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Carolyn Carlson e Rothko. Sinestesia di un dialogo

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Dialogue with Rothko di Carolyn Carlson. La recensione dello spettacolo visto al Festival di Villa Adriana

 

Carolyn Carlson
Dialogue with Rothko. Foto di Laurent Paillier

Destinato a rimanere eterno, immutabile – quindi immobile? – oppure in grado di parlare sempre al presente, quasi a modificare la propria essenza nella percezione dello sguardo altrui, coesistendo con paradossale coerenza tra due estremi, in un movimento che va dal rosso al nero, passando poi per maglie chiarissime che si rivelano essere anche le più oscure. I quadri di Mark Rothko ben si prestano a questo genere di considerazioni, e Carolyn Carlson, uno dei capisaldi dalla modern dance americana, non è la sola ad aver trovato nel pensiero dell’artista visivo terreno fecondo su cui impiantare il proprio lavoro. Anzi, il solo presentato a Villa Adriana fin da subito dichiara la propria appartenenza: Dialogue with Rothko è una dedica al lavoro dell’artista che fece della crisi, della sottrazione perfino dell’opera d’arte, un atto anzi tutto creativo.

Il lavoro trovava una prima forma scritta in un  un piccolo libro di riflessioni poetiche dal titolo Dialogue with Rothko (edito in Francia nel 2011) della danzatrice e coreografa a partire dall’osservazione di Black, red over black on red (1964). Seguiva così l’elaborazione di un movimento performativo su una scena bianca, composta da due grandi pannelli (uno centrale e uno al lato) e un tavolo da disegno, pronti ad ospitare come vergine tela la messa in forma coreutica dell’intera gestazione artistica.

Carolyn Carlson
Dialogue with Rothko. Foto di Divergence Images

Astrazioni come immaginazione, progettazione, dubbi e creazione acquisiscono la forma concreta del gesto, danza della pittura e, al contempo, pittura danzata. Diventano ostacolo che blocca all’addome, impedendo il fluire morbido delle braccia o del camminare, oppure si librano in aria con scioltezza, quasi fosse volo d’uccello, pennellata serena o idea che fugge via. Forze uguali ed opposte sono presenti sulla scena, e forse non è un caso che ad assistere la direzione vi sia una personalità come Yoshi Oida, che di questa dualità ha fatto filosofia di una vita. Il viso della danzatrice a tratti abbandona la propria imperscrutabilità; fortunatamente la “tentazione ad interpretare” solo in pochi momenti rompe sulla scena in una mimica da artista pensoso, in crisi, che guarda la tela e non dice niente, distraendo lo spettatore da un lavoro che invece ambisce – e raggiunge – vette molto più alte. Intervengono pochi oggetti, tra cui un telo, dei guanti di colori diversi, significative saranno poi le diapositive che dalla tavola luminosa posta in proscenio vedremo riflesse sui grandi pannelli, a volte adombrate da una mano o dall’intero corpo. Le parole proiettate in una sovrapposizione molteplice smettono di essere veicolo di significato, quasi a sotterrarne il senso comune per recuperarne uno più generale. L’abito stesso, bianco, è prolungamento del braccio e del quadro, muta e diviene gonna nera, ampia e aperta su un lato pronta a lasciar intravedere un pantalone rosso.

La cura è evidente in ogni dettaglio, dalle luci di Rémi Nicolas (autore anche della scena) che attentamente disegnano rettangoli d’azione alla presenza delle note di violoncello composte e suonate dal vivo da Jean Paul Dessy,in un dialogo a più voci tra sonorità elettroniche e le parole registrate della danzatrice. Sembrano chiedersi tutte la stessa cosa, quale potrebbe essere il senso, il tono musicale (le note acutissime di un piano, o il vibrare grave del violoncello), la qualità del gesto (morbida o trattenuta, ieratica o disfatta e umana?) quale il mistero insondabile di quei due colori non più distinguibili nella loro singolarità? Parimenti, la risposta non può essere univoca, definita. Eppure, quel movimento che scolora, che prova ad entrare nel pensiero della creazione, restituisce una simile percezione; nella con-fusione dei sensi appare, come sguardo obliquo, una maggiore consapevolezza. La profondità, scura, misterica, si fa più chiara, la tela si dissolve e sembra apparire l’uomo.

Viviana Raciti
Twitter @viviana_raciti

Visto al  FestiVAl di Villa Adriana in luglio 2014

DIALOGUE WITH ROTHKO
Coreografia, interpretazione e testi Carolyn Carlson
Assistente Yoshi Oïda
Musiche e accompagnamento al violoncello Jean Paul Dessy
Voce Juha Marsalo
Collaborazione musica registrata Aleksi Aubry-Carlson, Pierre-Alain Samanni
Ideazione luci e scene Rémi Nicolas
Costumi Chrystel Zingiro
In collaborazione con Daniele Cipriani Enterteinment

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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