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Teatrosofia #24. I peripatetici e l’arte performativa

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Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. In questo appuntamento raccogliamo i pensieri di altri peripatetici.

In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

William Turner, The Temple of Poseidon at Sunium
William Turner, The Temple of Poseidon at Sunium

Molti seguaci di Aristotele – contemporanei o posteriori a Teofrasto – continuarono ad occuparsi di teatro e dell’arte dell’attore. Pur non perdendo nulla in originalità e pregnanza, le loro ricerche si distinguono tuttavia da quelle del maestro e da quelle teofrastee per essersi concentrate su problemi di carattere più storico-erudito. A quanto è dato sapere, ad esempio, poche tra le indagini di tali Peripatetici affrontano anche indirettamente il tema della catarsi tragica, che è forse la nozione più complessa e teoreticamente stimolante introdotta da Aristotele.
Riscontriamo così che Dicearco si chiese chi fosse stato il primo drammaturgo a introdurre sulla scena il terzo attore, Clearco e Cameleonte indagarono quando si cominciò a declamare pubblicamente con accompagnamento musicale le composizioni di Omero, Esiodo, Archiloco e altri poeti. Dallo stato delle fonti, non sembra che questi rilievi andassero oltre il rilevamento empirico costituendo un primo passo di un’analisi estetica o speculativa.

Interessante è poi una testimonianza preservata da Porfirio su Eraclide Pontico, filosofo di orientamento intellettuale incerto, a cui però oggi gli studiosi più avvertiti riconoscono un forte debito verso Aristotele e la sua scuola. Stando al testimone, Eraclide avrebbe cercato di spiegare il comportamento a prima vista bizzarro dei Feaci, che secondo Omero abbandonarono Ulisse addormentato sulle spiagge di Itaca senza svegliarlo (Odissea, libro 13, vv. 116-121), con un’analogia tratta dalla recitazione. Questi uomini sono amanti del piacere, ma anche timorosi che la loro isola venga scoperta da altri popoli. Di conseguenza, a detta di Eraclide, un Feace recita contemporaneamente due ruoli: quello dell’individuo molto ospitale, dettato forse dall’amore per il piacere (infatti, è piacevole aiutare lo straniero e godere della sua compagnia), e quello della persona che si affretta a tornare in patria quando ne è temporaneamente lontano, dovuto senz’altro alla paura che qualcuno possa vederlo e inseguirlo di nascosto fino a casa. Non ci sarebbe, insomma, niente di strano nella condotta descritta da Omero. Accompagnando Ulisse a Itaca, i Feaci recitano ancora la parte degli uomini ospitali; ma lasciandolo sulla spiaggia addormentato, assumono la maschera di coloro che non perdono nemmeno il tempo per svegliare il loro ospite, pur di tornare quanto prima alla loro isola.

Di ben altra levatura sono i resti dell’opera di Aristosseno. Anche questo Peripatetico si dedicò ad indagini squisitamente storico-erudite, indagando, tra le varie cose, come andasse chiamato l’attore che interpreta sulla scena un personaggio femminile o uomini che si mascherano da donne. Ma contrariamente a Dicearco, Clearco e Cameleonte, egli si pose sulla stessa linea di Aristotele e Teofrasto, esaminando gli effetti giovevoli che l’arte ha sull’anima. Lo attestano anzitutto Strabone e Aristosseno stesso, che in un passo della sua Armonica allude ad alcune sue passate conferenze in cui menzionava il fatto che la musica ha un’influenza morale positiva sul carattere, pur specificando quanti non si debba con ciò esagerare e concludere che allora essa basta per tutto. Inoltre, ne sono indizio alcune fonti che riportano come il Peripatetico fosse dell’idea che alcune melodie sono capaci di riportare l’anima a una condizione di ordine e armonia, infranta per esempio dal consumo smodato di vino. Una tale concezione può essere benissimo ricondotta alla questione della catarsi. Infatti, sembra che Aristosseno usò coscientemente questo termine in riferimento ai Pitagorici, che a suo avviso consideravano la medicina “catartica” per il corpo e la musica “catartica” per l’anima.
Un altro Peripatetico degno di menzione è Demetrio Falereo. La sua attività comprendeva una biografia di Demostene, in cui deplorava la recitazione dell’oratore troppo affettata e volgare, tanto da ritenere che egli si dedicò a un’attività verso la quale non era per natura particolarmente portato. Da non confondere con il Falereo, è poi un altro Demetrio peripatetico, autore di un trattatello dal nome Sullo stile e che contiene una riflessione curiosa su quello più adatto alla recitazione. L’autore suppone che esso consista in una forma sciolta, eseguendo un testo in cui non abbondino le congiunzioni. Un loro eccesso renderebbe infatti lo stile troppo poco patetico: e il difetto o la mancanza del pathos è detto da Demetrio «assolutamente inadatto alla recitazione». Per il resto, l’autore allude rapidamente al fatto che i testi adatti ad essere recitati sono quelli che lasciano ampio margine al movimento e alle pose plastiche dell’attore, facendo l’esempio concreto dello Ione di Euripide.

