. La voce sarà invece solo della Pizia, e risulterà poetica se è essa stessa poetica, impoetica se per natura impoetica.

Da ciò segue, per Teone/Plutarco, che i versi stupendi riferiti da intellettuali come Onomacrito potrebbero non essere affatto una prova dell’origine divina delle profezie. I loro oracoli in questione potrebbero risultare bellissimi e insieme insipienti, se si riesce ad andare oltre il velo della loro ingannevole perfezione poetica.

Questa prospettiva di Plutarco ha l’ulteriore conseguenza di distinguere un fatto importante. La divinità è la causa del sapere profetico, mentre la manifestazione o meno della sua forma teatrale è di origine umana, tutta umana. Si verifica, così, una scissione tra il piano poetico e quello sapienziale. La loro unione si verifica solo in quei casi – forse davvero rari ed eccezionali – in cui l’afflato divino si insinua in una natura dotata di natura creativa e “teatrica”. Che è come dire: a dio spetti il sapere, a noi uomini e donne l’arte.

 

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…d’altra parte quelli tra i Pisistratidi che erano andati a Susa tenevano lo stesso atteggiamento degli Alevadi, e oltre a questi incoraggiamenti, ancora più insistevano con lui (scil. con Serse). Erano andati a Susa portando con sé Onomacrito di Atene, divinatore ed ordinatore degli oracoli di Museo, dopo essersi riappacificati con lui; questo Onomacrito, infatti, era stato scacciato da Atene da Ipparco, figlio di Pisistrato, perche Laso di Ermione lo aveva colto in flagrante ad inserire tra quelli di Museo un oracolo che prediceva che le isole immediatamente antistanti la costa di Lemno sarebbero scomparse, inghiottite dal mare. Per questo motivo Ipparco lo scaccio, sebbene se ne fosse servito molto spesso in precedenza. E Onomacrito, essendosi recato insieme con loro a Susa per giungere al cospetto del Gran Re, giacché i Pisistrati parlavano di lui in termini onorevoli, recitava parte degli oracoli: e se vi si trovava qualche elemento che annunciava sventura per il barbaro, di esso non faceva parola, anzi, scegliendo solo le notizie più felici, le annunziava, spiegando che era destino che un uomo proveniente dalla Persia gettasse un ponte sull’Ellesponto, e i particolari della spedizione. Costui, dunque, offriva il suo contributo recitando oracoli, mentre i Pisistrati e gli Alevadi facendo conoscere le proprie opinioni in merito (Erodoto, Storie, libro VII, cap. 6, §§ 2-5 = Onomacrito, T1 D’Agostino; trad. D’Agostino)

 

Quando la battaglia ebbe termine, i Greci trassero in secco a Salamina i relitti che si trovavano ancora lì vicino e si tenevano pronti per un secondo combattimento, perché si aspettavano che il re [Serse] avrebbe utilizzato le navi superstiti. Lo zefiro era sopraggiunto e aveva sospinto molti relitti sulla spiaggia dell’Attica chiamata Coliade, in modo che… si avverarono tutti gli altri vaticini di Bacide e di Museo relativi a questa battaglia… (Erodoto, Storie, libro VIII, cap. 96, § 2; trad. Colonna-Bevilacqua)

 

Si udì anche ripetere da molti che lì, presso l’oracolo, si erano intrufolati dei verseggiatori, per raccogliere le parole oracolari, impadronirsene e intrecciarle, lì per lì, in esametri o in altri metri e ritmi estemporanei, come dentro vasi. Quanto a quei famosi Onomacrito, Prodico, Cinetone, io mi astengo dal menzionare quale responsabilità essi abbiano in materia di oracoli, in quanto vi aggiungono uno stile tragico e una magniloquenza inutile; e non ho nessun apprezzamento per le alterazioni che vi apportarono. Pure, la cosa che più svilì l’arte poetica fu la genìa dei questuanti di mercato e dei vagabondi che praticavano le loro ciarlatanerie intorno all’altare della Gran Madre e di Sarapide: alcuni, inventandoli lì per lì, altri, tirando a sorte da certe tavolette, predicono il futuro a servi e donnette, attirate dai versi e dai termini poetici. E questa non è l’ultima ragione per cui la poesia, facendosi vedere prostituita a furbi, impostori e falsi profeti, cadde dalla verità e dal tripode (Perché la Pizia non dà più oracoli in versi?, 407B3-C9 = T8 D’Agostino ; trad. Lelli)

 

Secondo noi il dio si serve del grido degli aironi, degli scriccioli, dei corvi, per darci segni e auspici; e non pretendiamo che questi uccelli, in quanto sono messaggeri e araldi degli dèi, si esprimano di tutto punto, con logica e con sapienza! Quanto invece alla voce e al linguaggio della Pizia, vorremmo che somigliassero a un coro tragico che movesse dall’altare, e che non solo avessero quella dolcezza propria della supplica, ma anche una forma metrica di stile magniloquente e formale, con metafore e con un flauto che accompagnasse i suoi accenti! (Perché la Pizia non dà più oracoli in versi?, 405D1-8; trad. Lelli)

 

Tuttavia, anche ad ammettere che ai nostri tempi non si dà nessun responso che non sia in versi, ci si troverebbe sempre in grave perplessità riguardo agli oracoli antichi, le cui risposte erano date ora in versi ora senza versi. Ma, ragazzo mio, nessuno di queste alternative va contro ragione, solo che abbiamo opinioni rette e pure intorno al dio, e non crediamo che lui, in persona, mentre anticamente suggeriva versi, detti oggi i responsi in prosa, come un attore che parli dietro la sua maschera (Perché la Pizia non dà più oracoli in versi?, passo 404A9-B5; trad. Lelli)

 

[L’edizione più recente delle fonti su Onomacrito si trovano in Ettore D’Agostino (a cura d), Onomacrito: testimonianze e frammenti, Pisa, Istituti Editoriali e poligrafici internazionali, 2007. Le traduzioni usate derivano ora da questa raccolta, ora da Aristide Colonna, Fiorenza Bevilacqua (a cura di), Erodoto: Le storie. Libri V-IX, Torino, UTET, 1996, ora da Emanuele Lelli (a cura di), Plutarco: Perché la Pizia non dà più oracoli in versi?, in Emanuele Lelli, Giuliano Pisani (a cura di), Plutarco: Tutti i moralia, Milano, Bompiani, 2017, pp. 740-769]

Enrico Piergiacomi

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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