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L’atto di sorellanza delle donne di Sol Picó

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Sol Picó inaugura la serata di apertura dell’edizione 2016 di Fabbrica Europa con lo spettacolo (WW) We Women. Recensione

foto David Ruano
foto David Ruano

Si prova un riconoscibilissimo disagio a osservare le donne di Sol Picó, a sezionarne con lo sguardo la fibra di terra e sale, mentre si tende l’orecchio per coglierne anche il più flebile bisbiglio e la verità che esso sembra nascondere. È l’imbarazzo del testimone involontario, dell’indesiderato sguardo maschile su un rituale privato, nel quale il femminino non è oggetto di indagine né protagonista di tronfie celebrazioni, ma naturale collante di una società segreta, cemento di un patto ancestrale.

A ventitré anni di distanza da quell’ottobre del 1994 nel quale portò in scena PEVE. Espectacular Dance Poemato, Fabbrica Europa dedica alla coreografa e danzatrice spagnola la serata di apertura dell’edizione 2016. Lo fa ancora una volta, ventitré anni più tardi, negli spazi imprescindibili e necessari della Stazione Leopolda, luogo fondamentale nella geografia fiorentina della contemporaneità messo in vendita nello scorso novembre e adesso, sembra, a riparo dai rischi della privatizzazione grazie alla decisione del Comune di acquisirlo.

foto David Ruano
foto David Ruano

Il festival, presieduto quest’anno da Tuccio Guicciardini, si apre così con un simbolico ritorno alle origini, declinato dalla sanguigna Picó in una performance immaginifica e potente. (WW) We Women: questo il titolo della coreografia ‑ esito di una creazione collettiva condivisa con Julie Dossavi, Minako Seki e Shantala Shivalingappa ‑ che sembra contenere, al di sotto di un discutibile e superficiale riferimento descrittivo a una categoria universale, un più profondo e accorato appello a una comunanza transculturale e transgenerazionale. Quel “noi donne”, così riduttivo e paradossalmente discriminatorio se volto a condensare incommensurabili specificità alla sola appartenenza a un sesso biologico, diventa nella prospettiva di Picó l’incipit di una dichiarazione di indipendenza, capace di tradurre il patriarcale we, the people in un atto di sorellanza. Eppure non c’è alcuna rivendicazione politica in questo spaccato espressionista della condizione femminile odierna. Le sette donne in scena ‑ oltre alle quattro coreografe, le musiciste Adele Madau, Lina León e Marta Robles ‑ contribuiscono semmai, come nel celebre slogan degli anni ’70, al naturale e doveroso sgorgare del politico dal personale. Attraverso frammenti coreutici e canzoni, semplici racconti e sofisticate interazioni con l’impianto scenografico, il privato si confonde ‑ doverosamente ‑ con il pubblico e il collettivo.

foto David Ruano
foto David Ruano

È uno spazio scenico intimo, seppur atipico, quello ideato da Joan Manrique: quasi un accampamento di fortuna, una tendopoli precaria eretta su un tappeto di terriccio, abitato da sette donne di origine etnica e geografica diversa. Una alla volta, uscendo da una tenda di plastica opaca alla luce di torce da speleologi, le sette si mostrano al pubblico in bikini e tacchi, distorcendo l’immagine di questo Eden imperfetto in uno straniante catwalk di umanissimi corpi, e facendo deflagrare l’immaginario erotico maschile ed eterosessuale in una sarcastica parodia. Dalla graticcia cade un getto di sabbia, improvviso, a ricordare l’esistenza di una cronologia esterna ed estranea a questa muliebre clessidra: complice la drammaturgia di Roberto Fratini, Picó sembra infatti in grado di deformare il tempo in subitanee accelerazioni e malinconiche stasi. L’azione scenica principale è così giustapposta ad altre in secondo piano, sulle quali lo sguardo dello spettatore si sofferma quasi per caso: un pastiche di atti di straordinaria banalità, come lo stendere panni o il piegare magliette, può sovrapporsi per contrasto a drammatiche ricostruzioni di indicibile ferocia, o a sketch surreali che stilizzano angherie psicologiche. Le narrazioni autobiografiche, raccontate in più lingue con disarmante naturalezza, introducono partiture coreografiche caratteristiche della cultura di provenienza delle interpreti: uno straordinario flamenco danzato sulle punte da Picó lascia così spazio alle gestualità spirituali e introspettive dell’indiana Shivalingappa, o al teatrodanza ironico della giapponese Seki.