Infine, è degna di essere ricordata una sezione degli appunti sull’etica peripatetica raccolti da Ario Didimo, che fa eco al passo 1098a16-20 del primo libro dell’Etica Nicomachea. Qui, Aristotele dichiara che, come non basta una sola rondine a indicare l’arrivo della primavera, così non basta vivere un solo giorno conformi a virtù per potersi dichiarare felici, perché ci si può considerare tali solo se ci si è dedicati all’attività virtuosa in una vita completa, ossia che ha raggiunto una congrua estensione temporale. Ora, Ario Didimo cerca di rinforzare il concetto con un ulteriore riferimento esplicativo tratto dalle arti, assente dall’originale – così come lo è lo strano e incongruo riferimento alla divinità. Come l’esecuzione di una singola battuta e di un singolo movimento di una mano non bastano a costituire uno spettacolo teatrale o di danza, così un tempo breve, quale quello rappresentato da un giorno solo, non è sufficiente a produrre la felicità, che invece si genera quando la vita è condotta bene per una lunga durata.
Tutti questi rilievi sono poco incisivi presi singolarmente. Ma nel loro insieme indicano quanto importante fosse per gli Aristotelici una consuetudine con le arti performative per condurre una ricerca intellettuale soddisfacente. La filosofia trae forza dal teatro e dalla musica, anche quando quella non indaga queste con un potente slancio del pensiero.

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Eschilo si avvalse di Cleandro come primo attore, quindi introdusse al suo fianco Minnisco di Calcide come secondo attore, e infine inventò la figura del terzo attore; ma Dicearco di Messina dice che a farlo fu Sofocle (Dicearco di Messina, fr. 100 = Anonimo, Vita di Eschilo, § 15)

Cameleonte nella sua monografia su Stesicoro afferma inoltre che furono messi in musica non solo i poemi di Omero, ma anche le composizioni di Esiodo e di Archiloco, e persino quelle di Mimnermo e Focilide. Clearco nel primo dei due libri che ha dedicato agli Indovinelli scrive: “Simonide di Zacinto seduto su una sedia nei teatri declamava rapsodie delle composizioni di Archiloco” (Clearco, fr. 92, e Cameleonte, fr. 30 = Ateneo, Deipnosofisti, libro XIV, § 12)

Nel tentare di risolvere l’assurdità del comportamento dei Feaci, che come si dice lasciarono Ulisse sulla sua terra senza svegliarlo, e quella dell’inappropriato sonno di Ulisse stesso, Eraclide Pontico afferma che quello che è assurdo è invece la condotta di quegli interpreti che non traggono le conseguenze da quello che il poeta [i.e., Omero] ha già detto intorno alla vita dei Feaci. Infatti, essi sono consapevoli del loro amore per il piacere e del loro modo di godersi la vita, e sono spaventati che qualcun altro arrivi alla loro terra e li scacci via. Perciò recitano il duplice ruolo della eccellente ospitalità per quelli che sono già lì [in patria] e quello della fuga repentina nei riguardi di coloro che giungono [nei pressi]. E fanno tutto quanto è in loro potere per far sì che la loro dimora si mantenga nascosta e che non si sappia quanto essa sia lontana (Eraclide Pontico, fr. 104 = Porfirio, Questioni intorno all’«Odissea» di Omero, 13.119)

Aristosseno invece precisa che l’attore che interpreta ruoli maschili e femminili è detto magòdos, mentre lysiodos è quello che che interpreta ruoli femminili in abiti maschili; cantano però le stesse canzoni, e tutto il resto è identico (Aristosseno, fr. III 3 60 = Ateneo, Deipnosofisti, libro XIV, § 13)

