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Cristina Comencini e il teatro familiare

Cristina Comencini autrice di Due partite in scena al Teatro Ambra Jovinelli. Recensione

Foto di Fabio Lovino
Foto di Fabio Lovino

Giovedì, primo pomeriggio: interno salotto anni Sessanta. Carta da parati rosa dalle forme geometriche, psichedelica; attorno a un tavolo bianco dalla rotondità avvolgente siedono quattro donne molto eleganti, con capelli cotonati e vestiti dai motivi floreali. Sofia, Beatrice, Claudia e Gabriella: un gineceo impegnato in una partita a carte, situazione già conosciuta e tipicamente teatrale in grado di scatenare confessioni ansiose, abbattendo il bon ton che si vorrebbe proprio a delle signore. Nell’altra stanza giocano le rispettive figlie, tranne una, quella di Beatrice che nascerà, dopo convulsioni lancinanti, alla fine del primo atto. Il femminino è tutto condensato lì, in quelle quattro mura allucinogene e conturbanti, in quei quattro corpi di attrici, impeccabili, ferini, vertigini elettriche che s’impuntano come saette, nervosamente riottose, stanche di una vita “a parte” rispetto a quella maschile, nella quale la “cura” non possiede legittimità di lavoro, ma rappresenta subordinazione e inferiorità: «gli unici soldi veramente miei, sono quelli che guadagno al gioco». Delusioni, tradimenti, desideri, rimpianti e paure, cadono giù a terra l’uno dopo l’altro, carta dopo carta, sguardo contro sguardo. Si delineano i caratteri, fortezze impenetrabili nelle quali ognuna si rifugia, con tenero bisogno di protezione, istintuale abbraccio, mancato. Libro, film, spettacolo. Tre diversi formati per un’unica scrittura. Nato come testo teatrale in due atti nel 2006, portato in scena nello stesso anno al Teatro Valle riscuotendo «grande successo», poi film diretto da Enzo Monteleone nel 2009, oggi torna a Roma sul palcoscenico del Teatro Ambra Jovinelli; Due partite, scritto da Cristina Comencini e diretto in questa occasione da Paola Rota, possiede una natura multiforme che nel corso di dieci anni è stata declinata in adattamenti autonomi ma dialoganti tra loro.

Foto di Fabio Lovino
Foto di Fabio Lovino

Il primo atto ambientato negli anni Sessanta, il secondo circa quarant’anni dopo. Troviamo allora Rossana, Cecilia, Sara e Giulia (interpretate dalle stesse attrici) la cui madre, Beatrice, si è tolta la vita a causa del troppo isolamento. Le figlie di quelle madri sono ora riunite per una circostanza che le obbliga, nonostante gli impegni da donne in carriera, a rincontrarsi. Due atti come quadri speculari che ritraggono otto figure femminili tra analogie e differenze, similitudini imperfette di epoche che cambiano, necessità che evolvono e pensieri – quelli ancora immutabili. Ci sono le bambine di prima che, mentre le mamme giocavano a carte, ritagliavano i vestiti di Grace Kelly dalle riviste, ma non ci sono le figlie di adesso. Una generazione incapace di procreare, di occuparsi dell’altro dentro di sé, troppo affollata di quella vita che riempie le giornate, i momenti coi partner inetti e insicuri, del tutto incompetenti nel ruolo di uomini che «non mi fanno sentire donna». E poi la solitudine delle madri, lasciate sole, in quel silenzio ovattato di una casa svuotata quando «l’amore cessa di esistere». Perché il telefono non squilla, i panni da lavare sono sempre meno e dannatamente già puliti e sistemati nei cassetti. Comencini non ha scritto un testo rivelatore, come non lo è lo spettacolo, il quale ogni tanto scivola nella battuta attesa e anticipata, nella malinconia tutta italiana diventata tratto inconfondibile di un certo fare cinema, retorica di storie di famiglia, sempre uguali. Eppure proprio questo territorio conosciuto, appunto familiare, dell’uguaglianza democratica che livella le esperienze, che la crisi non la crea ma la rende condivisa, determina lo strutturarsi, durante un’ora e quaranta di spettacolo, di una comunità che ride, piange, dorme anche, e nel finale si alza in piedi applaudendo col fazzoletto in mano.

Un teatro strapieno, fino agli ultimi ordini di palchi, nonostante l’oggi, invadente come non mai in queste ore, che ci vorrebbe monadi indifferenti e timorose. E anche se chi scrive va a teatro per non riconoscersi, non può non considerare quanto simili “prodotti” siano invece funzionali proprio a quella verosimiglianza imprescindibile e necessaria, che ci rende insieme pubblico e non singolo spettatore.

Lucia Medri

in scena fino al 29 novembre al Teatro Ambra Jovinelli

DUE PARTITE

Presentato da Artisti Riuniti
regia Paola Rota
con Giulia Michelini, Paola Minaccioni, Caterina Guzzanti, Giulia Bevilacqua
scene e disegno luci Nicolas Bovey
costumi Gianluca Falaschi

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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