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Arte e potere. Il conflitto irrisolto di Harwood secondo Luca Zingaretti

foto di Bepi Caroli

Anche e soprattutto adesso, in quest’Italia spaccata da fallimentari votazioni, ci si chiede da che parte stare; a cosa aderire, in cosa credere, cosa sia possibile continuare a perdonare. A quanto pare dare una risposta univoca non è per nulla scontato. Non sembra invece essere difficile schierarsi per alcuni personaggi della Torre d’avorio, in scena al Teatro Eliseo fino al 24 marzo. Attraverso questo brillante dramma scritto dal drammaturgo e sceneggiatore inglese Ronald Harwood nel 1995, Luca Zingaretti, qui regista e interprete, sceglie di affrontare tematiche tanto complesse quanto ancora irrisolte, interrogandosi su rapporti e influenze tra due forze all’apice delle loro manifestazioni: l’arte e il potere.

Berlino 1946, processo di Norimberga in corso. In un ufficio militare americano sono in atto delle inchieste preliminari riguardanti il processo di denazificazione; una lista di indagati negano tutti con forza l’adesione al partito; l’attenzione si concentra sulla eccezionale figura del direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, sull’ambiguità del suo ruolo nella Germania del Terzo Reich. A capo dell’inchiesta il Maggiore Steve Arnold. Zingaretti dà vita a questo americano dal passato di assicuratore, ragazzone rozzo ma appassionato che chiama per nome tutti – vengono abbattute le distanze anche verso “Adolf” – , che odia la musica e che vorrebbe un giudizio severo per chiunque abbia simpatizzato anche alla lontana con il nazismo. D’altro lato Furtwängler, fermamente convinto di poter migliorare il mondo attraverso la musica, dicendosi estraneo alla politica dichiara di aver cercato di salvare diversi musicisti ebrei, aiutandoli a superare il confine. Tuttavia anche il personaggio di Massimo De Francovich nasconde zone più oscure, umane debolezze e momenti in cui la sua “presenza neutrale” finì per essere asservita suo malgrado al potere dittatoriale. Al centro di tutto si trova la musica. Ed è la musica a sancire i passaggi che ci accompagnano in scena. In apertura, il suono extradiegetico di una sinfonia a sipario chiuso ci conduce direttamente nel vivo rivelando la presenza del grammofono che il Maggiore ordina immediatamente di spegnere. Così come sarà l’adagio di Bruckner suonato durante i funerali di Hitler nell’esecuzione diretta dall’incriminato a comprovare, sempre secondo il Maggiore, l’effettiva adesione all’ideologia nazista.

foto di Bepi Caroli

Lo svolgimento dello spettacolo – dalle scenografie (buono anche il lavoro di luci e costumi improntati a un realismo asciutto) e dal taglio fortemente cinematografici – rispecchia un’attenzione ritmica fatta di accelerazioni e silenzi, che riguardano tanto il progressivo andamento dell’inchiesta, quanto l’emotività dei personaggi: la cieca condanna del compositore da parte del Maggiore, le perplessità del tenente inglese amante della musica, o ancor di più della sconcertata segretaria del Maggiore,  la quale – nonostante il suo esser fervente antinazista –  fatica a non riconoscere in Furtwängler la grandezza del compositore al di là del suo coinvolgimento nel Reich. Ad accentuare questa composizione, i cui strumenti sono le azioni, le motivazioni e le parole dei protagonisti e di personaggi minori, come la vedova di un pianista ebreo aiutato dal direttore (quasi un cammeo della brava Elena Arvigo, in bilico tra disperazione e follia) o Helmuth Rode, secondo violino d’orchestra entrato solo successivamente al licenziamento di musicisti ebrei ben più validi che baratterà la fedeltà al Maestro con un lavoro.

«Tu mi parli di cultura e musica mettendoli sullo stesso piano di milioni di morti», urla Arnold. È un’affermazione che brucia, che non lascia indifferenti. Ma l’uomo non è solo carne e sangue, sostiene l’altra faccia della medaglia ed è vero anche che «ogni volta che qualcuno ascolta Wagner gli uomini si liberano. La musica trascende le lingue, se lei crede che l’unica verità sia quella materiale allora non le rimarranno che incubi». Affermazioni che sembrerebbero troppo universali, che nel contesto del dramma e nell’interpretazione di Zingaretti e De Francovich risultano tuttavia credibili. Se il titolo originale, Taking sides, chiedeva esplicitamente allo spettatore una presa di posizione, questa versione resta aperta, anche grazie a un finale tronco e improvviso, a inchiesta non ultimata.

Viviana Raciti

Visto presso il teatro Eliseo
In scena fino al 24 marzo 2013

LA TORRE D’AVORIO
di Ronald Harwood
traduzione di Masolino d’Amico
con
Luca Zingaretti, Massimo De Francovich
e con Peppino Mazzotta, Gianluigi Fogacci, Elena Arvigo, Caterina Gramaglia
scene Andrè Benaim
costumi Chiara Ferrantini
luci Pasquale Mari
regia Luca Zingaretti

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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