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Preludio di ribellione nella fortezza di Volterra

A Volterra il Progetto Hybris ideato da Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza, e lo spettacolo Le parole lievi. Recensione

foto Stefano Vaja

«Sono un privilegiato. La mia nausea è un privilegio» risuona da una cassa la frase di Heiner Müller nella Torre del Maschio, il luogo più alto e panoramico del carcere, del teatro, e della città di Volterra; sul ventre delle mura l’audio e le proiezioni video rievocano visioni dalle opere della Compagnia della Fortezza in una delle installazioni (curata da Andrea Salvadori, Lavinia Baroni e Andrea Berselli) che circondano lo spettacolo Le parole lievi. Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato.

Quella nausea, e quel privilegio, presenti nelle parole di un detenuto che salutiamo mentre aspettiamo di salire sulla torre; nella volontà dichiarata di ribellarsi a un ordine precedente, di ritornare a vivere − nel teatro − una possibilità altra. Intendere la parola Hybris come fa Armando Punzo in quest’ultimo progetto: ribellione che tende a fare “cose insolite”, coraggiosa ricerca di felicità. La stessa ricerca che affiora dall’incredibile quantità di materiali nella videoproiezione di Stefano Vaja, Porto il cielo sulle spalle, con quasi un trentennio di progetti della compagnia; e nella mostra fotografica di Nico Rossi Beyond the wall – rethinking humanity, con una serie di ritratti che raffigurano gli attori con i costumi di scena di Santo Genet, in quel viaggio verso un altro sé che è stravolgimento del reale.

foto Stefano Vaja

Non si può prescindere dal contesto in un’esperienza come quella di Volterra. Non si può prescindere dagli anni di lavoro e dagli uomini coinvolti, dalle otto ore di teatro al giorno tra le mura del carcere per un anno intero, dalle installazioni video, dalla conversazione Sull’equivoco della natura con il genetista Guido Barbujani e la sociologa Chiara Saracena − a cura dello stesso Punzo e di Rossella Menna, con la consulenza scientifica di Federico Condello − né dalla cena al Maschio con la compagnia, in collaborazione con il progetto Serate Galeotte, che ci accompagna alla notte in una sorta di dopo-festival che nel convivio ci fa riconoscere semplicemente come uomini che provano a essere liberi. Progetto Hybris, oltre che spettacolo teatrale, è forse già festival, ora che lì fuori le mura il panorama teatrale è altro. In un luogo in trasformazione da «istituto di pena a istituto di cultura», è qui che risuonano le Parole lievi di Armando Punzo, preludio all’opera completa che verrà presentata il prossimo anno per i trent’anni della compagnia.

Fin da subito si presenta come un progetto complesso, che parte dalla fine del lavoro su Shakespeare e abbraccia Jorge Luis Borges, abbandonando storie, trame e biografie come già dichiarato nell’intervista di qualche mese fa, documento da leggere come atto poetico. Il regista costruisce così un labirinto di immagini e personaggi nel quale difficilmente si riesce a tenere un filo; si chiede allo spettatore uno scarto, un’evoluzione nella modalità di percezione, distogliendo gli occhi dalle mura − dai confini noti − e volgendo lo sguardo non più verso terra ma verso l’alto, non nel vissuto riconoscibile ma nell’idea che conduce le azioni. Come verso le canne sbattute le une contro le altre da un esercito di attori, sotto le quali passiamo a inizio spettacolo, issate in aria a sfidare un ordine superiore, a indicare uno spazio nuovo da abitare; seguiamo così il bambino che nell’ultimo spettacolo, Dopo la tempesta, lasciava la scena con Punzo, abbandonando il mondo con l’arroganza di chi ammette l’esistenza di  un viaggio oltre l’umano.