Gli uni ritengono che l’armonica sia qualcosa di grande, alcuni, perfino, che lo studio di essa non solo li renda musicisti, ma migliori il loro carattere – per avere mal compreso ciò che dicevamo nelle nostre conferenze: “cerchiamo di mostrare, riguardo ad ogni composizione ed alla musica in generale, quel che può nuocere e quel che può giovare al carattere” e, non solo hanno frainteso questo, ma non hanno inteso affatto “quanta influenza morale può avere la musica”; gli altri poi ritengono che l’armonia non abbia nessuna importanza, ma che sia qualcosa di insignificante, pur volendo non esser ignari di ciò in cui essa consiste. Nessuno di questi due modi di vedere è nel vero: l’armonica né merita il disprezzo di un uomo intelligente – il che sarà evidente dal seguito della trattazione –, né ha importanza così grande da bastare a tutto, come pretendono alcuni, perché, come si è sempre insistito, per essere musicista occorre acquistare molte altre conoscenze oltre quella dell’armonica, che è, come la ritmica, la metrica, l’organica, solo una parte della scienza che costituisce il musico (Aristosseno, Armonica, libro II, §§ 31-32)

Persino i docenti di musica – che insegnano a suonare l’arpa, la lira, il flauto – dichiarano quanto abbiamo già detto, giacché affermano che ciò che insegnano è in vista della formazione e del miglioramento del carattere. Non è solo tra i Pitagorici che uno può ascoltare argomenti a supporto di questa tesi, perché anche Aristosseno è della stessa opinione, e anche Omero annoverò i musicisti tra i migliori dell’umanità (Aristosseno, fr. Ia 3 05 = Strabone, Geografia, libro I, § 2.3)

Se infatti la musica è utile in una circostanza, lo è proprio quando si affianca al bere e al mangiare, come ha dimostrato il grande Omero: “Musica e danza che sono ornamento al banchetto”. E nessuno intenda dalle mie parole che Omero ritenesse la musica adatta solo al piacere, perché un senso più profondo è nascosto nei suoi versi: egli domanda alla musica un aiuto ed un soccorso di importanza capitale, nell’occasione stessa dei banchetti e dei festeggiamenti degli antichi. Egli ha introdotto in tali luoghi la musica perché essa è capace di combattere e di calmare l’influenza eccitante del vino, come in qualche passo della sua opera dice il nostro Aristosseno. Egli affermava che si introduce la musica quando il vino fa vacillare i corpi e lo spirito di quelli che ne hanno abusato, e che essa li conduce nella direzione opposta e li rinsavisce, grazie all’ordine ed alla simmetria che le sono propri. A tale occasione allude Omero quando dice che gli antichi avevano bisogno della musica (Aristosseno, fr. II 3 55 = [Plutarco], Sulla musica, § 43)

I Pitagorici, secondo Aristosseno, compivano la catarsi del corpo attraverso la medicina, dell’anima mediante la musica (Aristosseno, fr. INC 2 15 = Cramer Anecd. Paris. I 172)

Si dice che Demostene fu avvicinato da un uomo che gli chiedeva di aiutarlo in una causa e di presentare alla corte che era stato picchiato da qualcuno. «Ma», gli disse Demostene, «tu non hai affatto sofferto quello che dici di aver sofferto». Al che l’uomo alzò la voce e urlò «io, Demostene, non ho sofferto per nulla?!», e Demostene replicò: «Ecco, ora sì che sento la voce di uno che ha subito ingiustizia e che ha patito». Ciò rivela quanto importante fosse secondo lui il tono della voce per la persuasione e la recitazione per presentarsi di fronte a un uditorio. La maggior parte delle persone trovava meraviglioso questo modo di esprimersi [di Demostene], ma i fini conoscitori – tra i quali c’è anche Demetrio Falereo – trovavano il suo stile sdolcinato, ignobile e flaccido (Demetrio Falereo, fr. 137 = Plutarco, Demostene, § 11.1)

Pertanto lo stile sciolto è forse più adatto ai dibattiti; esso viene anche definito il recitativo: il disgiungimento, infatti, favorisce la recitazione. Lo stile scritto, invece, è adatto alla lettura: è lo stile collegato e quasi rinsaldato dalle congiunzioni. Per questa ragione Menandro, il cui stile è per lo più sciolto, viene recitato, mentre Filemone letto. Che il disgiungimento sia adatto alla recitazione, lo dimostra questo esempio: «Ti concepii, ti partorivo, ti allevo, mio caro». Il verso, così sciolto, costringerà alla recitazione anche chi non lo voglia, proprio perché mancano le congiunzioni. Se invece si dicesse, collegando i termini insieme: “Ti concepii e ti partorivo e ti allevo”, impiegando le congiunzioni si toglierebbe molto pathos. Quanto è privo di pathos è assolutamente inadatto alla recitazione. Esistono altre regole relative alla recitazione. Ne è esempio la scena euripidea in cui Ione afferra l’arco e minaccia il cigno che insozza le state degli dèi: offrono all’attore molte possibilità di movimento la corsa verso l’arco e il fatto che il personaggio, rivolgendosi al cigno, guarda verso il cielo, così come ogni altro aspetto scenico modellato appositamente per l’attore. Ma non è della recitazione che dobbiamo trattare in questa sede (Demetrio, Sullo stile, §§ 193-195)

