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Quando Vittorio Taviani fece il teatro al cinema

Cesare deve morire è il film di Paolo e Vittorio Taviani del 2012 coprodotto da Rai Cinema, girato con i detenuti del carcere di Rebibbia e tratto dal Giulio Cesare di Shakespeare. Recensione

Frame dal film

“Da quando ho scoperto l’arte, questa cella è diventata una prigione”. Le ultime parole, in primo piano: una cella carceraria tutto attorno, un uomo in piedi al centro della cella e della scena, tutto il suo mondo noto di pochi oggetti e misera proprietà tangibile e privata, proprio mentre scopre la grandezza di quella spirituale e non misurabile – l’uomo si fa carico di questa frase in cui lasciar detto cosa sia la libertà, cosa rinneghi delle catene la maglia di ferro e sappia guardare lo spazio vuoto nel mezzo, alla fine di un film come Cesare deve morire impongono il suo volto, la sua voce, quell’atto definitivo che buca lo schermo di un cinema e si siede, quieto, di fianco alla platea.

Frame dal film

Questa rubrica ha per nome Teatro Altrove e diventa un dovere inserire qui una riflessione che prenda insieme il senso della libertà e della costrizione, il dentro e il fuori di sé stessi, il movimento a trattenere e disperdere ad un tempo il segno umano che è l’arte quando sa relazionarsi alla società civile, cercare a questo punto di rintracciare tutto ciò che muovendosi in territori diversi dal teatro finisce per rappresentarne invece quell’esigenza, vestita di abiti sempre diversi per taglio e temi cromatici, ma inequivocabilmente della stessa foggia confezionati. Cesare deve morire, titolo e assunto di fondo per questo film – coprodotto da Rai Cinema e vincitore dell’Orso d’Oro al Festival del Cinema di Berlino nel 2012 – che Paolo e Vittorio Taviani hanno ricavato negli interstizi fra il carcere di Rebibbia e il suo atto di libertà, attraversando i chiaroscuri di buio e luce sfumati nell’esperienza decennale di laboratorio teatrale che Fabio Cavalli (co-sceneggiatore anche del film) porta avanti con i detenuti attori, in collaborazione con il Centro Studi Enrico Maria Salerno, esperienza sedimentata in questi ultimi anni grazie a quell’opera manifesto che è la tragedia shakespeariana del Giulio Cesare, portato in scena nella sala teatrale dello stesso carcere. Il lavoro dei due registi ottantenni si installa nella vita carceraria come fa la luce fra le scarne finestre, quei pertugi in cui si ribella il desiderio dell’esterno, penetra i loro corpi e ne va a rintracciare l’urgenza intima di un testo mai come ora così chiaro e denso di quella struggente meraviglia che solo la grande poesia è in grado di innescare; la loro telecamera è silenziosa presenza in un luogo doloroso che fonde insieme il silenzio roboante in cui affondano le notti solitarie e quel rumore di fondo che non lascia mai, quella tensione continua e pure silente alla vita abbandonata, da cui allo stesso tempo ci si sente abbandonati. Questi sentimenti, queste gravezze dell’anima rinsecchita e ancora vitale, risiedono nei corridoi e nelle pareti annerite del carcere attraverso la porosità di quell’opera poetica in cui tanto forte è il senso di libertà: dalla tirannia che si mostra all’orizzonte, da sé stessi costretti nella propria stessa morsa, vittime delle proprie scelte e insieme di quella mostruosità del fato cui non si può porre rimedio.

Foto tratta dal backstage

Si potrebbe pensare a un documentario, è invece un particolare caso di docu-fiction capace di traslare il teatro di quell’opera tragica e donarlo a un’appartenenza sorprendente e profondamente delicata: Bruto e Cassio vedono nell’ascesa di Cesare al potere lo spettro della dittatura, sanno che il loro sacrificio di congiurati è imposto dal corso degli eventi, sanno che sarà sacrificio per tutti, perché altri ne abbiano beneficio; Antonio fido di Cesare, dopo il tradimento e la messa in opera della congiura, dichiara loro guerra e compie il destino del martirio, conducendoli verso quella morte cui il loro gesto era vocato. Bruto, Cassio, Cesare, Antonio. Quattro attori, quattro detenuti. Eppure, non soltanto per il carico di documento che resta nonostante l’avvento della finzione scenica, gli attori di questa piéce – che assieme alla sua lavorazione diviene film – conoscono il pensiero di quei personaggi già intimamente, al punto di subirne una fascinazione emotiva quando troppo forte è la relazione fra la vita che avevano fuori e quella fatta di memoria e rimorsi che ora gli resta. In quei personaggi e nella loro vivificazione tramite sé stessi, la propria partecipazione attoriale, è dunque immanente il senso di una salvezza che non credevano, quel pertugio di luce nel buio che fa risaltare le sembianze e le rinnova, corpi e anime di uomini che la vita ha deviato lungo un binario che credevano morto, attraverso l’arte hanno scovato una galleria nelle segrete intimità che li afferma nuovamente nel mondo.

Frame dal film

Fin qui, lo spirito d’adesione che ci raccoglie, tutti, attorno a un progetto nobile e incontestabile. Ma non è questo a far morire il giudizio e imporre una e una sola visione delle cose? Non è questo a inebetirci di fronte alla ricerca del consenso in cui ci facciamo da noi stessi vittime della società che abbiamo creato? E dunque che rinasca, proprio da esperienze positive come questa, un desiderio di affondare dentro domande nobili quanto l’esperienza stessa, senza le quali il medesimo progetto ha di certo impatto minore: possiamo interrogarci, allora, su un’operazione che tiene in sé, con il seme di una crescita civile, anche il baccello di scarto della consolazione, una scelta ideologica troppo più che estetica che corre inoltre il rischio di conservare – rappresentandola attraverso passaggi di fattura posticcia – più che sovvertire la relazione dei nostri occhi con la vita carceraria, quell’esistenza concreta in un mondo pari al nostro, ma di uomini costretti alla diversità dal blocco di cemento che li circonda. Combattere con le nostre paure, con i fantasmi del crimine, con il marchio della colpa, ma mettendo tutto questo in un gioco di coinvolgimento: è questo che fa di Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza di Volterra il punto più intellettualmente alto e insieme emozionante delle arti sceniche d’Italia. Avremmo soltanto aderito, ma a chi scrive spetta il compito aspro di contraddire, anche errando: condanna anch’essa – scrivere – ma a rendere la verità ancor più vera, più alto il volo di chi grida alla libertà. Ci salvi, il conflitto d’idee, dal tacito consenso: fine penna mai.

Simone Nebbia

Questo articolo è apparso sui Quaderni del Teatro di Roma. Per gentile concessione.

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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