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Triestino e Pistoia alle prese con una musica da sciacalli

Foto di Gabriele Gelsi

Siamo in grado di ridere ancora in mezzo alla piccolezza che ci sovrasta, capaci di distaccarci dalle angherie della routine quotidiana, in cui i sogni hanno lasciato irrimediabilmente posto alla necessità del tirare avanti? Gianni Clementi torna a scrivere per l’affiatato duo di attori-registi, Paolo Triestino e Nicola Pistoia, e proprio in questo terzo testo da loro commissionato, Fausto e gli sciacalli – che giunge nuovamente a Roma presso il Teatro Vittoria dopo un anno di tournée – dimostra di saper lavorare su un registro molto affine al drammatico, nel quale  il riso è al più affilata derisione, colpo in contropiede all’esistenza.
Quella vita disillusa e amara attorno a cui ruota tutta l’opera appartiene a Fausto (interpretato da Triestino), ex leader degli “Sciacalli”, gruppo musicale che ebbe un fugace momento di gloria e che adesso riverbera solo nel rimpianto o nella tastiera lasciata a prender polvere inutilmente nella cucina cui fanno da sfondo palazzoni dipinti, di una anonima e popolosa città. Ingombrante scheletro da non tirare fuori, la motivazione del perché ora egli si ritrovi a fare il venditore di improbabili cianfrusaglie rimane sottaciuta per buona parte dello spettacolo, tanto da farcene quasi dimenticare. Un andamento che quasi segue una struttura da serial televisivo, in cui la quotidianità (fatta anche di intercalari dialettali, tra il romano e il partenopeo),  apparentemente fine a se stessa, aggiunge sempre maggiore consapevolezza (amara, quasi cattiva);  nella quale probabilmente non c’è posto nemmeno per la compassione. Ci si tollera a malapena, perfino gli innamorati stentano a sfiorarsi, l’unico rimedio sembra essere lo scherno. Si combatte contro la noia del figlio – vittima generazionale che associa al cosiddetto “disagio urbano” Nesquick, happy hour o vestiti firmati –, oppure si tollera quasi a fatica l’amico, Gennaro, ex bassista della band ormai depresso e ridotto a cantare neomelodica ai matrimoni per convincersi di non aver abbandonato la musica. Con un buon affiatamento, gli attori, consci di questa ambivalenza di visione, finiranno per sfruttare il doppio binario che passa dal tragicomico al realistico, toccando raramente punte di caricatura eccessiva. In quei casi glielo perdoniamo non tanto per indulgenza o per affezione del pubblico (che ride con gusto) quanto perché è la situazione stessa a imporlo.

Foto di Gabriele Gelsi

Presi, loro come noi, dal vivere quotidiano nel quale si arranca perfino per trovare parcheggio, ci ritroveremo assorbiti forse anche troppo da questo susseguirsi di scene, finché non piomberà nuovamente nelle vite dei due la causa di questo collettivo fallimento. Salutato (come la consuetudine ha voluto anche per Triestino) dagli applausi del pubblico, entra in scena Nicola Pistoia ovvero Elmore, batterista degli Sciacalli che proprio all’apice della carriera scappò via appropriandosi ingiustamente dei diritti della canzone di maggior successo.

Elmore è l’incarnazione di una libertà senza appartenenza, né al porto geografico né a quello della morale; eppure, giramondo per oltre venticinque anni, egli sembra esser tornato portando con sé di nuovo il barlume di quel sogno. Verranno ripescati gli sgargianti costumi del tempo con l’idea di riunirsi e riprendere a cantare “Annalisa”, il singolo di successo che, en passant, per questa messinscena è stato composto da due componenti dei Pooh e cantato dagli stessi attori. Tutto il grigiume quotidiano sembra dissolversi nella rievocazione del passato felice, nonostante più di un’ombra aleggi sul gruppo riunito. Secondo un’ironica circolarità ci sarà ancora il risveglio e la batosta, ma anche questo è un riscatto rispetto alla vita piatta a cui si stavano abituando.

Quasi all’antica maniera dei capocomici – che si avvalgono di un ensemble vincente o di una scenografia fatta di quinte dipinte senza troppe velleità ma di supporto al testo – i due registi-interpreti aggiungono un nuovo tassello a quel mondo immaginario coerente nella sua diversità e testimone di una idea di teatro nella quale la genuina comicità non sottende volgarità o facili qualunquismi, ma un messaggio in grado di esser compreso e condiviso. Il rischio che da questo derivi una morale dalla paternalistica saggezza è in questo caso evitato non soltanto dall’amarezza che accompagna il riso per tutto lo spettacolo, ma da un finale che, più che cogliere inaspettato lo spettatore, nella sua plausibilità conferma piuttosto un’aderenza alla vita. Quella stessa vita che appartiene a molti di noi, che di rado abbraccia finali totalmente lieti, ma che andrebbe accolta non solo con ironia, ma con maggior benevolenza verso se stessi. In fondo quel fuori programma in cui Fausto ritorna, dopo il costume paillettato, al suo camice verde da imbonitore di pela carote, ci fa sorridere più che di lui, con lui.

