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Teatrosofia #49. Recitare per guarire

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Nel numero 49 si parla di come Celio Aureliano utilizzasse le pratiche attoriali per curare la follia.

In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottore di ricerca in studi umanistici all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

Honoré Daumier Le Malade Imaginaire. (c. ca 1860-2) Oliio su tela, Philadelphia Museum of Art.
Honoré Daumier, Le Malade Imaginaire. (c. ca 1860-2). Oliio su tela, Philadelphia Museum of Art.

Il teatro ha ripreso e continua ancora a riprendere dalla medicina molti spunti di creazione, mentre medici e pazienti sono stati e sono ancora oggi personaggi frequentemente interpretati sulle scene. Molière, Büchner, Čechov, Scarpetta e De Filippo sono solo alcuni tra i nomi più noti del canone teatrale occidentale, che hanno costruito la loro visione del mondo anche attraverso un confronto con la scienza medica e i suoi operatori. Ma è mai capitato in passato che avvenisse il contrario, ossia che un medico usasse il teatro e/o impersonasse il ruolo dell’attore, per curare i suoi pazienti?

In un appuntamento precedente, si è visto che alcuni medici ippocratici alludevano a volte all’arte della recitazione. Il loro scopo era tuttavia “fondazionale”. Essi si richiamavano agli attori per giustificare la loro deontologia, per mostrare come l’arte imiti la natura o per interpretare gli scritti di Ippocrate. L’arte della recitazione – intesa stavolta in senso molto più ampio, vale a dire come attività di lettura ad alta voce – è invece usata in chiara funzione terapeutica in un passo del libro II del Sul regime attribuito a Ippocrate, che è anche l’attestazione più antica di tale pratica, e soprattutto da alcuni medici che operarono tra il I sec. a.C. e il II-III sec. d.C., quali Celso, Sorano di Efeso, Antillo. Non potendo esaminare tutta la documentazione testuale, ci si limita qui ad affrontare un unico case study, cioè quello forse più interessante e promettente: la cura della pazzia descritta nel libro V del trattato Sulle malattie croniche di Celio Aureliano.

Seppure questo medico sia cronologicamente molto posteriore a quelli prima nominati (il suo floruit è collocabile al V sec d.C.), le sue informazioni dipendono prevalentemente da Sorano di Efeso. Il libro V del suo trattato descrive, perciò, una pratica attiva almeno tra I-II sec. d.C., se non addirittura anteriore. Ora, Sorano prescrive una cura della pazzia che si avvale di diverse pratiche attoriali, o comunque di attività a loro molto simili.

Una prima indicazione terapeutica è data ai servi del paziente. Costoro devono assecondare le folli credenze del loro padrone, e nello stesso tempo cogliere il momento opportuno per alludere alla sua vera condizione, riconducendolo così a poco a poco via alla realtà. Se per esempio il paziente si crede un dio, i servi lo venereranno e asseconderanno i suoi voleri. Ma saranno anche pronti a fargli notare discretamente che una divinità non ha bisogno di mangiare per vivere, quando il padrone andrà a consumare la colazione, il pranzo o la cena. La dinamica è in un certo senso quello della recita. I servi agiscono “come se” il loro padrone fosse il dio che dichiara di essere, e tuttavia hanno sempre la consapevolezza che si tratta di un gioco, di una finzione.

Al paziente stesso viene poi richiesto di recitare per guarire. Quando le sue forze fisiche sono state in buona parte recuperate, gli viene infatti chiesto di leggere ad alta voce dei testi impegnativi, per recuperare l’uso dell’intelletto, anche sotto la supervisione di un musicista (non si dimentichi che, nell’antichità, la lettura era spesso cantata e accompagnata da musica), o di distrarsi con testi leggeri per alleggerire la mente, e/o di pronunciare dei discorsi di fronte al pubblico, che lo tengano concentrato nel compito di costruire un ragionamento ben strutturato e di persuadere/dilettare il pubblico. Il paziente è a volte inoltre costretto a rispondere a delle domande. Ciò aiuta tanto il folle, perché l’impegno a rispondere adeguatamente gli consente di usare e recuperare la ragione; quanto al medico, se riceve una risposta incongrua o bizzarra riesce a capire se la follia è ancora in stadio cronico e su che cosa si basi l’idea fissa del malato.

Infine, il paziente è anche invitato ad assistere a spettacoli, particolarmente di qualità contraria alla qualità della sua pazzia. Se infatti egli è affetto da una cupa idea fissa (per esempio, se si crede un morto), la visione giocosa di un mimo o una commedia lo renderà di umore più leggero. Se di contro è afflitto da una fissazione “giocosa”, come quando immagina di essere una fata, uno spettacolo tragico lo aiuterà a recuperare il senso della realtà, perché lo metterà di fronte a molti duri fatti della vita. Oltre agli spettacoli artistici, il paziente è comunque invitato ad assistere anche a quelli dei filosofi. La convinzione di base è che l’esibizione filosofica ha, in più rispetto a quella teatrale, la capacità di rimuovere le passioni negative e di riportare così il malato alla salute.

