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Strehler e il teatro italiano tradito dai nuovi mercanti

Giorgio Strehler, in vista della riforma della prosa promessa dal ministro Carraro nel 1988, preparò un “esplosivo” rapporto sulla crisi del teatro italiano pubblicato sul Corriere della Sera il 10 gennaio 1988.

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giorgio strehler

Il teatro italiano tradito dai nuovi mercanti: salviamolo!

Vittorio Gassman nella sua recente intervista al Corriere della Sera mostra di avere gravi perplessità, non esenti – mi pare – da una certa rassegnazione, sullo stato del Teatro italiano e del suo futuro. Ho letto, in questi mesi, anche altri interventi di altri “protagonisti” della scena che denunciano uno stato di malessere diffuso e di profonda preoccupazione. Come infatti potrebbero non preoccuparsi coloro che di Teatro sono degnamente vissuti e vivono, constatando la regressione del loro unico mondo, piccolo ma ricco di simboli, pieno di echi, di risonanze gloriose, a uno stato non molto diverso da quello del 1947?
Con in meno lo slancio, la volontà propulsiva, la speranza e l’entusiasmo che caratterizzarono gli anni della giovinezza e della ricostruzione del nostro Paese. In sostanza, allora, la mia generazione si trovò, nel campo del Teatro, a lottare contro un vecchio sistema mercantilistico, contro la commercializzazione del lavoro d’arte. Ci battemmo allora per creare un Teatro che fosse tendenzialmente più artistico, più elevato nei suoi contenuti e nei suoi modi di espressione, più al servizio di una collettività nazionale.

Per noi “Teatro” voleva significare luogo di incontro e scontro non semplice rituale o abitudine mondana. Teatro come dialogo fra donne e uomini sul palcoscenico e nella platea per dirsi alcune cose, rifiutarne altre, per mettere insomma in dialettica il mondo “divertendosi” proprio nell’atto meravigliosamente superfluo, e per questo ancora più necessario, del Teatro. Quando parlo della nostra battaglia artistica e strutturale di un tempo, non parlo, ovviamente, della nascita e della vita del Piccolo Teatro che sono – in larga misura – una storia “a parte”, probabilmente anomala, del Teatro italiano. Ciò che ci interessava non era solo “la stabilità” in un contesto del Teatro Nazionale quasi del tutto itinerante, ma assai di più ci stava a cuore il concetto di un “Teatro a gestione pubblica”, di un Teatro il più possibile poetico, per un Pubblico il più vasto possibile, nel dilagare dell’interesse commerciale e della volgarità trionfante. Parlo, piuttosto, di un grande movimento di tutto o di massima parte del Teatro Italiano che vide allora accomunati in un tentativo di rendere più alto il concetto stesso del teatro come attività artistica, uomini diversi in condizioni diverse. Alcuni di noi pensavano ad un teatro principalmente legato alle Istituzioni, altri – Luchino Visconti ad esempio – pensavano ad altre forme, ad altri strumenti. Ma tutti eravamo convinti di alcune necessità, e tutti eravamo pronti a difendere il Teatro come Arte, il Teatro come Professione. Gli sforzi di questi “professionisti” del Teatro, totalmente impegnati in esso, sembrano oggi vanificati. La filosofia del teatro italiano sembra di nuovo quella del “fare tanto teatro” (poco importa se bene o male) per trarne l’utile maggiore. Utile che oggi ha assunto un significato più complesso perché non è solo finanziario. Ci sono utili anche di vanità, utili di narcisismi, di velleità non sempre suffragate da altrettante vocazioni e talenti. In questo contesto, sempre di più, sempre con maggiore invadenza, sono emersi i nuovi “mercanti del teatro” non migliori di quelli vecchi, gli “organizzatori” venali del teatro non meno venali di quelli di un tempo, si sono intromessi dilettanti di retroguardia, sperimentatori in eterno dello stesso esperimento, diventato vecchio e risaputo ed anche interpreti i quali – in nome della “riscoperta dell’attore” (come se l’attore fosse mai stato perduto!) – sono diventati demiurghi, peggiori dei mattatori di una volta, con microfoni e sottofondi elettronici, registi di se stessi e di altri senza più senso del limite, né modestia, né serietà professionale. Sono aumentati vertiginosamente registi che poco o nulla hanno da dire e vogliono o credono di dire molto. C’è una reale crisi per molti Teatri Pubblici, i vituperati e certo in parte vituperabili Teatri a Gestione Pubblica che però restano, comunque, un’“altra cosa” rispetto ad un’impresa privata. Ed infine c’è la crisi, questa fondamentale, del pubblico. Il Pubblico, unica ragione perché il teatro si faccia. Tutti i teatranti, oggi, sanno che il pubblico non affluisce più, nelle sale di teatro, con una certa normalità, con regolarità. Il pubblico manca, ormai da tempo, sempre più, al teatro, in modo sconvolgente. Nel 1962 il Teatro di Prosa Italiano aveva, approssimativamente, un milione e mezzo di spettatori. Nel 1983 il lavoro umile, paziente, continuo di tutta una generazione di teatranti aveva portato questi spettatori a circa otto milioni e mezzo. Non fu un risultato da poco, questo! E non costò poco, ai suoi artefici. Ma nel triennio che va dal 1984/1987 il numero degli spettatori si constata che è salito solo di un piccolo due per cento. Praticamente il pubblico di oggi è di circa nove milioni di spettatori.

