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Vinicio Marchioni. Uno zio Vanja, nessuno e centomila

Al Teatro Ambra Jovinelli di Roma, Vinicio Marchioni dirige e interpreta con Francesco Montanari Uno zio Vanja di Čechov nell’adattamento di Letizia Russo. Recensione

Foto di Valeria Mottaran

Quanta malinconica abnegazione in quegli umani che tendono all’infinito ma non arriveranno a conoscerlo! Quello che hanno non è che la proiezione mai realizzata di essi stessi vincitori nella propria vita. Nel 1899, Anton Čechov consegna un testo teatrale, una scrittura semplice del disincanto di fronte alla crudele verità che il tempo passato a vivere si farà via via sempre più inconsistente con il trascorrere degli anni e delle idee in un uomo. Che cosa resta delle ambizioni inespresse quando si fa tardi?

«Fare Čechov, questo Čechov nel 2018 in Italia, mi ha fatto pensare a questo paese che vende la proprietà intellettuale perché non produce una proprietà di anima, di identità», ha raccontato Vinicio Marchioni in un’intervista di Simone Nebbia indicando come la crisi identitaria e della speranza sociale del Vanja cechoviano possa somigliare a quella dei teatri oggi e dei teatranti malcontenti talvolta obbligati al pensiero di non poter arrivare alla grandezza dei tempi che furono.
Molto più impegnato e militante, dunque, il piglio di questo regista dell’epoca nuova rispetto a quello dello scrittore russo. Il testo di Čechov si preoccupa di tenersi ben lontano da ogni evoluzione stilistica, dai coup de théâtre, dai ridondanti eruditismi e dagli accostamenti tra gruppi civili: «Nella vita raramente ci si spara, ci si impicca, si fanno dichiarazioni d’amore. E ben raramente si dicono cose intelligenti – dirà a inizio del Novecento – per lo più si mangia, si beve, si bighellona, si dicono sciocchezze. Ecco che cosa bisogna far vedere in scena».

Foto di Valeria Mottaran

Nel disegno cechoviano, insieme alla nipote Sonja, Vanja è chiamato ad amministrare un podere dopo la morte della sorella; le giornate si affastellano nonostante il logorio a cui gli eventi lo hanno esposto e nonostante la noia, che si interseca a qualche sporadico e laborioso entusiasmo procurato dall’amicizia di un medico, assiduo visitatore della residenza. La proprietà di quest’ultima è del professor Serebrijakov (cognato di Vanja) che irrompe col dispotismo di un vecchio podagroso, riverito dalla giovanissima seconda moglie Elena, nel lento scorrere senza uno scopo dell’esistenza dei due parenti.
Ma, nulla accade e nulla si trasforma, sul palco di fine Ottocento si limita a succedere il tragicomico del quotidiano di tutti. «Volevo solo dire alla gente in tutta onestà: guardate, guardate come vivete male, in che maniera noiosa», questa la sintesi dell’autore.

Foto di Valeria Mottaran

Quando è arrivato il momento di adattare la figura del medico Astrov (Francesco Montanari) nella riscrittura di Letizia Russo, Marchioni ha raccontato commentando la costruzione dello spettacolo, di essersi dovuto confrontare con la vastità epidemica di malattie antiche che impegnava il dottore fuori dal podere. Il corrispettivo reale di una peste decimatrice è stato individuato nelle conseguenze di un terremoto che oltre alle macerie disperde uomini e animali: per questo, sul palcoscenico un teatro dimesso in seguito a un sisma violento prende il posto della tenuta contadina, scrigno di goffa volontà di sopravvivenza; e gli scorci che disegnano i resti del crollo sono la cornice attorno a un ciliegio dapprima fiorito poi spoglio in seguito al morire delle stagioni.
L’albero, preso a prestito dal giardino di Čechov, sta ben radicato in tutti noi a metafora dello sconforto e del rimpianto per la fine di determinate situazioni, ma Marchioni pare essere più intenzionato alla sua unica funzione di segnatempo, visto che il principale obiettivo dichiarato non sta nella riscrittura del testo e nell’adattamento al reale delle più celate metafore concettuali, piuttosto nell’evidenziare come l’epoca dell’Ottocento russo possa essere un calco più o meno preciso della crisi di una moderna e indolente Italia d’oggi e, ancor più nello specifico, delle avversità che hanno da contrastare la scena contemporanea, le politiche culturali e ogni soggetto gravitante attorno a esse in questo nostro tempo.

Foto di Valeria Mottaran

Allora il testo non è stravolto da una vero e proprio rimaneggiamento, piuttosto si dilata e contrae ad opera di alcuni modernismi, compare più di una parentesi di riflessione che spesso si cambia, ad esempio, in breve apologia politica. Il regista coglie l’occasione di inserire temi perno dell’interesse sociale, che smettono di essere pretesti per un’analisi consapevole della tragicommedia che è il quotidiano – a cui ci aveva abituato il Russo – e prendono a favorire il flusso costante di una retorica sensazionalista: le case crollano laddove è stato deciso al momento della costruzione che sarebbero potute crollare per l’impiego di materiale scadente e quanto è assurdo che in questo tempo già futuro si possa morire schiacciati dalla propria abitazione.

Foto di Valeria Mottaran

L’adattamento al testo di Russo-Marchioni-Mancini non è pago dell’indolenza cechoviana e superando l’eterna e immobile inadeguatezza dell’uomo rispetto al proprio tempo, sente l’urgenza di trascinare l’intimità corale in collettività, appellandosi alla trascuratezza del sistema politico per ogni occasione.
Forse soltanto nella tecnica recitativa degli attori è rimasto il sotteso senso di inconsapevolezza e involontarietà proprio del testo, essi davvero – fatta eccezione per lo stesso Marchioni che dà prova di aver compreso come la tensione del desiderio cechoviano sia un eterno appetito indebolito – si consegnano a strutture monologanti del tutto prive di intenzione, rammentando di emergere in accorate stonature nei momenti deputati alla massima incisività.
Siamo lontani dunque dal quadro di popolani indaffarati o con le mani in mano al cospetto del tempo inesorabile che pareggia le sorti di ognuno, il classico che lasciava amare le bocche degli impegnati tanto quelle degli scanzafatiche oggi accontenta le pance del pubblico curioso di comprendere come qualunque modello di una certa tradizione letteraria possa servire da appiglio per un comizio polemico.

Francesca Pierri

Presentato da KHORA.teatro – Fondazione Teatro Stabile della Toscana
Con
Vinicio Marchioni e Francesco Montanari
E con
Lorenzo Gioielli, Milena Mancini, Nina Torresi, Alessandra Costanzo, Andrea Caimmi, Nina Raia
Scene
Marta Crisolini Malatesta
Costumi
Milena Mancini, Concetta Iannelli
Luci
Marco Palmieri
Regia
Vinicio Marchioni
Scritto da
Anton Pavlovič Čechov
Adattamento
Letizia Russo

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Francesca Pierri
Francesca Pierri
Laureata in Filologia Classica e Moderna con una tesi magistrale in Letteratura Comparata all'Università degli Studi di Macerata, frequenta il master in Critica Giornalistica con specializzazione in Teatro, Cinema, Televisione e Musica presso l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" a Roma. Ufficio stampa e comunicazione, continua la sua attività redazionale collaborando con la Rai - Radiotelevisione Italiana. Vive a Roma e da gennaio 2017 è redattrice di Teatro e Critica.

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