Viviana Raciti

In scena al Teatro Vittoria fino al 19 gennaio 2014 [cartellone 2013/2014]

FAUSTO E GLI SCIACALLI

di Gianni Clementi
con NICOLA PISTOIA e PAOLO TRIESTINO
e Elisabetta De Vito
e con Sandra Caruso, Ciro Scalera, Ariele Vincenti
costumi Sandra Cardini
luci Luigi Ascione
scene Alessandra Ricci
la canzone “Annalisa” è di Stefano D’Orazio e Roby Facchinetti
regia PISTOIATRIESTINO

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

3 COMMENTS

  1. Non ho visto lo spettacolo e non posso, quindi, replicare alla recensione di Viviana, della quale apprezzo lo stile e il rigore. Conosco però la coppia di attori romani, sin dai tempi del celebre “Muratori” e, purtroppo, anche la produzione “seriale” di Clementi che, senza offesa, definirei un “mestierante” della scrittura drammatica, dedito alla riproduzione di una romanità da cartolina, di stilemi consolidati, di battute ad effetto e “telefonate”, utili a registri recitativi molto localizzati e di facile presa sul pubblico, quasi da sit-com. Non voglio fare snobistiche distinzioni tra generi, stili e autori, non mi sembra proprio il caso: tutti i generi hanno dignità e meritano rispetto, soprattutto se frutto di sincero ed onesto artigianato teatrale. Tuttavia, da un sito come il vostro, orientato verso una produzione “altra” ed alta, non mi aspettavo un’apertura di credito così ampia nei confronti non tanto del duo di attori, che merita considerazione, quanto nei confronti di un “serial-writer” come Clementi che,a mio avviso, è sopravvalutato.

    • Gentile Ambro,
      nel merito dello spettacolo risponderà poi, se vorrà, Viviana, io però vorrei fare qualche appunto generale. L’articolo non è sulla produzione di Clementi, ma su questo specifico lavoro, dunque il tuo giudizio caro Ambro è relativo (utile per catità) perché, come tu stesso hai ammesso, non hai visto lo spettacolo. Inoltre su TeC (ti invito a fare una ricerca), è la prima volta che parliamo di Clementi e perciò prima di tracciare giudizi a lunga gittata sulla sua produzione vorremmo vedere qualcosa in più… Non capisco proprio questa tua affermazione “da un sito come il vostro, orientato verso una produzione “altra” ed alta, non mi aspettavo un’apertura di credito così ampia”. Siamo andati allo spettacolo (ripeto il primo di TeC di Clementi) e ne abbiamo scritto, come facciamo per tutti… di che apertura parliamo? Ti prego non farmi elencare le stroncature che abbiamo scritto, è poco elegante 🙂

      grazie

      Andrea Pocosgnich

  2. Grazie per la replica. Ho visto alcuni lavori di Clementi (ricordo, in particolare, “Le belle notti” e “La spallata”) ma ho la sensazione di averli visti tutti (e lo stesso vale per parte dell’opera di un autore di produzione televisiva che talvolta scrive per il teatro con registri simili a quelli di Clementi: penso all’Edoardo Erba di “Muratori” e “Trote”, per restare a due allestimenti di Triestino e Pistoia). Mi sembra ci sia molto mestiere nella scrittura di Clementi, quella sorta di “bonomia” romana, un appicicoso gel simile a melassa, fatto di buoni sentimenti, senso della famiglia, “volemose bene” e poco altro che consente, con poche variazioni sul tema e validi attori dialettali, di srotolare indefinitamente un unico tema di base: la frustrazione delle aspettative, siano esse individuali, di gruppi sociali o addirittura generazionali, servendosi di stilemi e modalità molto vicine all’output televisivo. Clementi è un serial-writer, mi si perdoni il termine, quasi come i capocomici di cui parla Viviana nella recensione (quelli che avevano un consolidato repertorio di svariate commedie contemporaneamente allestibili nel corso di una stagione) che potrebbe però esercitare meglio il suo indubbio talento puntando più sulla qualità in luogo della quantità. Ovviamente la mia è un’opinione personalissima, e come tale la esprimo. Per quanto riguarda TeC, è auspicabile che non vi limitiate al solo teatro “alto e altro”, ci mancherebbe, ma forse è il caso di inquadrare con più fermezza le proprie scelte, motivandole e soppesandole: Pinter e Clementi non sono, e non saranno mai, la stessa cosa.

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