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Atlante XXXVIII – Parlamenti di Aprile

I Parlamenti di Aprile. La parola a confronto con il Teatro delle Albe

 

parlamenti di aprile
Foto Teatro delle Albe

La parola. È ciò che del pensiero concediamo allo spazio sonoro, l’acquisizione di coscienza per chi la pronuncia prima di chi la ascolta, è un veicolo di concetti e un grimaldello di riflessioni incardinate nel proprio giogo; con una parola può crollare una barriera vecchia millenni o se ne può erigere una in uno schiocco di labbra. Tante parole possono essere vane, poche o una soltanto, essere risolutiva. Potremmo a lungo farci affascinare dagli elementi più concreti del linguaggio, allo stesso modo di quanto Ermanna Montanari e Marco Martinelli, solida coppia artistica alla guida del Teatro delle Albe, hanno avvertito come missione culturale, quella di dibattere, di coinvolgere visioni e temi in un reticolato di confronto al fine di apprendere ognuno la propria complicità al mestiere delle arti, la promessa rinnovata di indefessa passione. Grazie a questa intenzione sono nati i Parlamenti di Aprile, settimana dedita alla riflessione pubblica e mirata alla condivisione di esperienze che si instaura come un fiore raro all’interno della stagione di Ravenna Teatro, nello spazio foyer dello storico Teatro Rasi.

Ravenna è un posto strano, ha l’intensità storica di una città musealizzata – celebri i suoi mosaici, culla dell’architettura paleocristiana e ricca interprete delle influenze barocche – ma ha saputo innestarvi una spinta propulsiva per una rinnovata intensità, quella che vede nella cultura contemporanea un veicolo per calcare ancora il tratto del segno antico. Ecco allora quasi naturale il dialogo tra le attività fiorenti attorno alla candidatura futuribile di Ravenna a Capitale Europea della Cultura 2019 e la magnificenza di un teatro come quello dedicato all’attore e storico Luigi Rasi, costruito cento anni fa nella ex chiesa di Santa Chiara, di cui ha conservato l’abside originale e l’eco antica di raccoglimento, capace però di farvi coesistere le voci animalesche del tempo in cui, durante l’epoca napoleonica, fu trasformato in cavallerizza.

Ma prima, prima di tutto è il rito di iniziazione. La sacralità con cui gli ospiti accolgono i viandanti di percorsi artistici è emozionante, si resta dapprima sorpresi, poi si lasciano le redini di una postura immotivata, che questa occasione non merita, per farsi con maggiore naturalezza cogliere in una posizione da eternare, tramite lo scatto di Cesare Fabbri che cattura immagini nel giardino filtrandole in un esperimento, sotto una nube di magnesio. Cosa ne verrà? Poco importa, ora. Saranno il frutto di un tracciato, la caduta parabolica di un arco, chiamato pensiero.
Ma in sala, dopo giorni di approfondimenti sulla teoria teatrale, sulla comunicazione, prima di ciò che saranno (ormai stati) i parlamenti legati alla filosofia, all’Europa, alle “peripezie”, si inizia a parlare di un tema assai poco dibattuto: la critica e la scena, quando esse confluiscono in un’unica figura che si arrischia a frequentare entrambe. Chiamato, chi scrive, con Renato Palazzi e Maria Grazia Gregori, Graziano Graziani e Fernando Marchiori, quel poco di imbarazzo tematico si scioglie perché non c’è giudizio ma un invito effettivo, per un desiderio di confronto verso una piccola ma ineludibile pratica.

La curiosità è ciò che per prima muove, poi l’ascolto fa il resto e si giunge per vie impervie a considerare un’anomalia proprio nella sua essenza: la presenza del critico sul palco, oltre a permettere una maggiore coscienza dell’arte scenica, degli errori e delle difficoltà che ad essa appartengono, è inoltre e non lontanamente il risultato di una più intensa partecipazione comunitaria; l’accresciuta necessità di considerare nuovi pubblici infatti, per un teatro mai così devitalizzato in più ampi ambiti culturali, suggerisce l’indagine di possibilità prima scarsamente frequenti, in esse è il desiderio di sperimentare che al critico contemporaneo, per così dire “liquido”, fanno meno orrore che nel recente passato, ponendolo sì in una fase di rischio, ma insieme amplificando il suo carattere già di per sé ibrido: se infatti egli è da un lato latore di un messaggio che dialoga con l’opera e del suo sguardo esterno la completa, allo stesso tempo e modo ne è interprete, le permette di attraversare la sua presenza concreta perché sia palesata proprio in quell’esterno. Ma non è l’attore interprete per eccellenza? Non incarna l’attore il filtro di un’opera, fin quasi a compenetrarla e potersene dire parte egli stesso? La sola differenza che passa tra i due traduttori è la mimesi, che appartiene all’attore e che il critico fugge come schermo all’espressività egotica. Ma il tempo muta, con esso le opportunità e l’equilibrio fra oggettività e soggettività, compitando l’estremizzazione di quest’ultima come una nuova e inevitabilmente organica oggettività.

Parole, si cercano e zampillano dentro e fuori la scena con sempre crescente immediatezza. Tornano le parole a definire perimetri, abitare spazi nel lungo della memoria e nel largo dell’estensione. Le ultime sono una dedica. A Renato Palazzi. Critico di lungo corso de «Il Sole 24 Ore», da un paio di anni e per la prima volta ha preso a calcare le scene, realizzando due spettacoli come Goethe schiatta di Thomas Bernhard e Questa cosa vivente chiamata Guidogozzano, sul poeta torinese vissuto a cavallo del Novecento. La sua definizione è determinante e dice con precisione che «il nostro obiettivo non è la critica o la mediazione, ma il teatro in ogni sua forma», così delimitando con chiarezza un territorio dai sempre labili confini: è il teatro il fine e il mezzo può attraversare diversi stadi di comprensione, di acquisizione. Ha ragione Palazzi, che durante la sua azione scenica in cui presenta Bernhard e Gozzano ha un tremore alle dita delle mani, coinvolge in un afflato di commozione quando muove l’abito femminile o parla con una presenza palesemente assente. Ha ragione perché è forse tutto molto più semplice, perché c’è un segreto vietato a uno spettatore, quel tragitto tra il camerino e il palcoscenico che chi è giunto per assistere, immobile in platea, totalmente ignora; è solo compiendolo che l’attore vivrà l’esaltazione di un momento privato, intimo, finché si alzeranno le luci, comincerà lo spettacolo e parole inizieranno a fluire. Una alla volta, tra la voce del silenzio e il mutismo della coscienza.

Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia

Leggi gli altri viaggi di Atlante

Leggi anche:
su Doppiozero.com – Parlamenti di Aprile
sul Tamburo di Kattrin – Immagini e parole dai #parlamentidiaprile
Corriere di Bologna – Parlamento, cum Figuris: un monologhetto teatral-filosofico di Pasqua (dai Parlamenti di aprile)

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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