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Discorsi alla nazione: Celestini e i dolori di un tiranno

Discorsi alla nazione
Foto di M. Iacovelli e F. Zayed

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Un tiranno, per essere tale, ha bisogno di una nazione. Quando i cittadini si manifestano come espressione collettiva e quindi si fanno popolo, non sono ancora organizzati e la tirannia non può essere esercitata, o meglio, è in incubazione nei discorsi e nelle idee del capopopolo. Sarà soltanto nel momento dell’aggregazione organizzata, dell’accentramento nucleare, che il popolo sarà nazione e il cantore dello sviluppo istituzionale democratico potrà senza intoppi esercitare il suo fine primario: appunto, la tirannia. Sul palco di questo comizio promesso, con queste intenzioni declamatorie ancora in nuce sono i Discorsi alla nazione che Ascanio Celestini porta in scena sul palco del Teatro Palladium, a margine di una guerra civile che non accenna a terminare e che blocca i tentativi del tiranno di poter fare un discorso certo, non in corso d’opera, non con il rischio che gli eventi ne inducano modifiche all’impianto e quindi alla struttura, che del dettato è fondamento.

Una scena scombinata, di pochi frugali elementi come i lampioni di luce tenue o la catasta di oggetti nel mezzo che forse – ma non è detto – userà. È allora tra questi elementi desolanti, questa cianfrusaglia di cose inerti che giace il paese sotto coperta, quello che sta combattendo e contemporaneamente vedendo combattere la propria guerra o la guerra d’altri. In pochi possono dirlo davvero. In questo silenzio d’interni mentre fuori piove o almeno imperversa un rumore sinistro (ottima la sonorizzazione ambientale) che alle intemperie, vere o presunte, farà pensare, la prova del discorso si articola mettendo a punto soluzioni retoriche assodate, come ci fosse una lingua del potere che attraversa tutti i “discorsi” – plurale – e che anzi di ogni “discorso” – singolare – è fondamento: l’uso del plurale è allora primo elemento di retorica, prima definizione di finalità, prima pietra della sua costruzione. Al centro dello spazio di “prova” e con l’andare del monologo, anzi dei “monologhi”, Celestini inizia a comporre una struttura in legno, accatastando geometricamente alcune travi che saranno la sua pedana, edifica cioè concretamente una sintassi, composta in egual misura di lingua e di visione. Sa bene dunque, Celestini, come sia accurata l’espressione dei potenti, come sia frutto di una regia quasi teatrale la ricerca dell’equilibrio fra i due elementi: la parola e l’immagine.

Discorsi alla nazione
Foto di M. Iacovelli e F. Zayed

Celestini compone i suoi racconti in un ipotetico condominio, i cui abitanti in prima persona sviluppano un passaggio dal positivo al negativo (quindi ancora in un proposito di retorica) molto simile alla violenza straniata, di maniera fiabesca, usata per La fila indiana, quel passaggio attraverso le contraddizioni della coscienza che dall’apparenza pian piano produce agghiacciante una verità intima, altrove impronunciabile. C’è un interno in cui si sviluppa l’attesa di questi personaggi-simbolo dell’uomo comune, marginali espressioni di una comunità sfilacciata perché la guerra finisca, un esterno in cui la guerra si fa, pur se non si è capito chi la sta combattendo; nel mezzo il nuovo portiere del palazzo, l’unico con vista esterna, l’unico a darne conto attraverso il filo del telefono.

Nel precedente spettacolo pro patria, il protagonista detenuto preparava il suo discorso per una nazione ancora da farsi, in dialogo con un interlocutore immaginario, quel Giuseppe Mazzini grande rimosso della storia d’Italia. Ora invece, rimossa o meno, l’Italia una storia ce l’ha ed è fatta di discorsi molto simili, qualunque sia stato il percorso e dunque il mandato politico che li ha generati. Ma ecco il punto, i “discorsi”, al plurale: se in pro patria la presenza di un testo drammaturgico derivato da un’idea forte e concreta sapeva generare in scena la stessa forza, in questo caso i racconti sembrano più confusi, non sembra chiara per lo stesso Celestini (pur denunciando lo stato di studio di uno spettacolo che, a onor del vero, è in questa fase da troppo tempo) l’intenzione, il vero suo “discorso” da fare al pubblico, così prende strade incerte figlie più dei suoi frammenti televisivi che delle sue epopee popolari, disperdendo la facoltà d’attrazione che la sua parola sa generare e non riuscendo, quindi, nella composizione di quella scenografia verbale fatta di affondi concreti e magie sospese che è la scintillante caratteristica del suo teatro. Quando, appunto, torna a fare teatro.

Simone Nebbia

Ascolta il podcast

In scena al Teatro Palladium fino al 19 maggio 2013

DISCORSI ALLA NAZIONE
di e con Ascanio Celestini

info su www.ascaniocelestini.it

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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