Strehler_Soleri arlecchino_WebNel bilancio di previsione per il 1988, presentato dal ministro del Tesoro, abbiamo letto questa triste constatazione: “Fra l’atro un dato preoccupante per il teatro di prosa è rappresentato dalla media degli spettatori per recita che è diminuita, nell’ultima stagione di oltre il dieci per cento nei confronti della precedente e questo sottolineando il fatto che la contribuzione statale è stata aumentata di oltre il cinquanta per cento, rispetto al triennio precedente”. Cosa significa tutto ciò? Significa che di fronte a questi nove milioni di spettatori – io credo – sempre più disorientati, lo Stato, che erogava 55 miliardi di lire circa, ha erogato o erogherà circa 130 miliardi. Ma a che cosa è servito? A risanare il teatro malato? A dare maggiore solidità a ciò che meritava di essere sostenuto o riaffermato? È servito ad aiutare un lavoro d’arte degli uomini del teatro, per uno scopo poetico e culturale, per una attività più libera, più sicura, più preoccupata delle condizioni stesse del mestiere dell’autore e dei doveri dell’Arte? No. Essa è servita solo ad aumentare, dissennatamente, il numero dei complessi sovvenzionati. Così i Teatri a Gestione Pubblica che erano otto (ed erano, forse, già troppi viste le condizioni in cui sono nati e come poi sono stati vissuti) sono diventati quindici. In più sono diventati Stabili Pubblici, cioè con sovvenzioni regolari dello Stato ma senza le verifiche istituzionali dovute, al di fuori quindi di ogni reale controllo pubblico, 12 Teatri Privati. Attualmente allo studio di una Commissione per l’ammissione al gioco, ci sono altri 14 Stabili Privati! Là dove anni fa esistevano più o meno cinquanta complessi teatrali degni di questo nome e corrispondevano alla capacità produttiva del teatro di prosa nazionale, esistono oggi 59 cooperative, 66 compagnie private, 113 compagnie sperimentali, 76 compagnie per ragazzi, 87 compagnie neo professioniste (non so cosa siano), 18 organismi di produzione e promozione, 28 organismi di promozione soltanto, 14 scuole di teatro (ma dove, con chi e di chi?), 6 organismi che producono commedie musicali e cabaret, 10 compagnie universitarie, 5 Enti teatrali vari, rassegne, manifestazioni diverse per un totale di 707 complessi di “attività spettacolistiche” come il già citato bilancio di previsione del ministero del Tesoro definisce il Teatro.

