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Bernard Shaw e l’Eliseo. Malattie della società

La professione della signora Warren di Bernard Shaw al Teatro Eliseo per la regia di Giancarlo Sepe, la recensione

Foto ufficio stampa
Foto ufficio stampa

Fa sempre uno strano effetto osservare un palco nudo di quinte, con cordami e attrezzeria a vista quasi fosse un corpo aperto su tavolo operatorio; specie se, come in questo caso, si tratta del Teatro Eliseo proprio allo scadere dell’ultimo termine di sfratto, ancora in prognosi riservata e, al capezzale, ipotesi di cura varie e non sempre confermate (qui la “cartella clinica”). Ma la vita va avanti e allora, anche a cavallo di un passaggio di gestione non ancora definito – per cui le sorti di molti (spettacoli compresi) non hanno ancora trovato assoluta certezza – il teatro di via Nazionale continua il suo lavoro, proponendo come da cartellone, una propria produzione legata al nome del consulente artistico dell’Eliseo, Giancarlo Sepe.
Il titolo in questione, del quale il regista cura anche traduzione e adattamento è La professione della signora Warren, scritto da George Bernard Shaw nel 1883. Inserita all’interno della raccolta dall’esplicativo titolo “Commedie sgradevoli”, l’opera muove un attacco al moralismo ipocrita della società vittoriana, affrontando senza troppi peli sulla lingua tematiche legate all’emancipazione femminile e soprattutto alla prostituzione, accettata e sostenuta da quella stessa morale che vorrebbe condannarla. Argomenti così forti da imbrigliare i personaggi in una trama tutto sommato debole: dopo una brillante carriera di studi – il cui prezzo da pagare sembra essere, almeno in prima istanza, la lontananza dalla madre – la figlia della signora Warren, Vivie, trascorre un periodo di vacanza in campagna, durante il quale verrà a conoscenza del losco mestiere della genitrice, in un epilogo di perdita e amarezza.
Quella dipinta da Shaw è una società incancrenita, nessun personaggio è limpido, non la signora Warren e i suoi amici, non il fidanzato della figlia e nemmeno il reverendo. Le azioni degradate, pur avendo un’ origine motivata – come la miseria, la mancanza d’affetto o di intelligenza –  protratte nel tempo, finiscono col far perdere l’umanità iniziale dei propri personaggi. Tutto sembra auto corrodersi, perfino la stessa vittima del sistema è costretta a dover fare i conti tra emancipazione e asservimento, tra il moralismo che rifiuta il compromesso e l’evidenza che tutto il lusso e la conoscenza che fino a quel momento aveva dato per scontati scaturiscano da quella stessa condotta deplorata.

Foto ufficio stampa
Foto ufficio stampa

È davvero possibile che un attacco così tagliente alla società del tempo non possa tradursi sulla scena con altrettanta potenza? Di un palco squintato si parlava in apertura, e tuttavia è l’utilizzo di una pratica a renderne la forza, non la sua dimenticanza. Ci si dimentica di avere le pareti scoperte forse anche perché sul fondale campeggia un gigantesco assegno, quasi fosse una sorta di monito o di divinità cui consacrare tutto lo spettacolo. Fin qui niente di male, ma l’impressione è che si tratti di segno grafico non espresso a pieno. Similmente, verrà accantonata la sagoma di una macchina il cui utilizzo – superfluo – è relegato al prologo; gli effetti luministici di Gerardo Buzzanca, anche qui escludendo l’incipit, sembrano esser esclusivamente di servizio e la colonna sonora (di Davide Mastrogiovanni e curata dall’Harmonia Team) viene relegata a tappeto di sottofondo: costante, basso e a lungo andare fastidiosamente inutile. A seguire, non troveremo altri momenti come l’iniziale introduzione della co-protagonista, presentata come una sorta di carillon, quasi a voler suggerire la sua scarsa influenza sugli avvenimenti. Anche in questo caso lo spunto sembra interessante, ma non confluendo in ulteriori sbocchi nel corso della messa in scena l’impressione è che venga abbandonato. Troveremmo che anche le interpretazioni dei personaggi (certo non così semplici) rimangano ad un livello superficiale: della tenutaria di un bordello con l’infelice passato Kitty Warren, Giuliana Lojodice sembra restituire solo la rozzezza dei modi e al più una lamentosità che poco ha di sensuale. Le emozioni si alternano con tale velocità da superare quella naturalezza cercata altrove e, la tragedia finisce per divenire farsa grottesca. D’altro canto anche la rabbia della figlia, montata oltre misura, sembra viaggiare a corrente alternata. I personaggi maschili risultano tutti appiattiti a pochi stilemi; spicca in negativo il reverendo Gardner, vestito in un improbabile completo di pelle e occhialetti scuri, di quest’aspetto sembra assumere l’eccesso di toni acuti e movimenti scattosi da rockstar maledetta. L’attacco originario del testo si ritorce su se stesso, come se mancasse la voglia di generare domande, di far chiedere perché di un comportamento o di una scelta, come se tutto fosse scontato, anche la cura.

Viviana Raciti

Twitter @viviana_raciti

Fino al 9 novembre 2014 presso il Teatro Eliseo

LA PROFESSIONE DELLA SIGNORA WARREN
di George Bernard Shaw
traduzione e adattamento Giancarlo Sepe
con Giuliana Lojodice, Giuseppe Pambieri, Pino Tufillaro, Fabrizio Nevola, Federica Stefanelli e Roberto Tesconi
scene e costumi Carlo de Marino
disegno luci Gerardo Buzzanca
colonna sonora a cura di Harmonia Team
con musiche originali di Davide Mastrogiovanni
regia Giancarlo Sepe
Produzione Teatro Eliseo
In collaborazione con Francesco Bellomo

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

2 COMMENTS

  1. Ho avuto anche io molti dubbi sulle scelte registiche di Sepe, sul siparietto iniziale poi abortito nel prosieguo dello spettacolo, sul ruolo insopportabile della musica e (me lo conceda) dei microfono ambientali, vera bestemmia in un teatro di prosa, nonchè sull’impostazione data al pastore, poco comvincente. Mi aspettavo però più rilievo per le prove della signora Lojodice, per me del tutto a suo agio nel ruolo proposto dalla commedia (tenutaria di bordello, non più la prostituta della gioventù, insomma più una donna d’affari che una vera maitresse, e per questo per me giustamente “non sensuale”) e di Federica Stefanelli, ottima Vivie in alcune scene di scambio reciproco d’accuse.

  2. Quando Sepe è alle prese con Regie “istituzionali” dimostra una certa stanchezza (vedi “Molto rumore per nulla”). Quando la necessità non smuove l’animo assistiamo a spettacoli inutili come questo….

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