I disgiungimenti frequenti come non sono adatti alle lettere, perché il disgiungimento, in uno scritto, è fattore di oscurità; inoltre l’imitazione è più adatta ai dibattiti che alla scrittura, com’è evidente nell’Eutidemo: «Chi era, Socrate, colui con il quale parlavi ieri al Liceo? C’era davvero molta gente intorno a voi». Poco più avanti aggiunge: «Mi sembrava uno straniero, quello con cui parlavi. Chi era?». Uno stile e un’imitazione di questo tipo, nel loro complesso, sarebbero adatti piuttosto alla recitazione, non alle lettere, che sono scritte (Demetrio, Sullo stile, § 226)

Se dunque è così, allora il bene proprio dell’uomo è l’attività dell’anima secondo virtù, e se molteplici sono le virtù, secondo la migliore e la più perfetta. E ciò vale anche per tutta una vita completa. Infatti una sola rondine non fa primavera, né un solo giorno; così neppure una sola giornata o un breve tempo rendono la beatitudine o la felicità (Aristotele, Etica Nicomachea, libro I, passo 1098a16-20)

“Completo” è il massimo del tempo che la divinità ci ha concesso, e “concesso” garantendoci una [sua adeguata] estensione, come quella [adeguata a costituire] la grandezza di un corpo. Come [l’esecuzione] di un’unica battuta non basta a dispiegare la recitazione e il singolo movimento di una mano a creare una danza, e come una sola rondine non fa primavera, così nemmeno un tempo breve produce felicità. La felicità deve infatti essere completa, [cioè] costituita da un uomo completo, da un tempo [completo] e da una sorte benevola [completa] (Ario Didimo, Epitome dell’etica peripatetica, § 17)

[I testi dei Peripatetici esaminati in questa sede non sono stati perlopiù tradotti in italiano. Queste le edizioni che ho usato:
1) Per Dicearco: William W. Fortenbaugh, Eckart Schütrumpf (eds.), Dicaearchus of Messana, New Brunschwig-London, Transaction Publishers, 2001.
2) Per Clearco e Cameleonte: Fritz Wehrli (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles. Band III: Klearchos, Basel-Stuttgart, Schwabe, 1969, e Andrea Martano, Elisabetta Matelli, David Mirhady (eds.), Praxiphanes of Mytilene and Chamaeleon of Heraclea, New Brunschwig-New York, Transaction Publishers, 2012.
3) Per Eraclide Pontico: Eckart Schütrumpf (ed.), Heraclides of Pontus, New Brunschwig-London, Transaction Books, 2008.
4) L’Armonica di Aristosseno è edita e tradotta in italiano da Rosetta de Rios (a cura di), Aristoxeni Elementa Harmonica, Romae, Typis Publicae Officinae Polygraphicae, 1954. Invece, cito i frammenti dalla raccolta di Stefan Ikarus Kaiser (Hrsg.), Die Fragmente des Aristoxenos aus Tarent, Hildesheim et alii, Olms, 2010.
5) Per Demetrio Falereo: William W. Fortenbaugh, Eckart Schütrumpf (eds.), Demetrius of Phalerum, New Brunschwig-London, Transaction Publishers, 2000.
6) Per l’altro Demetrio: Nicoletta Marini (a cura di), Demetrio. Sullo stile, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2007, che ha inoltre la paternità della traduzione dei passi citati.
7) Ario Didimo è infine citato da Stobeo e seguo l’edizione di: Curtius Wachsmuth (ed.), Ioannis Stobaei Anthologii libri duo priores, Berlin, Verlag der Weidmannschen Buchhandlung, 1884. La traduzione del suo passo è mia.
La resa italiana degli estratti da Ateneo è tratta dai quattro volumi di Luciano Canfora (a cura di), Ateneo. I deipnosofisti: i dotti al banchetto, introduzione di Christian Jacob, Roma, Salerno, 2001. Quella del passo dello pseudo-Plutarco è presa da Eliodoro Savino (a cura di), Pseudo-Plutarco. Della musica, prefazione di Marina Mayrhofer, appendice di Alessandro Abbate, Napoli, F. Pagano, 1991. Quella della citazione da Aristotele appartiene ad Armando Plebe (a cura di), Aristotele. Etica Nicomachea, Roma-Bari, Laterza, 1998. Tutti gli altri passi sono tradotti da me].

Enrico Piergiacomi
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