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La verità è una sola e tocca tutti noi. Intervista a César Brie

Abbiamo incontrato César Brie qualche ora prima della replica del suo spettacolo 120 chili di jazz nel teatro di un piccolo paese in provincia dell’Aquila (Teatro Nobelperlapace – San Demetrio). In questo luogo, che per lui è una casa, ci rifugiamo nel racconto di un percorso teatrale e di vita che della marginalità ha fatto il suo centro.

Foto Paolo Porto
Foto Paolo Porto

I tuoi spettacoli parlano costantemente della realtà ma in una dimensione poetica ed evocativa, riescono a toccare il livello emotivo da una parte, quello etico e civile dall’altra.

La poesia è la ragione per cui ho cominciato a fare teatro. Scrivevo già da ragazzo, con le parole ero fuoco puro, incandescente, ma nella vita mi accompagnava una timidezza siderale. Avevo perso mio padre e mia madre aveva cercato di morire poco dopo, affrontavo questo dolore con la sublimazione della scrittura. Eppure non mi bastava per affrontare il mondo, volevo che fosse il teatro a farlo. I miei affetti mi avevano tradito, avevo perso la mia famiglia, a 15 anni ero già un adulto. Potevo fidarmi solo del mio lavoro. Ho dovuto imparare a recitare, rivolgendomi soprattutto al corpo. Mi sentivo negato inizialmente, poi sono diventato un acrobata – in quegli anni era una tendenza che veniva soprattutto da Grotowski. Solo dopo mi è stato chiaro, ma sin dal ’71 quando ho cominciato, facevo poesia con gli elementi del teatro, non solo la parola, ma il corpo, la voce, la presenza e l’anima.

Dopo questa prima fase di formazione ed esercizio, quando hai pensato che il tuo teatro cominciasse davvero a raccontare la verità?

A rincorrere il sole del 1978 fu uno spartiacque, per me è stato lo spettacolo della crisi. A 19 anni mi rifugiai in Italia richiamato dalla Comuna Baires, costretta anch’essa a lasciare l’Argentina. Mi separai da loro nel ’75 e cominciai a lavorare al Centro sociale Isola di Milano insieme a Danio Manfredini. Facevamo lavoro sociale e culturale in un quartiere disagiato come era allora Isola. Lottavamo per evitare l’espulsione dei ceti popolari e la speculazione edilizia su quel territorio, favorita dai grandi partiti politici. In quegli anni il mio teatro era pessimo, ma era l’unico che riuscivo a fare. Ricordo distintamente uno spettacolo che facemmo con Danio in un manicomio di Genova. Gli infermieri avevano scelto chi vi avrebbe assistito e chi no, i matti “tranquilli” potevano scendere in cortile, mentre quelli “non tranquilli” rimanevano su, urlavano dalle finestre. Noi eravamo lì a fare quella porcheria e chi era ammesso allo spettacolo reclamava che gli altri scendessero… Con Danio ci guardammo: eravamo diventati i clown del decentramento. Quella stessa notte sciogliemmo la compagnia.

tec ERO 3 foto P.PortoUna rottura quindi, un cambio radicale per la tua visione del teatro?

Ero disperato e profugo politico, sapevo che il teatro che facevo non valeva nulla. Da questa crisi venne fuori un bisogno disperato di fare qualcosa. Erano anni difficili, ci fu una grande ondata di suicidi tra i giovani. Morirono tre persone che conoscevo, tra cui una ragazza che qualche tempo prima avevo raccolto e soccorso dalla strada. Allora, in poche settimane, nello stanzone di Isola ho creato A rincorrere il sole, le prime persone a cui lo mostrai piansero. Questo spettacolo mi cambiò la vita, anche prima usavo le tecniche ma solo ora lo facevo nel modo giusto, senza che mi proteggessero. Lo spettacolo era scorretto, estremo, duro. Nella danza finale, quella che seguiva il suicidio, giravo vorticosamente per sette minuti, gridando “è finito andate via. Abbiamo perso. Cosa fate qui?”. Mai nessuno mi ha applaudito, in nessuna circostanza. Il pubblico si alzava, spesso piangeva, molti andavano via altri salivano sul palco ad abbracciarmi. Il critico Maurizio Grande mi disse “non sai che regalo mi hai fatto”.

Il tuo teatro comincia quindi a raccontare la verità delle storie in anni particolarmente difficili, e in contesti sociali complessi. A rincorrere il sole è stato lo spettacolo della consapevolezza che ha segnato un nuovo inizio, o forse il vero inizio del tuo cammino artistico?

Sì, qualche tempo dopo portai questo spettacolo in un manicomio che ospitava un festival teatrale. C’erano critici, professori, artisti. I matti guardavano sotto le gonne delle ragazze che passavano con i trampoli. Poi si misero in prima fila, dietro di loro infermieri pronti a zittirli qualora fosse stato necessario. Io glielo proibii. Eravamo noi ad avere invaso uno spazio che non ci apparteneva, eravamo intrusi. Durante lo spettacolo i matti mi parlavano e fu meraviglioso, improvvisai, mi presero per uno di loro, c’era un filo speciale e alla fine anche loro piansero. Quella sera c’era anche Ugo Volli che il giorno dopo scrisse su La Repubblica “Che follia rincorrere il sole”, una recensione che il giorno dopo fece riempire il centro sociale Isola di signore in pelliccia corse a vedere lo spettacolo. Ero finalmente entrato nel mondo del teatro.