La risultante di questa debordante sommatoria di immagini e suggestioni è a tratti didascalica; fin troppo ovvie sembrano alcune soluzioni registiche, come l’estenuante e militaresca corsa sul posto scandita dall’elenco dei rituali di bellezza a cui le donne, schiave dei canoni estetici occidentali, si sottopongono quotidianamente. Eppure, quando più onirici e sottili si fanno i rimandi iconografici, e più angosciante la relazione tra drammaticità dell’azione rappresentata e interpretazione caricaturale di essa ‑ come nel caso della brutale violenza a cui Julie Dossavi sottopone Minako Seki ‑ ci si scopre commossi, coinvolti, forse addirittura colpevoli: del silenzio correo con il quale abbiamo osservato queste donne strisciare a terra come vermi e inscenare un’arcaica lapidazione, o dell’ilarità con cui le abbiamo viste tentare di ingoiare mele che, in questo giardino primigenio, non possono più donare alcuna conoscenza. Una grandine di questi frutti proibiti squarcia sul finale l’immobilità temporale in cui si muovono le performer: una pioggia liberatoria, sovrumana e al contempo terrena. Ecco il dono offerto come vana ricompensa per le sofferenze subite: decine e decine di mele, da azzannare senza ritegno o da ignorare giocosamente. Per fortuna, non ci sono né uomini né dèi, all’orizzonte.

Alessandro Iachino

Stazione Leopolda, Firenze – maggio 2016

(WW) WE WOMEN
direzione Sol Picó
drammaturgia Roberto Fratini
creato e interpretato da Julie Dossavi, Minako Seki, Shantala Shivalingappa, Sol Picó
musiche composte e interpretate dal vivo da Adele Madau, Lina León e Marta Robles
assistente alla regia Verónica Cendoya
scenografia e coordinamento tecnico Joan Manrique
disegno luci Sylvia Kuchinow
suono Stéphane Carteaux
produzione Pia Mazuela, Núria Aguiló Sol
fotografia David Ruano, Erin Bassa
photographer Carmen Escudero
video Mayo Films
distribuzione Agente129
ringraziamenti Dani Tejedor, Eulàlia Bergadà, Xaro Campo, Leo Castro, Vicens Mayans, Companyia Mal Pelo, La Fuga Films, Funky Monkey, Jordi Pau, Jordi Nicolau, Xavier Sauret
collaborazioni alla produzione L’Animal a l’esquena, Festival Sismògraf, Teatre Atrium de Viladecans
coprodotto da Grec 2015 Festival de Barcelona, Festival Internacional de Buenos Aires e Cia. Sol Picó
con la collaborazione di Institut Ramon Llull

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Alessandro Iachino
Alessandro Iachino
Alessandro Iachino dopo la maturità scientifica si laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2007 lavora stabilmente per fondazioni lirico-sinfoniche e centri di produzione teatrale, occupandosi di promozione e comunicazione. Nel novembre 2014 partecipa al workshop di visione e scrittura critica TeatroeCriticaLAB tenuto da Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich nell’ambito della IX edizione di ZOOM Festival, al termine del quale inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica. Ha partecipato inoltre al laboratorio Social Media Strategies for Drama Review, diretto da Andrea Porcheddu e Anna Pérez Pagès per Biennale College ‑ Teatro 2015, e ha collaborato con Roberta Ferraresi alla conduzione del workshop di critica della Biennale College ‑ Teatro 2017. È stato membro della commissione di esperti del progetto (In)Generazione promosso da Fondazione Fabbrica Europa, ed è tutor del progetto Casateatro a cura di Murmuris e Unicoop Firenze.

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