Il nostro Paese non è, chiaramente, in condizione di sopportare questo peso. Ed è altrettanto chiaro che noi stiamo vivendo una situazione inflazionistica estremamente grave. Ecco perché i teatranti, questi grandi bambini che vendono smorfie e spacciano parole ma col loro cuore, come meglio sanno e possono, ecco perché non capiscono più cosa bisogna fare. Ecco perché sono smarriti. Perché i bambini hanno perso il loro orientamento, la loro rosa dei venti che è il Pubblico che li ascolta e talvolta li ama! Hanno perduto o credono perduta la loro ragione di essere. C’è stato e forse c’è ancora chi si è compiaciuto di questo. C’è stato e c’è chi si è esaltato e si esalta per questo “impulso produttivo” dato al teatro italiano, finalmente di “oggi”. Ma avviene anche che sempre più, molti, adesso constatano a loro spese che il pubblico in rapporto ad un’offerta indiscriminata e suicida ha compiuto un movimento verso il basso, nel numero e nel gusto. Adesso avviene che, perduto il sentimento delle imprese degne e alte, qualcuno parli di “tragica crisi del teatro” o si metta a fare solo televisione, qualcun altro parli di “rifondazione del teatro italiano” con la probabilità che esso consenta una più redditizia licenza imprenditoriale capace di ogni compromesso e di ogni sfrenatezza. Ma che cosa c’è da “rifondare” quando mai nulla è stato veramente fondato che valesse qualcosa, per tutto il teatro italiano? Se è mancata, da sempre, una concreta volontà di dare una struttura decente ed accettabile nel suo complesso che deve essere vario, esprimere concezioni e modulazioni diverse ma che deve avere dei punti fermi per tutti, delle regole invalicabili comuni? Franz De Biase, che ha preso la parola in questo dibattito con un suo intervento sui giornali da molti giudicato troppo moderato e reticente ma che invece, a mio avviso, tale poteva apparire solo per un antico ed invincibile pudore e perché egli voleva lasciare la parola della “verità” ad altri che potevano e dovevano dirla e non l’hanno detta, ben conosce per storia vissuta la situazione vera del teatro italiano, teatro pubblico e no e come è esistito, anzi ha resistito, per questi decenni! Egli, per lunghi anni principale “responsabile”, Funzionario dello Stato, verso il Potere Pubblico e Politico, si è battuto con infinita tenacia e coraggio così come poteva, tra ministri assenti o incompetenti o disinteressati o troppo interessati o latitanti, in mezzo alle fazioni politiche scatenate, per il piccolo osso del teatro in cui però vedevano e vedono ancora il mezzo per infilarsi “nello spettacolo” più grande, convinti come sono della “vita-spettacolo”, della “politica-spettacolo”, la peggiore di tutte. Egli sa, la battaglia sorda, piena di amarezze e rare gioie che abbiamo insieme ad altri condiviso. Quante volte ci siamo ritrovati, certe sere, dopo spettacolo, lui, Paolo Grassi ed io, a chiederci, veramente smarriti, che cosa si doveva e si poteva ancora fare di più per aiutare il teatro italiano ad avviarsi più decisamente nel cammino che, in Italia, Silvio D’Amico ci aveva indicato e che, prima di lui altri in altre parti del mondo e dell’Europa ci mostravano ancora, da lontano.

Il teatro nazionale attardato su moduli gloriosi ma superati, quelli dell’Antico Teatro all’Italiana, non andava distrutto, come si è tentato e in parte riuscito a fare, ma andava invece inserito, con tutta la sua vitalità meravigliosa e la sua inimitabile specificità, in una civiltà teatrale più contemporanea. E questa civiltà teatrale più contemporanea era fatta – per noi – di Istituzioni pubbliche teatrali “di base” veramente stabili. Poche ma create lungo tutto il Paese, secondo i suoi gangli vitali, non a caso. Istituzioni pubbliche municipali, regionali, interregionali, istituzioni pubbliche e persino itineranti, due o tre scuole ad alto livello, oltre la nostra gloriosa Accademia Nazionale che dopo Orazio Costa, al quale il teatro italiano doveva e deve un suo tributo di stima e di rispetto e non l’ha mai fatto, stava ogni giorno di più perdendo la sua primigenia identità, cioè l’impronta di Jacques Copeau. E poi teatri di ricerca vera, talvolta nemmeno finalizzata ad uno spettacolo, libere associazioni di attori in cooperazione non fittizie e un libero teatro privato, aiutato anch’esso dallo Stato, in limiti corretti, su risultati di valore d’arte, aiutato non solo con denari e premi ma aiutato “alla base” con statuti di vita diversi, viaggi pagati, defiscalizzazioni, detassazioni e così via. Era un teatro che voleva tenere conto del pubblico, sforzandolo a diventare migliore e più legato al teatro ma non “al di là” della reale consistenza delle forze umane che teatro potevano produrre, cioè attori, registi, scenografi, tecnici che già allora cominciavano a mancare e mancano oggi sempre di più. Questo era ed è ancora oggi un progetto per un Teatro di Prosa nazionale che sappia assolvere il suo destino non di “imprese teatrali”, non di “organismi di produzione teatrale” ma di luoghi di associazione in forme diverse di esseri umani che si dedicano alla pratica dell’Arte del Teatro, della Professione umile ed al tempo stesso stupendamente esaltante, dell’Attore.
2 piccolo storico