Quasi come un rito d’iniziazione?

Antonio Attisani mi disse “Ti sei guadagnato il diritto di cominciare”. Allora ho capito cosa significava non perdere l’onestà, la disperazione, l’urgenza, la rabbia e la lucidità. Molti mi guardavano come un avanguardista, ma ero solo un ragazzo disperato che con il teatro stava esorcizzando il proprio suicidio, perché anche io potevo essere un candidato: ero uno sconfitto, come tutti. Con A rinconrrere il sole ho aperto la porta, non dico però di aver avuto la chiave.

Foto Paolo Porto
Foto Paolo Porto

In quegli anni eri molto giovane, possedevi tecnica, forza ed energia. Che strade hai cercato di seguire poi?
Ho conosciuto Iben Nagel Rassmussen, la mia maestra. All’inizio scherzava sul fatto che fossi troppo carino per essere bravo, ma dopo aver visto A rincorrere il sole mi chiese di lavorare insieme. Non potevo desiderare altro. Mi mostrò il suo allenamento: danzava con gli dei, pura poesia con il corpo e senza musica. Lei sola. Poi io le mostrai le mie acrobazie, le mie tecniche, judo, karate… mi disse che conoscevo molte parole, ma non sapevo costruire una frase. Stavo facendo a quel tempo uno spettacolo sull’elettroshock, Tentavo di scappare. Ma cosa potevo fare di questa forza e di questa disperazione? Iben mi insegnò una grammatica, quell’uso delle tecniche che va al di là della sola esposizione. Con A rincorrere il sole ero solo un asino che aveva suonato un flauto, non sapevo ancora comporre. Fu Iben a insegnarmi.

Sono anni in cui l’aspetto pedagogico e il rapporto con i maestri segnano i percorsi artistici, individuali e privati dell’artista. Oggi con i tuoi allievi come affronti l’aspetto formativo?

Insegno a pensare, poi sono loro a creare immagini con la grammatica delle metafore e della poesia. Oggi chiamo il mio teatro “Ausente”, io ci sono e non ci sono, e così gli altri. Creiamo qualcosa, con alcuni continuo, con altri no. Ci si sceglie. Sono tornato in Argentina, nel mio paese, ma in modo invisibile anche lì, per cercare un luogo dove creare e formare. È importante non accettare la regola dei tempi ferrei e del mercato, fare spettacoli e prepararli in qualche settimana. Voglio tornare a lavorare usando il mio tempo, per questo sono tornato in Argentina.

Il potenziale della separatezza, l’extraterritorialità, la voluta ed esibita marginalità sono le tue chiavi di accesso non solo nel teatro ma nella vita. Tra l’Italia, l’Argentina e la Bolivia hai raccontato storie e creato spettacoli, li senti apolidi come te?

Universale è qualcosa di profondamente radicato in un luogo ma in grado di rispecchiare tutti i luoghi. In Bolivia usavo una frase molto poetica, forse un po’ retorica: se guardi un pozzo d’acqua di notte, vedi il tuo volto riflesso, ma anche le stelle. È il mondo attraverso qualcosa che ti appartiene e in cui vedi anche te stesso. Non mi interessa che gli spettacoli possano andar bene ovunque, ma funzionano se dico la verità, perché la verità è solo una e tocca tutti noi. Ho vissuto sempre nelle periferie, con uno sguardo più attento rispetto a quello che si ha al centro del mondo, dove le persone sono ricche e si credono intelligenti. Eppure ricchezza e intelligenza non coincidono. Noi dalla periferia sappiamo tutto degli altri e di noi stessi. Il nostro sguardo è curiosamente più ampio. Voi signori vedete il mondo da un angolo egoista, spesso decadente.
Io mi occupo delle cose che vedo, a volte sono sociali a volte intime, ma devono sempre diventare universali. Dico io per poter dire noi.

Le porte a teatro sono aperte, può entrare chiunque abbia voglia di esserci. Mentre parliamo, alle nostre spalle, un piccolo gruppo di spettatori si è avvicinato e ha ascoltato questo racconto. César si volta, li nota e sorride, tra poco ci rivedremo nella sala per un’altra storia, di passioni e d’amore. Oggi abbiamo un luogo in comune, siamo il centro, siamo un “noi”.

Doriana Legge

 

 

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Doriana Legge
Doriana Legge
Doriana Legge è docente di Storia del Teatro e Problemi di storiografia dello spettacolo presso l’Università degli studi dell’Aquila. Nel 2014 ha conseguito il dottorato di ricerca in Generi letterari presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli studi dell’Aquila. Dal 2013 fa parte del comitato di redazione della rivista di studi “Teatro e Storia” edita da Bulzoni. Collabora a voci enciclopediche per il Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani. Scrive per la rubrica teatrale dell’“Indice dei libri del mese”. È anche musicista e compositrice per cinema e teatro, autrice di sonorizzazioni che portano a indagare le immagini pensando relative drammaturgie sonore. Da gennaio 2017 collabora con Teatro e Critica. Per consultare i suoi lavori e pubblicazioni più recenti: https://univaq.academia.edu/DorianaLegge

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