Si può chiudere questa analisi rilevando anche un curioso paradosso, nel discorso di Celio Aureliano – o di quello sviluppato da Sorano, se è vero che questa è la fonte da cui dipende: il medico apre la sua trattazione con un elenco di alcuni casi clinici, tra i quali vengono menzionati alcuni pazzi che credevano di essere oratori e attori tragici o comici. Ora, data la terapia appena descritta, si deve concludere che, per questi pazienti, la cura consistette nel trasformarsi nell’idea fissa che li attanagliava. Paradossalmente, la fissazione di credersi un attore senza esserlo trovò rimedio clinico nel diventare un attore autentico, nel smettere di immaginare di recitare col recitare davvero.

 Enrico Piergiacomi

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Abbozzerò ora le proprietà degli esercizi. Alcuni esercizi sono naturali, altri violenti. Tra quelli naturali, troviamo quelli che coinvolgono la vista, l’udito, la voce e il pensiero. (…) Gli esercizi della voce – siano essi il discorso, la lettura, o il canto – muovono tutti l’anima. E col muoverla, la riscaldano e la seccano, e consumano il fluido nel corpo (Ippocrate, Sul regime, libro II, § 61)

 

Non permettere a molte persone – in particolare agli estranei – di entrare nella stanza [del malato]. E istruisci i servi a correggere le aberrazioni del paziente, dando loro nel frattempo un complice ascolto. Detto in altri termini, comanda ai servi, da un lato, di evitare l’errore di approvare tutto quello che il paziente dice, rinvigorendo così tutte le sue fantasie e aumentando la sua follia; e dall’altro, di evitare l’errore di obiettare a tutto quello che dice e conseguentemente di aggravare la cronicità del suo attacco di follia. Fa in modo piuttosto che i servi a volte guidino il paziente, assecondando e approvando i suoi detti, a volte correggano indirettamente le sue illusioni, indicando la verità (Celio Aureliano, Sulle malattie croniche, libro I, cap. 5, §§ 156-157)

 

Quando il corpo del paziente si è rinvigorito, prescrivi passeggiate e inoltre esercizi vocali, a seconda dei casi. Dopodiché, fa in modo che il paziente legga ad alta voce persino estratti di testi che sono caratterizzati dal contenere false asserzioni. Egli eserciterà in tal modo il suo intelletto ancora più attentamente. Per lo stesso motivo, il paziente dovrebbe anche essere occupato a rispondere a domande. Ciò ci consentirà sia di individuare delle anomalie, sia di ottenere da lui le informazioni di cui abbiamo bisogno. In seguito fallo riposare, dandogli da leggere cose facili da capire: verranno così evitati i danni da ipertensione [della mente]. Infatti, se gli esercizi intellettuali soverchiano la forza fisica del paziente, essi risultano altrettanto dannosi degli esercizi passivi praticati in eccesso. E dopo aver fatto leggere il paziente, fagli vedere uno spettacolo. Un mimo è appropriato, qualora la follia del paziente si manifesti in forme depressive; al contrario, una rappresentazione di fatti tristi o di errori tragici è valida per la cura di casi di follia che implicano atteggiamenti giocosi e infantili. Del resto, una specifica forma di disturbo mentale deve essere guarita insistendo sulla qualità opposta, dimodoché anche la condizione della mente potrebbe raggiungere l’equilibrato stato di salute. Via via che si procede con la terapia, fa sì che il paziente reciti discorsi o argomenti, appropriati alla sua abilità e alla sua forza E nel caso dei resoconti, questi dovrebbero essere costruiti allo stesso modo, cioè recitando l’esordio con la voce gentile, le porzioni narrative e le prove con tono alto e intenso, mentre la conclusione – di nuovo – in sottotono e in maniera gentile Quanto detto si ispira ai precetti di coloro che hanno scritto sugli esercizi vocali (in Greco: anaphonesis). Il pubblico dovrebbe essere presente e annoverare persone conosciute dal paziente, perché costoro aiuteranno il paziente a rilassare la mente, offrendo ai suoi discorsi attenzione e lode. E difatti, ogni esercizio fisico piacevole contribuisce alla salute generale dell’organismo (Celio Aureliano, Sulle malattie croniche, libro I, cap. 5, §§ 162-164)

 

Se poi il paziente è interessato ad ascoltare i discorsi dei filosofi, gli si offra l’opportunità. È infatti attraverso la parola che i filosofi scacciano la paura, l’angoscia e l’ira, e così facendo danno un contributo di rilievo alla salute del corpo (Celio Aureliano, Sulle malattie croniche, libro I, cap. 5, § 166-167)

 

Di conseguenza, una vittima della follia immaginò di essere un passero, un altro una gallina, un altro un vaso di terracotta, un altro un mattone, un altro un dio, un altro un oratore, un altro un attore tragico, un altro un attore comico, un altro una spiga di grano e asseriva di occupare l’esatto centro dell’universo, un altro ancora piangeva come un bambino e implorava di essere cullato tra le braccia (Celio Aureliano, Sulle malattie croniche, libro I, cap. 5, §§ 152)

 

[Cito Ippocrate da William Henry Samuel Jones (ed.), Hippocrates: Volume IV, Cambridge, Harvard University Press, 1931, e Celio Aureliano da Israel Edward Drabkin (ed.), Caelius Aurelianus: On Acute Diseases and On Cronic Diseases, Chicago, University of Chicago Press, 1950. Tutti i passi sono tradotti da me]

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

1 COMMENT

  1. Se non si è né spiga né attor comico, meglio sarebbe credersi spiga, tanto più se centro dell’universo!
    Grazie.

    Claudio

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