Quando in una seduta della Settima commissione senatoriale che si occupa anche di spettacolo, il mio onorevole collega ed amico senatore Boggio ci ha espresso la sua passione delusa ed il suo rammarico, ricordandoci che da dieci anni egli insieme ad altri ha tentato di costruire un progetto di legge per il teatro di prosa e che non ci è riuscito, non c’è stato in noi nessun compiacimento, per nessuno. Solo un sentimento di colpa. Ebbene, oggi abbiamo un ministro che non è assente, che non è latitante, che è pronto ad agire con coraggio ed amore. Il Teatro Italiano e le forze politiche, diano a questo giovane e attento ministro, diano al Parlamento l’aiuto di chiarificazione di comportamenti che sono necessari in circostanze così straordinarie e difficili. Così restando le cose, accettando come si fa, ancora i principi di una legge distruttiva quale è quella del progetto legislativo “cosiddetto Lagorio”, ma che dell’ex ministro Lagorio non è, bensì di altri che hanno usato il suo nome per contrabbandare principi ed invenzioni mirabolanti come quella della fondazione di un “Istituto per il Dramma Barocco” che in Italia non è mai esistito, continuando ad informare dello spirito di questa legge mai divenuta tale, i “regolamenti” annuali del ministero del Turismo e dello Spettacolo i quali, in mancanza di una legislazione, sovraintendono alla vita quotidiana del teatro italiano, adoperando insomma surrettiziamente la filosofia perversa di una legge abortita, per dirigere il teatro italiano con scelte errate alla sua perdita e nulla mai noi possiamo aspettarci se non una situazione sempre più alla deriva, sempre più degradata. E gli uomini di teatro, i protagonisti del teatro, i migliori ed i più umili, insieme, uguali tutti, perché sono essi che hanno il diritto di parlare, perché sono essi che non di rado per tutta una vita hanno pagato di persona, esponendosi, carne e sangue, al pubblico, riassumendo su di loro tutta la tremenda responsabilità del teatro, sera per sera, non hanno altro potere che quello di esprimere su qualche giornale, in qualche incontro, in qualche intervista la loro mortificante delusione. Ebbene, io penso che anche per i teatranti onesti – e sono tanti – sia venuto il momento di farsi sentire, in altro modo, di non accettare più questo stato di cose. Vittorio Gassman si domanda come e cosa fare: una Convenzione per “riformare” il Teatro? Un gruppo di saggi che prestino mano ad una riforma sostanziale del teatro di prosa italiano? Può darsi. Può darsi questo e altro.

E perché no, allora, la nomina di pochissimi “Commissari Straordinari” (tre basterebbero) con ampi poteri che dovrebbero stendere in poco tempo un obiettivo rapporto sulla realtà e sulla storia, “consistenza di tutto il teatro di prosa in Italia”. Ecco: sapere esattamente e far sapere cosa esattamente c’è, nel teatro italiano e come è. Tanto per cominciare. Poi, invece di rifondare, chiedere che quello che già è stato fondato – e c’è – nel Teatro Italiano, sia preso veramente in carico, dai poteri pubblici e difeso, quando i suoi risultati siano stati e siano incontestabili e onorino l’arte teatrale italiana. Far dare ai “protagonisti” della storia teatrale italiana contemporane il posto che meritano. Indicare una prospettiva artistica, non solo quella della occupazione o del “giro” della “propria compagnia” a tanti teatranti degni di questo nome. Ritrovare una unità su alcuni principi, che non sono principi produttivi ma “artistici”. E da parte nostra, consociarci con maggiore umiltà, l’uno all’altro, fin dove è possibile, per dar vita a formazioni teatrali, a “compagnie” e “teatri”, solidi ed armonici nei ruoli, splendenti nelle distribuzioni e nelle esecuzioni per offrire il vero viso del teatro italiano all’Europa in cui noi possiamo dire ancora di più la nostra parola che sarà ascoltata e rispettata, come lo è stata ieri e oggi, purché ricca di tanta storia e di tanta fantasia e nello stesso tempo calore e serietà professionale. La Commedia dell’Arte è nostra ed è il trionfo del mestiere della famiglia del Teatro! Ma soprattutto esigere che i Partiti Politici, ascoltata la nostra voce non univoca ma unitaria, i Poteri Pubblici e quelli Legislativi siano spinti domani, e non dopodomani, a dare una legge per il teatro di prosa che rimetta ordine e professionalità e talento al posto che loro spetta, che siano portati a capire che il Teatro non è un piccolo e sporco affare di pagliacci o di istrioni pronti a vendersi a chi capita per un po’ di successo e denaro ma è un “modo di vita” alto e degno, che è infanzia difesa per tutti, che è tramandarsi di alte parole del genio umano che per noi sono state scritte! Quando guardo i limpidi occhi, vivi come mai mi erano apparsi prima, dei miei allievi del corso Copeau del Teatro del Piccolo, quando tento, per ore della mia lunga giornata di lavoro, di dire qualcosa del teatro a questa giovinezza trepida e pulita e che tanto, troppo si aspetta da me, sento crescermi dentro una nuova, decisa certezza ed un impregno imprescindibile di non deluderli, di offrire loro un teatro più onesto e più umano in cui essi possano vivere una vita degna e profonda, proprio sul filo del vano, dell’intoccabile, del misterioso gioco che hanno scelto come modo d’essere per altrettante misteriose ragioni del cuore.
Quelle appunto che spingono nelle diverse epoche alcuni esseri umani a diventare “Attori” cioè Interpreti, voci di un’intera collettività, voci di generazioni, voci di Storia.

Giorgio Strehler

(Corriere della Sera, 10 gennaio 1988)

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