foto Stefano Vaja

Entrando nello spazio Brecht, poi nello spazio Dalì e in fine in quello Artaud − rinominare gli spazi del carcere, ancora una volta una possibilità altra di vita − siamo immersi in una babele di segni, di testi. La scena si rivolta lentamente come magma, ne escono volti dipinti, eserciti in silenziosa battaglia o uomini di una solitudine accecante. Intanto gli obiettivi delle macchine fotografiche scattano mentre si scoprono tre vasche di acqua che ospitano i passi di apparizioni surreali. Sono i personaggi di Borges, uomini fuori dalla storia che rimangono cristallizzati in un’azione: come portare un nido di uccelli sul petto e rimanere immersi a braccia spalancate, o fissare il sole, rimanere legati con le mani in tasca, procedere bendati appoggiandosi alle canne, produrre carta e inchiostro, come si dovesse restare lì per millenni. Girano sulla scena come Asterione nel labirinto, camminano sui teli prima e nelle tre vasche d’acqua poi; sembra a tratti di guardare uno schermo, tra riflessi, attraversamenti, uomini che affondano, e polistirolo bianco che galleggia in enormi sfere, e cubi, e piramidi. Cinque percussionisti dettano il ritmo, musiche etniche appaiono sulle corde di musicisti che eseguono e abbandonano la scena. Punzo orchestra, inizia a leggere dei testi. La bibliografia è sterminata, difficile seguirla. Il pubblico viene invitato a guardare da vicino le epifanie del cortile mentre sulle finestre delle celle in alto si intravedono le scarpe di qualche detenuto o si ascolta in lontananza una voce, una radiolina. I visi sono orientali, pellerossa, occidentali, africani in un racconto ecumenico senza tempo.

Nel procedere dell’astrazione e dei segni la presenza di Punzo in scena continua ad essere sovrastante, non fosse altro che in parola. Si stenta a trovare una funzione drammaturgica nelle indicazioni con le quali il regista in scena scandisce le scene nominandole, detta i tempi alle apparizioni degli attori, chiama il pubblico ad avvicinarsi alla scena e poi a riprendere posto. Demiurgo di una ribellione orchestrata, il rischio che corre è di intercettare razionalmente lo sforzo empatico – preziosa, unica, chiave di accesso al lavoro – di chi guarda. Di suonare perfettamente il preludio di una ribellione della quale non avremo esperienza. Parole lievi è allo stesso tempo visionario materiale per il futuro spettacolo, atto di libertà disegnato dalle indicazioni di un regista, lancinante visione poetica sul confine dell’uomo.

Luca Lòtano

visto alla Fortezza Medicea, Volterra – luglio 2017

Progetto Hybris
ideazione e direzione artistica Armando Punzo
direzione organizzativa Cinzia de Felice
progetto a cura di Carte Blanche – Centro Nazionale Teatro e Carcere Volterra
in collaborazione con VaiOltre!
organizzazione generale e coordinamento attività Centro Nazionale Teatro e Carcere Domenico Netti
responsabile attività formative Marzia Lulleri
dramaturg Rossella Menna
partner Théâtre de l’Opprimé (FR) | FratiRibeiro (PT) | Parodi & Partners (BE) | Kubik Fabrik (ES) | IIS “Carducci” di Volterra
in collaborazione con SIAF Scuola Internazionale di Alta Formazione Volterra, Officina Rolandi, Libreria de L’Araldo

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Luca Lòtano
Luca Lòtano è giornalista pubblicista e laureato in giurisprudenza con tesi sul giornalismo e sul diritto d’autore nel digitale. Si avvicina al teatro come attore e autore, concedendosi poi la costruzione di uno sguardo critico sulla scena contemporanea. Insegnante di italiano per stranieri (Università per Stranieri di Siena e di Perugia), lavora come docente di italiano L2 in centri di accoglienza per richiedenti asilo politico, all'interno dei quali sviluppa il progetto di sguardo critico e cittadinanza Spettatori Migranti/Attori Sociali; è impegnato in progetti di formazione e creazione scenica per migranti. Dal 2015 fa parte del progetto Radio Ghetto e sempre dal 2015 è redattore presso la testata online Teatro e Critica.

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