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Il limite di non avere limiti: il Riccardo III di Angélica Liddell

foto Futura Tittaferrante
foto Futura Tittaferrante

Che bello quando il teatro sa ancora dividere. Fuori dalle sale d’Italia, in piccoli festival o in stagioni blasonate, si mantiene intatta per ogni tipo di pubblico la pratica insostituibile di domandarsi note sullo spettacolo, manifestare dunque volontà di relazione, che sia più o meno approfondita, capace d’analisi o legata a un semplice sì o no. Non si usa, quasi non più, uscendo dai cinema o ancor meno parlando di libri o fuori dalle mostre d’arte, confrontare la propria visione, porre in atto la propria posizione pro e contro ciò che si è appena visto. Tale atteggiamento è sintomo evidente di una comunità ancora viva, in continuo riformarsi quando si crede sparita, figlia di padri distratti ma in crescita nonostante tutto, animata da uno spirito inguaribile di condivisione e prossimità. È accaduto con netta evidenza, tutto questo, appena fuori il magnifico Teatro alle Tese dell’Arsenale di Venezia, per la Biennale Teatro 2013 che ha ospitato El año de Ricardo della performer argentina Angélica Liddell, premiata con il Leone d’Argento.

Artista di formidabile presenza scenica, nata a Figueras (Girona) nel 1966 e morta per sua stessa ammissione nel 2008 chissà dove ma sicuramente sul palco, la Liddell è una “hija de puta” (la definizione è sua) che non risparmia nulla di sé stessa, porta alle estreme conseguenze una carica eversiva che recepisce la scena come luogo detonante, perimetro geometrico di cui sfruttare ogni lembo perché nulla, nello spazio, resti intentato. El año de Ricardo è uno spettacolo del 2005 (quindi realizzato ancora in vita) ed è una molto personale versione del Riccardo III di Shakespeare, condotta con uno spirito provocatorio che non conosce limiti o, ancor meglio, non ne concepisce.
Un grande rettangolo di rosso tappeto, calpestato da Ricardo e dal suo fido Catesby in abito nero, silenzioso servitore della scena e della sovranità, presenza costante e che sviluppa con coscienza complementare ogni piccola azione del suo essere accessorio. Il lato esterno, il fondale, è coperto da un muro di balle di fieno rettangolari, di quelle messe a protezione dagli urti e che stavolta proteggono le loro spalle dagli urti della democrazia – «giuro che vi farò ingoiare la fiducia nella democrazia», dice Ricardo al suo popolo che fischia e disapprova – e l’esercizio del potere attraverso promesse sceniche covate in cantucci dispersi sulla scena: un letto in fondo, una tomba a terra con un omaggio di fiori, un catino per il lavaggio dei piedi, bilancieri da palestra, all’estrema destra (!) il cinghiale enorme raffigurato sulla bandiera con cui sfilò il dittatore spagnolo Francisco Franco.

foto Futura Tittaferrante
foto Futura Tittaferrante

All’interno: lei. In pigiama di seta e gilet nero. Ma non per molto. Molto presto inizierà a denudarsi, vituperare il proprio corpo con ogni mezzo concesso dall’immagine, disprezzare la sua figura che per questo si fa ancora più forte: si tende in posizioni sciatte, si maltratta il sesso, urina in un catino con cui si laverà la faccia, si riempie di birra fino a trasformare la sua presenza in ebbra (vera o presunta) molestia. «Il mio corpo è la fine del mondo», recita Ricardo, investe con un profluvio di parole ogni cosa gli capiti a tiro, esercita il linguaggio con una furia che solo una donna sa rendere credibile, si sfinisce sconfiggendo ogni concetto di training, a sorsate di birre che lascia, vuote, per tutta la scena, in un’atmosfera che la luce bassa sul rosso e il giallo paglierino rende suadente e contemporaneamente macabra, ingigantendo le loro ombre sulla parete fondale con una sensazione appena intuita di sangue inespresso, taciuto, che sia del cinghiale, dei rivoluzionari, del popolo tutto, il suo.

Provocatoria, inguaribile. Punk. La Liddell – salutata con onori regali appena poche settimane prima ad Avignone (leggi l’articolo di F. Cordelli) – esagera per istituto, per intenzione costitutiva. Ma lungo lo spettacolo inizia a prendere corpo una sensazione che qualcosa non torni: la provocazione così estremizzata perde pian piano intensità e necessità, lascia aperti fori troppo grandi per non vedere l’inconsistenza della sua conformazione drammaturgica, il gesto provocatorio diventa dunque vano, esclusivamente estetizzante. E allora perde di forza la sua ferocia, finendo per annientarsi da sé stessa.
In ultimo, una citazione occorre per un’ingrata scelta compositiva: la Liddell (chissà perché Ricardo) si lancia in una lettura derisoria della poesia che introduce Se questo è un uomo di Primo Levi, gettando un disprezzo smisurato e gratuito sulla figura dello scrittore torinese deportato ad Auschwitz e sulla memoria in sé. Superando certo antisemitismo scenico che si è fortunatamente fermato agli anni ’90, in una scelta così sciatta e pericolosa, fatta per il solo gusto di essere “provocatori”, si stringe il nodo del suo spettacolo squilibrato cui l’autrice non sa dedicare misura, ignorando che un artista è grande e maturo quando capace di severità con sé stesso, prima che verso gli altri.

Divide, fuori dalla sala, questo spettacolo. Non si discosta troppo invece il commento su questa seconda Biennale di Àlex Rigola, giocata un po’ troppo al sicuro di grandi spettacoli internazionali che Massimo Marino su doppiozero.it definisce opportunamente «un’antologia», una retrospettiva che poco punta sulla produzione pur avendo molte più risorse di tanti festival decadenti. Gianfranco Capitta invece su Il Manifesto (scarica il pdf) si arrischia a leggere la presenza dei tanti partecipanti ai workshop di Biennale College come un non troppo celato tentativo di avere pubblico già in seno (ma qual’è questo pubblico normale di cui si lamenta invece assenza?) e accenna al presunto disagio delle loro condizioni, quando invece 100 euro per un workshop di una settimana con un grande nome internazionale, garantendo una certa scontistica per gli spettacoli (forse troppo poche le convenzioni per gli alloggi e troppo alti – 25 euro – i prezzi dei biglietti interi), sembrano un’offerta formativa di buon equilibrio fra l’attività culturale e la beneficenza. Conclude la Biennale e torneremo alle sparute stagioni in cui quasi nessuno degli spettacoli visti avrà residenza, salvo poche e rapide occasioni. Questo è ciò che prefigura il festival lagunare d’agosto? Se così fosse sarà il caso – come dice Marino – che si ritorni a rischiare, riaffermare l’impazienza dell’azione nell’urgenza artistica, mettere in scena – e quindi in vita – una rinascita, di cui solo è capace il teatro.

Simone Nebbia

Visto alla Biennale Teatro 2013 in agosto

Leggi tutti gli articoli sulla Biennale Teatro di Venezia

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Fotografie di Futura Tittaferrante- ©tutti i diritti riservati

El año de Ricardo (120’)
prima italiana
regia, scene, costumi e testo Angélica Liddell
con Angélica Liddell, Gumersindo Puche
luci Carlos Marquerie
produzione Atra Bilis Teatro, Iaquinandi SL
con il supporto del Governo Regionale di Madrid e dell’INEAEM del Ministero della Cultura Spagnolo
con il sostegno di AECID-Agenzia Spagnola per la Cooperazione Internazionale e lo Sviluppo e dell’Ambasciata di Spagna

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